venerdì 12 dicembre 2014

Vintage necrofilo e una concezione postmoderna della storia

Ha ragione il giornalista a usare il termine tipicamente modaiolo di "vintage" per definire questa operazione di marketing-nostalgia. Pur con l'ingenuità e l'improvvisazione del caso, si tratta infatti di un uso tutto (inconsapevolmente) postmoderno del passato, ispirato più che al materialismo storico alla concezione della temporalità tipica dei sequel hollywoodiani. Una concezione in base alla quale la storia non si muove, o al limite è il luogo di un falso movimento; una compresenza intemporale di frammenti irrelati, ciascuno dei quali può essere scongelato e riaggiustato a piacimento, senza nessun rapporto con il contesto, secondo le esigenze del momento.
Marx, cui piaceva prendere in giro la mania giacobina di imitare gli antichi Greci o gli antichi Romani, si farebbe oggi due risate: come se qualcuno, nel 2014, volesse appunto riesumare il Club dei giacobini o la Gironda.
Si potrebbero dire tante cose ma una basta e avanza: purtroppo il tempo è irreversibile e l'entropia cresce a dispetto del nostro bisogno di consolazione. Il passato è passato, una storia si è conclusa e dovremmo semmai pensare all'oggi e non certo alla prima metà del XX secolo o agli anni Cinquanta. Questa operazione paga perciò pegno ai buoni sentimenti e alle buone intenzioni negando la storicità del reale, l'esistenza stessa della storia, il movimento del tempo in connessione con il movimento delle contraddizioni reali. Ed è perciò la certificazione di una catastrofe culturale. Ci vorrebbe più rispetto, quantomeno verso la nostra storia [SGA].


La decisione del comitato centrale del partito fondato da Armando Cossutta: "Vogliamo rilanciare una soggettività comunista più grande". Ma in Italia le sigle comuniste sono già undici

di MATTEO PUCCIARELLI Repubblica 11 12 2014

Resa dei conti nel Pd Scacco alla minoranza
D’Alema lancia un messaggio di guerra: “Delrio non minacci”
di Carlo Bertini La Stampa 12.12.14
Assicura di non voler le urne anticipate ma domenica all’assemblea Pd Matteo Renzi gliele canterà di santa ragione, raccontano i suoi: additando quelli che «fanno giochetti» per sabotare le riforme, l'unica ancora di salvezza con l’Europa. E dopo aver picchiato duro, non solo farà votare dai mille delegati un documento sulla corsa delle riforme, per dimostrare che la minoranza è isolata.
Cadono le prime teste
Ma tirerà una linea tra ieri ed oggi, basta gestione collegiale con le correnti avverse: dunque via dalla segreteria la bersaniana Campana (citata pure nell’inchiesta su Roma per gli sms a Buzzi) e il cuperliano De Maria. Sub judice la candidatura a governatore toscano di Enrico Rossi, tanto che l’assemblea del Pd regionale di sabato è stata rinviata a gennaio. Insomma, fin qui Renzi è stato troppo generoso, ora è sotto ricatto e la musica cambia, spiegano i suoi. Ha dunque un bel dire la Bindi, «io non ho paura delle urne perché la finisco qui, ma dopo anni che aspetto vorrei votarla una buona riforma costituzionale, magari lasciando un Senato che non sia scendiletto del governo di turno». Perché tutti i tentativi di convincere che si cerca solo di migliorare i testi non sono presi sul serio. «Eccoli di nuovo in azione: la premiata ditta Bindi-D’Alema all’opera, ma non riusciranno a fermare il Pd e le riforme, hashtag “ancora tu”», twitta la Serracchiani. «La minoranza ha lanciato un segnale politico? Ne parliamo domenica», avverte il premier. Determinato a drammatizzare con la resa dei conti quell’incidente dell’altro ieri che verrà corretto in aula:la fronda dei pasdaran aveva preso l’impegno a non votare contro il capogruppo in commissione sulla riforma del Senato, «e quel patto è stato violato».
Trappola sull’Italicum
Perché quando tre giorni fa la minoranza evocò la possibilità di farsi perfino sostituire in commissione per non votare la riforma del Senato indigesta, Speranza e Guerini stopparono l’Aventino e si siglò quel patto: che sarà di nuovo infranto, visto che la minoranza dei duri non molla su un emendamento che dà alla Consulta il giudizio preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale. Per Renzi è la prova che si vuole far finire in soffitta l’Italicum, già bombardato da 12 mila emendamenti al Senato, sfornati da Calderoli. Il premier è infuriato, qualcuno in commissione ora sarà sostituito per blindare la maggioranza. Ma non si fa illusioni sul fatto che gli agguati possano finire. Se per rispondere a Delrio («la sinistra dica se vuole votare») è sceso in campo D’Alema, «pensi alla crisi invece di minacciare i parlamentari», è il segnale che la partita è più grossa. «Parole che svelano come tutto ruoti attorno alla futura guerra per il Quirinale», ragiona un membro del governo. E se il presidente della Commissione Bilancio, il lettiano Francesco Boccia consiglia a Renzi di «non citare la troika perché vuol dire che non è all’altezza del lavoro che fa», si capisce il livello di guardia che raggiungerà lo scontro...

