giovedì 8 gennaio 2015

Capitalismo e società dello spettacolo

L'économie de l'attentionYves Cit­ton: L’économie de l’attention. Nou­vel hori­zon du capi­ta­li­sme?, La Décou­verte, pp. 321, euro 24

Risvolto

Depuis une vingtaine d'années, on entend dire qu'une « nouvelle économie » est en passe de supplanter les anciens modes d'échange des biens matériels - une économie dont l'attention constituerait la première rareté et la plus précieuse source de valeur. À quoi ressemble donc cette économie de l'attention ? Quels nouveaux outils sont nécessaires pour en comprendre les mécanismes ? Que faut-il en craindre ou que pouvons-nous en espérer ?
Des neurosciences à la sociologie, de la création de logiciels à la philosophie éthique, une grande diversité de disciplines sont convoquées ici pour éclairer l'économie de l'attention à partir de multiples perspectives critiques. Il en ressort qu'il est aujourd'hui indispensable de penser le destin de nos économies en termes d'attention - mais qu'il serait calamiteux de laisser les seules logiques capitalistes reconfigurer nos régimes attentionnels.
Remède au productivisme forcené qui épuise nos ressources matérielles, ou symptôme de la colonisation qui soumet nos esprits à l'emprise du capital ? L'économie de l'attention ne se situe pas seulement au carrefour des disciplines : elle est surtout au carrefour des chemins où se tracera notre avenir.


Alla conquista dell’attenzione 
Società dello spettacolo. La messa in scena della sofferenza individuale è diventata il modello dominante delle relazioni sociali e dei rapporti tra imprese e consumatori. Un percorso di lettura su un processo storico che ha le sue radici nel capitalismo ottocentesco

Vanni Codeluppi, 24.12.2014 

In una società domi­nata dagli intensi flussi comu­ni­ca­tivi, può essere con­si­de­rato ancora impor­tante il ruolo rive­stito dallo spet­ta­colo, forma comu­ni­ca­tiva con­cen­trata e unica? Appa­ren­te­mente, infatti, il modello dello spet­ta­colo appar­tiene ad un’epoca pre­ce­dente a quella con­tem­po­ra­nea, nella quale è richie­sta ai sin­goli una con­nes­sione costante alla Rete e ai suoi flussi e dove la strut­tura chiusa che carat­te­riz­zava le opere tra­di­zio­nali (film, com­me­die, varietà, ecc.) è ridotta a fram­menti con­ti­nua­mente cir­co­lanti. In realtà, oggi siamo ancora, e più che mai, all’interno di una «società dello spet­ta­colo». Infatti, pro­prio l’imporsi cre­scente di un flusso comu­ni­ca­tivo che tende ad assor­bire e omo­lo­gare ogni cosa rende indi­spen­sa­bile riu­scire ad emer­gere da tale flusso con eventi spet­ta­co­lari di grande impatto. Ciò vale per i sin­goli, costretti a raf­for­zare la pro­pria pre­senza nel Web rac­con­tando ed esa­ge­rando i det­ta­gli più intimi della pro­pria vita e pren­dendo con­se­guen­te­mente come modello di rife­ri­mento i divi del mondo dello spet­ta­colo. Ma, più che gli indi­vi­dui, sono le imprese a ricor­rere alla for­mula dello spet­ta­colo e a cer­care di cat­tu­rare l’attenzione di con­su­ma­tori sem­pre più distratti per tra­sfor­mare tale atten­zione in valore eco­no­mico. Non è un caso per­ciò che oggi si parli sem­pre più fre­quen­te­mente di «eco­no­mia dell’attenzione». 

