giovedì 8 gennaio 2015

Ulrich Beck


Beck era un sociologo organico al PSE [SGA].

Addio a Ulrich Beck, il teorico della «società del rischio»: aveva 70 anniSi è spento, a Monaco di Baviera, uno dei più grandi sociologi contemporanei. Insegnava all’università di Monaco di Baviera e alla London School of EconomicsCorriere


Ulrich Beck, visionario europeo


Il ritratto. È scomparso l’autore della «società del rischio», sostenitore del reddito di cittadinanza e dell’Europa sociale
Giuseppe Allegri, il Manifesto 3.1.2015 
Con Ulrich Beck se ne va uno dei mag­giori stu­diosi dei pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione, oltre che un visio­na­rio mili­tante dell’Europa poli­tica e sociale. Il socio­logo tede­sco verrà ricor­dato anche per aver coniato e stu­diato defi­ni­zioni dive­nute di moda nella socio­lo­gia con­tem­po­ra­nea, come nel dibat­tito pub­blico euro­peo e glo­bale: «seconda moder­nità», «moder­niz­za­zione rifles­siva», «società cosmo­po­li­tica» e soprat­tutto «società del rischio» (Risi­ko­ge­sell­schaft – Risk Society).

For­mule, con­cetti, meta­fore di chi ha libe­ra­mente scelto di affron­tare senza timori reve­ren­ziali il tra­monto delle cate­go­rie della prima moder­nità, sfi­dando la son­nac­chiosa e dog­ma­tica acca­de­mia delle scienze poli­ti­che e sociali sul ter­reno più deli­cato: quello del «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». Altra espres­sione «inven­tata» da Ulrich Beck per com­bat­tere l’erronea sem­pli­fi­ca­zione che costringe nelle oppri­menti dimen­sioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei feno­meni sociali e giu­ri­dici, quanto i pos­si­bili spazi di azione civica e politica.
Il làscito mag­giore del suo inse­gna­mento sta nel radi­cale rifiuto di ogni pre­giu­di­zio nazio­na­li­sta. Que­sto è il pri­sma attra­verso il quale Beck ha spie­gato la con­nes­sione tra le dina­mi­che della glo­ba­liz­za­zione e i loro esplo­sivi effetti sulla divi­sione del lavoro, sulle forme di vita indi­vi­duali e col­let­tive, sul pre­sente e sul futuro del vec­chio Con­ti­nente. Que­sto approc­cio è inol­tre utile per con­tra­stare la recru­de­scenza dei movi­menti intol­le­ranti e xeno­fobi dei par­titi tra­di­zio­na­li­sti, auto­ri­tari e nazio­na­li­sti (Tan Par­ties) in un’Europa che diventa sem­pre più «tede­sca», stri­to­lata dai dik­tat delle poli­ti­che di auste­rità volute dalla Bun­de­sbank. Lo ha denun­ciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tede­sca, Laterza, 2013).

La mili­tanza intel­let­tuale, poli­tica e civile di Ulrich Beck è sem­pre stata dalla parte di un’Europa poli­tica e sociale. Un sog­getto che, a suo parere, doveva supe­rare le nefa­ste ere­dità «sovra­ni­ste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gen­darmi dell’ordine pub­blico locale, e gli incubi mone­ta­ri­sti di un’Eurozona sino­nimo di insi­cu­rezza e povertà per le per­sone. Per que­sta ragione, dal set­tem­bre del 2010, ha ade­rito alle ini­zia­tive dello Spi­nelli Group nel Par­la­mento euro­peo, rilan­ciando lo spi­rito fede­ra­li­sta con­ti­nen­tale che dall’antifascismo di Spi­nelli, Colorni e Rossi oggi può spin­gersi sino al punto da ripen­sare l’Europa poli­tica oltre una dimen­sione mera­mente monetaria.