Delrio-D’Alema, lite sulle urne anticipate
«La minoranza vuole le elezioni, fa vecchia politica» L’ex premier: basta minacce ai parlamentari
di Monica Guerzoni Corriere 12.12.14
ROMA I «dem» della minoranza non ci stanno a passare da gufi, frenatori e interpreti della «vecchia politica», per usare l‘espressione sferzante con la quale li ha ammoniti Graziano Delrio. E la febbre nel Pd è così alta che Massimo D’Alema respinge come «stupefacente» il fatto che «una persona ragionevole come il sottosegretario Delrio non trovi di meglio che minacciare i parlamentari». Parole che infiammano lo scontro in vista dell’assemblea nazionale di domenica, quando Renzi potrebbe chiedere un voto per isolare i dissidenti. «Basta con gli avvisi disciplinari e muscolari — replica Alfredo D’Attorre — E avanti con le riforme».
Tensione alta, parole aspre e appelli alla pacificazione. Tutto per quel voto di mercoledì in commissione Affari costituzionali della Camera, che ha mandato sotto il governo su due emendamenti congegnati per eliminare i senatori a vita. Palazzo Chigi ci ha visto un agguato premeditato e la conferma che la minoranza stia correndo verso la scissione. Il che ha scatenato sospetti e accuse, con i renziani che imputano alla sinistra la voglia di sabotare le riforme e i non renziani che smentiscono complotti. «Se la minoranza vuole andare a votare lo dica» attacca Delrio, accusando Cuperlo, Bindi e compagni di praticare la «vecchia politica». Per il sottosegretario quel che è successo «non esiste», c’era «un accordo» per andare avanti sulle riforme. Ma Giuseppe Lauricella, autore dell’emendamento contestato, nega: «Non c’è nessun piano per frenare le riforme, ma non c’è neanche il patto di cui parla Delrio. Sono attacchi strumentali». Gufa, onorevole? «Per la mia lealtà sono stato elogiato dal relatore Fiano, finché tutto di un colpo divento un sovversivo perché ragiono col mio cervello. È incomprensibile, sono dispiaciuto... La verità è che Renzi sta cercando di inventarsi un nemico».
I renziani sussurrano parole come vendetta, avvertono che domenica sarà il segretario a mandare «un segnale» e fanno balenare un voto per isolare i ribelli. «Non è buona norma mandare sotto il governo» ammonisce Matteo Orfini e conferma il rischio di una conta interna.
Gli esponenti della minoranza si sentono vittime di un ostracismo. Rosy Bindi consiglia a Renzi «molta prudenza», giura che «non c’è stato nessun agguato» e chiede una buona riforma: «Se la Boschi sarà orgogliosa di cambiare la Costituzione alla sua prima legislatura, io sarò felice di votarla alla mia ultima». E a Renzi la presidente dell’Antimafia ricorda che sulla Costituzione «non esistono disciplina di partito, né vincolo di fiducia», in linea con D’Alema quando sostiene che i parlamentari «hanno il diritto e il dovere di migliorare testi che restano contraddittori e mal congegnati, malgrado il notevole impegno della relatrice».
Nel mirino dei renziani c’è pure Enzo Lattuca, per aver parlato del voto in commissione come di un «segnale». Ma anche il più giovane dei deputati assicura che «non c’è alcun disegno organico per far saltare le riforme». Cuperlo invita a ritrovare il senso della misura: «Abbiamo avuto un atteggiamento di grande responsabilità, ritirando emendamenti che mettevano in discussione l’impianto della legge». Ma si litiga anche sul voto anticipato. Per Zoggia è «fantapolitica», Boccia invece dà polemicamente ragione a Giachetti: «Se nel Pd non ci si può più confrontare andiamo al voto, con il Consultellum». E D’Attorre attacca: «Renzi la smetta di utilizzare le urne come una minaccia, perché non spaventa nessuno. Sarebbe la certificazione del suo fallimento».