Eco­no­mia mentale 
L’adozione da parte del sistema capi­ta­li­stico del modello dell’economia dell’attenzione pro­duce delle con­se­guenze che vanno con­si­de­rate atten­ta­mente, per­ché non hanno una natura sola­mente eco­no­mica, ma anche cul­tu­rale e sociale. Yves Cit­ton, pro­fes­sore di let­te­ra­tura all’Università di Gre­no­ble e diret­tore della rivi­sta Mul­ti­tu­des, ha recen­te­mente rac­colto le rifles­sioni su tali con­se­guenze di autori pro­ve­nienti da diverse disci­pline nel volume L’économie de l’attention. Nou­vel hori­zon du capi­ta­li­sme? (La Décou­verte, pp. 321, euro 24). Il punto di par­tenza delle rifles­sioni con­te­nute nel volume è l’idea che l’economia tra­di­zio­nale si è sem­pre basata sulla ricerca di una mas­si­miz­za­zione della pro­du­zione di beni mate­riali a par­tire da risorse scarse, men­tre oggi invece la situa­zione sem­bra essersi rove­sciata. Vale a dire che quello che in appa­renza suc­cede al sistema eco­no­mico è che tende a tra­sfor­marsi in una spe­cie di «capi­ta­li­smo men­tale» i cui beni sono in gran parte cul­tu­rali e dun­que non pon­gono par­ti­co­lari pro­blemi dal punto di vista della loro pro­du­zione. Al punto che ven­gono spesso offerti gra­tui­ta­mente alle per­sone, come suc­cede ad esem­pio nel Web con aziende come Goo­gle, Face­book o You­Tube. La risorsa che è diven­tata scarsa è invece il «capi­tale atten­zio­nale» di cui dispon­gono i con­su­ma­tori, per­ché que­sti sono quo­ti­dia­na­mente bom­bar­dati da pro­po­ste di vario tipo. 
Il pro­blema dun­que per il sistema capi­ta­li­stico è di riu­scire ad otti­miz­zare la capa­cità degli indi­vi­dui di rice­vere, assor­bire e dige­rire una pro­du­zione sovrab­bon­dante di beni culturali. 
Come ha osser­vato Yves Cit­ton nell’introduzione del volume L’économie de l’attention, la realtà eco­no­mica e sociale che abbiamo di fronte non è esat­ta­mente basata su un capi­ta­li­smo pura­mente «men­tale», per­ché la pro­du­zione dei beni cul­tu­rali ha ancora la neces­sità di sfrut­tare la mano­do­pera ope­raia (soprat­tutto cinese), deve ricor­rere a un con­sumo ele­vato di ener­gia e non può fare a meno d’impiegare alcuni metalli rari. È vero però che il nuovo modello dell’economia dell’attenzione è venuto ad aggiun­gersi al modello eco­no­mico tra­di­zio­nale, seb­bene que­sto non sia mini­ma­mente messo in discus­sione e anzi con­ti­nui ad ope­rare attra­verso le stesse moda­lità che ha sem­pre utilizzato. 
Tra i nume­rosi con­tri­buti pre­senti nel volume di Cit­ton, rive­ste un par­ti­co­lare inte­resse quello che è stato fir­mato dallo sto­rico dell’arte Jona­than Crary, anche se in realtà riprende alcune parti del suo volume Suspen­sions of Per­cep­tion, uscito qual­che anno fa negli Stati Uniti e non ancora tra­dotto in Ita­lia e Fran­cia. La tesi di Crary è che il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo è costretto a fare i conti con una «crisi per­ma­nente dell’attenzione», la quale ha comin­ciato a mani­fe­starsi già nell’Ottocento durante la seconda rivo­lu­zione industriale. 