Que­sta visione sociale dello spa­zio poli­tico con­ti­nen­tale ha per­messo a Beck di spie­gare l’urgenza di un «red­dito di cit­ta­di­nanza con­ti­nen­tale» utile per affran­care le per­sone dai ricatti del lavoro, o della sua man­canza. La crea­zione di un simile stru­mento è inol­tre essen­ziale per garan­tire l’indipendenza dei cit­ta­dini da un Wel­fare State che sta regre­dendo a Work­fare, cioè ad un sistema di costri­zione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della per­sona, né garan­zia della sua con­di­zione lavo­ra­tiva. Per Beck il modello sociale euro­peo è il frutto di un uni­ver­sa­li­smo con­creto, fon­dato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fon­da­men­tali, di una nuova soli­da­rietà pan-europea. Altri­menti non potrà mai esserci alcuna inte­gra­zione poli­tica continentale.
«Dob­biamo final­mente porre all’ordine del giorno que­ste que­stioni: come si può con­durre una vita sen­sata anche se non si trova un lavoro? Come saranno pos­si­bili la demo­cra­zia e la libertà al di là della piena occu­pa­zione? Come potranno le per­sone diven­tare cit­ta­dini con­sa­pe­voli, senza un lavoro retri­buito? Abbiamo biso­gno di un red­dito di cit­ta­di­nanza pari a circa 700 euro. Non è una pro­vo­ca­zione, ma un’esigenza poli­tica realistica».
Que­sto scri­veva Beck sulle colonne de La Repub­blica in due suc­ces­sivi inter­venti del 3 gen­naio 2006 e del 22 marzo 2007. Con­si­de­ra­zioni scritte a ridosso degli scon­tri tra gio­vani e poli­zia nelle ban­lieues fran­cesi in fiamme, men­tre comin­ciava la crisi sta­tu­ni­tense dei mutui sub­prime. Sono pas­sati diversi anni e l’«esigenza poli­tica rea­li­stica» di un red­dito di base sgan­ciato da una pre­sta­zione lavo­ra­tiva, inteso come stru­mento di soli­da­rietà, resta let­tera morta nell’agenda dei movi­menti e delle cit­ta­di­nanze sem­pre più impau­rite ed è com­ple­ta­mente assente in quella delle ina­de­guate classi poli­ti­che e sin­da­cali, nazio­nali e con­ti­nen­tali. Tutto que­sto men­tre milioni di per­sone rischiano di diven­tare ostaggi della mala­vita, nei bas­si­fondi delle metro­poli euro­pee, o schiavi inde­bi­tati del capi­ta­li­smo finan­zia­rio eletto a unico para­me­tro della «società glo­bale del rischio».
Beck è stato il testi­mone del lungo qua­ran­ten­nio neo-liberista euro­peo in cui hanno domi­nato l’individualismo sociale e il «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». «Spesso la reto­rica domi­nante afferma che non “c’è alter­na­tiva” agli impe­ra­tivi dell’austerità» disse in un’intervista a Bene­detto Vec­chi su Il mani­fe­sto del 29 ago­sto 2013.
In que­sto atroce immo­bi­li­smo pro­spera il Mer­kia­velli, effi­cace neo­lo­gi­smo da lui stesso coniato per descri­vere una poli­tica capace di det­tare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impos­si­bile fun­zione espan­siva) fun­zio­nale alla difesa del patto social­de­mo­cra­tico in Ger­ma­nia. In que­sta cor­nice gli Stati-nazione, e gli indi­vi­dui, si ripie­gano in se stessi. «L’individualizzazione della dise­gua­glianza sociale», ana­liz­zata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le mise­rie nazio­na­li­ste di classi poli­ti­che ina­de­guate e dei nuovi popu­li­smi pre­senti anche nel Par­la­mento europeo.Torna quindi di attua­lità il «biso­gno di una cri­tica dell’Unione Euro­pea da un punto di vista euro­peo e non nazio­nale», per dirla sem­pre con Beck. In un inter­vento sul Guar­dian del 28 novem­bre 2011 sostenne che la crisi euro­pea può essere «un’opportunità per la demo­cra­zia». A patto di avere la forza, intel­let­tuale e poli­tica, per «abban­do­nare l’euro-nazionalismo tede­sco» e far «emer­gere una comu­nità euro­pea di demo­cra­zie» dove la «con­di­vi­sione della sovra­nità divenga un mol­ti­pli­ca­tore di potenza e democrazia».Que­ste sono le basi di un fede­ra­li­smo radi­cale che metta in rela­zione i biso­gni delle per­sone con gli spazi poli­tici nei quali vivono. Rileg­gere que­sti inse­gna­menti alla luce di una visione soli­dale della società e dell’Europa atte­nua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi con­ti­nua a non ras­se­gnarsi all’ordine esi­stente delle cose.