La resa dei conti di Renzi con la minoranza del Pd
“Basta con D’Alema e Bindi, in Assemblea chiudo i giochi” L’ex segretario Ds attacca il sottosegretario Delrio: “Non può minacciare i parlamentari”. Il premier: “E allora pubblico i bilanci della segreteria Bersani”
di Francesco Bei Repubblica 12.12.14
Due partiti ormai convivono sotto lo stesso tetto democratico. E ogni pretesto è buono per darsele di santa ragione. Dopo “l’incidente” di mercoledì alla Camera, quando la minoranza dem ha votato con le opposizioni in commissione affari costituzionali, mandando a gambe all’aria il governo, ieri i toni sono saliti alle soglie della rottura. Persino un moderato come il sottosegretario Graziano Delrio, incrociando un cronista dell’ Agi, si è lasciato andare a uno sfogo pesante: «Se la minoranza del Pd vuole andare a votare lo dica. Gli incidenti parlamentari possono anche capitare, ma quello che è successo ieri non esiste. Basta segnali di vecchia politica». Un colpo al quale ha subito risposto per le rime Massimo D’Alema: «È stupefacente che una persona ragionevole come il sottosegretario Delrio non trovi di meglio che minacciare i parlamentari». E così via, Boccia contro Renzi, D’Attorre contro Delrio, Chiti contro Giachetti, in un crescendo di minacce e ripicche. Quanti ai «segnali politici» che la minoranza ha inteso dare sulle riforme costituzionali, da Ankara il premier risponde sibillino: «Ne parliamo domenica all’assemblea del Pd. Per me comunque la legislatura finisce a febbraio 2018». Un rinvio a domenica per la resa dei conti interna, in quello che si preannuncia come un vero mini-congresso democratico. Un appuntamento che il segretario concepisce come una sorta di tribunale interno per isolare e colpire definitivamente l’opposizione interna.
L’umore che dalla Turchia corre sul filo delle telefonate fatte da Renzi ai suoi è nero. «Sono stufo di queste critiche sprezzanti dei vari Bindi e D’Alema», ripete in privato il capo del governo. «Rieccoli, la premiata ditta Bindi-D’Alema di nuovo in azione», chiosa Debora Serracchiani. La minaccia del segretario sa di arma finale. «Volevano mandare un segnale? Lo manderò anch’io. Per esempio mettendo online i bilanci del Pd durante le segreterie di Epifani e Bersani». L’assemblea, il suo esito, sarà dunque «vincolante» per tutti. Renzi presenterà un documento («vergato di mio pugno») sulle riforme e, come accaduto in Direzione, lo metterà ai voti. A quel punto nessuno potrà far finta di non aver capito. I renziani sono anche più neri del capo. Il tam-tam tra i fedelissimi suona come una campana a morto per la segreteria unitaria, dove siedono Micaela Campana (bersaniana) e Andrea De Maria (cuperliano). «Le loro poltrone traballano», riferiscono dal giglio magico. Le possibili ritorsioni, i «segnali» come li chiama il premier, non si contano. Al punto che, «per il bene del partito» s’intende, il segretario potrebbe sospendere le primarie in Toscana. E colpire così il governatore Enrico Rossi, facendo magari balenare l’ipotesi di un cambio di cavallo. «La verità - spiega Michele Anzaldi in un corridoio della Camera - è che con “loro” Renzi è stato fin troppo generoso. Hanno le presidenze di commissione, hanno posti in segreteria, fanno quello che vogliono, mentre il presidente del Consiglio ha solo due ministri “renziani”, la Boschi e Gentiloni».
A bruciare più di tutto è quel voto che ha cancellato i senatori a vita. Non tanto per il merito, ovviamente, quanto per il colpo inferto all’immagine del premier. «Il governo ha fatto una forzatura - ricostruisce Alfredo D’Attorre - non c’era nessun accordo e la Boschi è voluta andare al voto comunque. Renzi è irritato? Noi più che lavorare di notte nei weekend che possiamo fare?». Roberta Agostini, un’altra della minoranza, insiste che «non è interesse di nessuno sabotare le riforme, ma quello che si può migliorare va migliorato». Una lettura minimale che non è condivisa da chi regge oggi le sorti del Pd. A partire dal presidente Orfini: «Hanno mandato sotto il governo. A che gioco giochiamo?». Tanto che si riparla di una sostituzione dei “ribelli” in prima commissione, un atto che sarebbe una vera dichiarazione di guerra.
Se a Montecitorio si gioca duramente, a palazzo Madama le cose non vanno meglio. Il cammino dell’Italicum infatti è a rischio, sommerso com’è da una valanga di 12 mila emendamenti e migliaia di sub-emendamenti, in gran parte escogitati da Roberto Calderoli. Oltre millecinquecento arrivano anche dai frondisti e fittiani di Forza Italia e Gal. «L'intento è ostruzionistico», ammette Augusto Minzolini. Anche la minoranza dem non resta con le mani in mano con una ventina di emendamenti. Miguel Gotor, in particolare, insiste affinché i capilista non siano bloccati «perché deve essere restituito ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari soprattutto in vista del fatto che avremo solo una Camera politica». Insomma, l’obiettivo di Renzi di spedire in aula il testo prima di Natale a questo punto sembra sfumato, a meno che gli emendamenti non vengano ritirati. Calderoli è disposto a farlo solo in cambio di «una legge elettorale equilibrata».
Nico Stumpo, bersaniano, di fronte al campo di battaglia in cui si è trasformato il Pd, riscopre un antico proverbio di Sezze: «Quando due ciechi si prendono a sassate si fanno male tutti». Un invito ad abbassare i toni, altrimenti a rimetterci sarà tutto il partito.

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