La crisi è permanente 
È stato l’intensificarsi del pro­cesso d’industrializzazione a dare vita ad uno spa­zio urbano, sociale, psi­chico e indu­striale sem­pre più satu­rato di sti­moli sen­so­riali e a gene­rare pro­blemi come la neces­sità di man­te­nere ele­vate la con­cen­tra­zione della mente dell’operaio alla catena di mon­tag­gio e l’attenzione del con­su­ma­tore rispetto ad una pro­du­zione di beni sem­pre più abbon­dante. Tali pro­blemi sono stati affron­tati, ad esem­pio, con la sem­pli­fi­ca­zione tay­lo­ri­stica del pro­cesso pro­dut­tivo e con stru­menti come la pub­bli­cità e i mezzi di comu­ni­ca­zione, che hanno con­sen­tito alle aziende di fare arri­vare sem­pre nuove sol­le­ci­ta­zioni atten­zio­nali ai con­su­ma­tori. Non sono stati però risolti, per­ché, secondo Crary, nell’Ottocento il capi­ta­li­smo ha com­ple­ta­mente tra­sfor­mato il pro­cesso di per­ce­zione dei sin­goli, che hanno visto le loro espe­rienza carat­te­riz­zate da fram­men­ta­zione, disper­sione e vero e pro­prio choc. Dun­que, come d’altronde aveva già soste­nuto Wal­ter Ben­ja­min, nelle società capi­ta­li­sti­che si è sem­pre più impo­sto un pro­cesso di «rice­zione in stato di distrazione». 
Ma Crary ha anche affer­mato che il capi­ta­li­smo tende a spin­gere ogni giorno in avanti i limiti dell’attenzione e della distra­zione, intro­du­cendo con­ti­nua­mente nuovi pro­dotti, nuove fonti di sti­molo e nuovi flussi d’informazione, ai quali ogni volta ten­tano di dare una rispo­sta nuovi metodi di gestione e rego­la­zione della per­ce­zione. Come ha mostrato Marx, infatti, il capi­ta­li­smo crea con­tem­po­ra­nea­mente le sue crisi e i modi per limi­tarne gli effetti, in un pro­cesso dia­let­tico con­ti­nua­mente attivo. Nelle società con­tem­po­ra­nee, dun­que, l’attenzione e la distra­zione si tro­vano in una situa­zione di perenne con­flitto simbolico. 

Gli spet­ta­tori distratti 
Crary ha sot­to­li­neato inol­tre come il modello dello spet­ta­colo crei le con­di­zioni per­ché i sog­getti ven­gano ad essere immo­bi­liz­zati e sepa­rati l’uno dall’altro, sep­pure all’interno di un mondo in cui domi­nano la mobi­lità e la cir­co­la­zione. Le nuove tec­no­lo­gie della comu­ni­ca­zione, infatti, con­ten­gono metodi di gestione dell’attenzione che ten­dono a incen­ti­vare la seden­ta­rietà e la dico­to­mia tra mente e corpo, anche se illu­dono i sin­goli pro­met­tendo inte­rat­ti­vità e una piena libertà di scelta. 
Avendo impa­rato a tenere insieme l’attenzione e la distra­zione dello spet­ta­tore, il modello dello spet­ta­colo con­ti­nua dun­que ad essere note­vol­mente impie­gato nelle società con­tem­po­ra­nee. D’altronde, pre­senta un ele­vato livello d’efficacia e ciò viene con­fer­mato dal suc­cesso che ottiene oggi per­sino un par­ti­co­lare tipo di spet­ta­colo come quello che è basato sulla sof­fe­renza umana. Tale spet­ta­colo è stato messo sotto osser­va­zione dal recente libro Lo spet­ta­tore iro­nico. La soli­da­rietà nell’epoca del post-umanitarismo (Mime­sis, pp. 230, euro 20), scritto da Lilie Chou­lia­raki, docente presso il Dipar­ti­mento di Media e Comu­ni­ca­zione della Lon­don School of Eco­no­mics, e curato da Pier­luigi Musarò. L’aspetto mag­gior­mente inte­res­sante di que­sto libro risiede nella scelta dell’autrice di foca­liz­zare la sua atten­zione soprat­tutto sugli aspetti comu­ni­ca­tivi e media­tici. E cioè di ana­liz­zare i cam­bia­menti avve­nuti negli ultimi decenni in Occi­dente per quanto riguarda le moda­lità con le quali le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie hanno sinora comu­ni­cato la soli­da­rietà e l’umanitarismo. 
Ciò ha con­sen­tito a Lilie Chou­lia­raki di vedere come negli ultimi anni ci sia stato un pas­sag­gio da una rap­pre­sen­ta­zione ogget­tiva della sof­fe­renza di altri popoli, pre­sen­tati come qual­cosa di lon­tano e sepa­rato, a una rap­pre­sen­ta­zione sog­get­tiva, che chiama diret­ta­mente in campo gli «occi­den­tali», invi­tan­doli a riflet­tere sulla loro con­di­zione. Si è svi­lup­pato cioè, come ha scritto Chou­lia­raki, «un pas­sag­gio da un’etica della pietà a un’etica dell’ironia». Il che ha voluto dire abban­do­nare una morale altrui­stica, dove la scelta di com­piere una buona azione verso chi ne ha biso­gno dipen­deva dal rico­no­sci­mento della comune con­di­zione umana di fra­gi­lità, per abbrac­ciare invece una morale indi­vi­dua­li­stica, dove invece la buona azione dipende dalle emo­zioni e dalle gra­ti­fi­ca­zioni per­so­nali che la per­sona può otte­nere. Ne deriva che la soli­da­rietà diventa «iro­nica», per­ché è moti­vata prin­ci­pal­mente dal pia­cere per­so­nale dell’individuo. Nasce per­tanto anche lo «spet­ta­tore iro­nico», che osserva con evi­dente disin­canto coloro che hanno biso­gno di aiuto e asso­cia l’azione rivolta al loro soste­gno ai bene­fici che ne può rica­vare in ter­mini di par­te­ci­pa­zione emotiva. 