Ulrich Beck, dopo la fine del lavoro salariato 

Un nuovo Welfare. Al volgere del millennio, Beck avvertì come la precarietà, la sotto-occupazione e la disoccupazione erano ormai diventate parti della biografia normale di un essere umano nell'Occidente capitalistico, proprio come il matrimonio o il divorzio. Davanti a questa svolta epocale, né i neoliberisti, né i neo-keynesiani, hanno trovato il coraggio di riconoscere la realtà: il pieno impiego è una chimera.
Roberto Ciccarelli, il Manifesto 3.1.2015
Il socio­logo tede­sco Ulrich Beck è morto il primo gen­naio per un attacco car­diaco. L’autore della «società del rischio» (pub­bli­cata in Ita­lia da Carocci) aveva 70 anni. La noti­zia è stata con­fer­mata ieri dalla fami­glia al quo­ti­diano Süd­deu­tsche Zei­tung. Beck ha inse­gnato a Parigi, poi alla Lon­don School of Eco­no­mics e dal 1992 a Monaco dove aveva la cat­te­dra di socio­lo­gia all’università Ludwig-Maximilians. Nato nel 1944 a Stolp, in Pome­ra­nia (oggi Slupsk in Polo­nia), Beck ha stu­diato socio­lo­gia, filo­so­fia, psi­co­lo­gia e scienze poli­ti­che. Tra le sue opere, pub­bli­cate in ita­liano, si ricor­dano anche Che cos’è la glo­ba­liz­za­zione. Rischi e pro­spet­tive della società pla­ne­ta­ria (Carocci, 1999), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Einaudi, 2000) e Europa tede­sca: la nuova geo­gra­fia del potere (Laterza, 2013). 

Il rischio e la sua ricca poli­se­mia. Que­sto è il tema che ha segnato ini­zial­mente la sua opera. Beck lo ha arti­co­lato in incer­tezza, insi­cu­rezza e peri­colo. In tede­sco «Siche­rheit» è una parola ambi­va­lente. Per spie­garsi Beck ricor­reva a tre parole inglesi: «Unsa­fety» che evoca una minac­cia mor­tale, ad esem­pio un atten­tato ter­ro­ri­stico, e appar­tiene alla gram­ma­tica della destra; «Unse­cu­rity» evoca, invece, l’aspetto sociale dell’insicurezza, men­tre la parola «Uncer­tainty» indica l’incertezza scientifica. 