Il web dell’organizzazione 
Que­sto cam­bia­mento dipende cer­ta­mente dai pro­cessi di tra­sfor­ma­zione in atto nelle società occi­den­tali, che si vanno facendo sem­pre più indi­vi­dua­li­sti­che, ma anche dal fatto che, come ha soste­nuto ancora Chou­lia­raki, la comu­ni­ca­zione della soli­da­rietà è andata pro­gres­si­va­mente modi­fi­can­dosi, in quanto si è media­tiz­zata, adot­tando pra­ti­che abi­tuali nel campo del mar­ke­ting azien­dale, come l’utilizzo di appelli, di cele­brità hol­ly­woo­diane, di con­certi rock e dell’informazione gior­na­li­stica. Inol­tre, l’uso sem­pre più intenso dei nuovi media in que­sto ambito, se da un lato ha per­messo alle per­sone di pra­ti­care azioni momen­ta­nee ma effi­caci di atti­vi­smo online, dall’altro ha pro­gres­si­va­mente mar­gi­na­liz­zato la voce delle per­sone biso­gnose, coperta da una forma nar­ci­si­stica di auto-espressione indi­vi­duale. D’altronde, come ha mostrato effi­ca­ce­mente Chou­lia­raki, sono le stesse stra­te­gie di comu­ni­ca­zione delle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie che hanno abban­do­nato l’utilizzo di mes­saggi di soli­da­rietà per con­cen­trarsi su espli­citi inviti a «sco­prire cosa si prova» o comun­que a visi­tare il sito Web dell’organizzazione uma­ni­ta­ria. Cioè a con­fron­tarsi con il suo brand più che con la causa che si trova all’origine della solidarietà. 
Insomma, Lilie Chou­lia­raki ha cer­cato di ren­dere i let­tori del suo volume con­sa­pe­voli dell’urgenza di porsi una domanda impor­tante e cioè se sia dav­vero neces­sa­rio tra­sfor­mare la soli­da­rietà in una forma di «spet­ta­to­ria­lità nar­ci­si­stica», come sta avve­nendo nelle società con­tem­po­ra­nee, o se invece sia pos­si­bile ten­tare di pra­ti­care nuovi modi di comu­ni­carla e viverla. Se cioè sia pos­si­bile evi­tare di ren­dere anche la sof­fe­renza un puro spettacolo.

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