«Dob­biamo accet­tare l’insicurezza come un ele­mento della nostra libertà – soste­neva Beck – Può sem­brare per­verso, ma que­sta è anche una forma di demo­cra­tiz­za­zione: è la scelta, con­ti­nua­mente rin­no­vata, tra diverse opzioni pos­si­bili». Il rischio è un mezzo di comu­ni­ca­zione nega­tivo. Come il denaro, o il potere. Obbliga chi pre­fe­ri­rebbe vivere igno­rando il pro­blema a comu­ni­care oltre le fron­tiere e le iden­tità. Men­tre il potere tende a ridurre a zero il rischio attra­verso tec­no­lo­gie immu­ni­ta­rie, buro­cra­ti­che, tota­li­ta­rie o per­for­ma­tive, Beck invi­tava a con­si­de­rarlo come l’occasione per una scelta o l’inizio di una prassi trasformativa.Il socio­logo tede­sco era inol­tre con­sa­pe­vole che sull’ambivalenza del rischio si siano gio­cate le sorti delle poli­ti­che del lavoro in Europa dagli anni Novanta in poi. Invece di riflet­tere, in maniera ste­rile, sull’alternativa tra pre­ca­rietà e fles­si­bi­lità, Beck pre­ferì affron­tare la ben più com­plessa con­trad­di­zione tra lavoro sala­riato e «atti­vità ope­rose». Riletta oggi, al set­timo anno di crisi, que­sta ana­lisi è senz’altro attuale e con­tro­cor­rente. Al vol­gere del mil­len­nio, infatti, Beck avvertì come la pre­ca­rietà, la sotto-occupazione e la disoc­cu­pa­zione erano ormai diven­tate parti della bio­gra­fia nor­male di un essere umano nell’Occidente capi­ta­li­stico, pro­prio come il matri­mo­nio o il divor­zio. Davanti a que­sta svolta epo­cale, né i neo­li­be­ri­sti, né i neo-keynesiani, hanno tro­vato il corag­gio di rico­no­scere la realtà: il pieno impiego è una chi­mera. Per ragioni oppo­ste, Beck defi­niva irre­spon­sa­bile la cecità di entrambi. E in un’intervista a Libé­ra­tion nel 2002 aggiunse: «Non dovrebbe mera­vi­gliarci se un giorno i popu­li­sti ne appro­fit­te­ranno». Parole pro­fe­ti­che che hanno anti­ci­pato la tra­ge­dia del nostro presente. 

Beck cri­ticò inol­tre il Wel­fare basato sul lavoro sala­riato, inca­pace di resti­tuire la dignità al cit­ta­dino immerso in un’orizzonte di occu­pa­zioni pre­ca­rie, ati­pi­che o infor­mali. Da qui la sua osti­nata richie­sta di rico­no­sci­mento delle forme di atti­vità «plu­rali»: il mutua­li­smo, il lavoro di cura, quello di cit­ta­di­nanza, l’attivismo, il volon­ta­riato. Atti­vità che andreb­bero soste­nute da un Wel­fare fon­dato sulla per­sona e non sulla sua appar­te­nenza cor­po­ra­tiva, pro­fes­sio­nale o sul suo indi­vi­dua­li­smo. Stru­mento fon­da­men­tale di que­sta poli­tica uni­ver­sa­li­stica era, e resta, il red­dito minimo, di base o di cit­ta­di­nanza a livello euro­peo. Il primo gen­naio è scom­parso un gene­roso cit­ta­dino euro­peo, non solo un grande sociologo.

Il paradosso della religione globalizzata
di Ulrich Beck La Stampa 4.1.15
Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione. La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o anti-modernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né ebreo né greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana». Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che si sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Traduzione di Carla Reschia

Ulrich Beck, è il rischio quel che resta della modernità
di Massimiliano Panarari La Stampa 4.1.15
Se la nostra è l’era della globalizzazione, con la scomparsa di Ulrich Beck se ne va uno dei suoi pensatori più lucidi e significativi. Il sociologo (nato nel 1944) è morto improvvisamente a Capodanno in seguito a un attacco di cuore, dopo avere contrassegnato con la sua riflessione acuta e le sue categorie originali (da «seconda modernità» a «società del rischio») lo sforzo di comprendere i processi dell’ultima ondata di mondializzazione e le dinamiche del nostro tempo.
Ed è stato proprio lui - professore a Monaco e alla London School of Economics, e militante della corrente riformista dei Verdi tedeschi - ad averci illustrato meglio di chiunque altro quanto la minaccia ambientale su scala globale abbia cambiato la nostra percezione del pianeta. Nell’epoca della dipartita della vetusta figura dell’intellettuale organico, Beck ha rappresentato un modello di studioso dalla rinnovata vocazione civile, espressa per vie molteplici: dalla collaborazione autorevole con Der Spiegel alla funzione di riferimento culturale (almeno all’inizio) del governo rosso-verde di Gerhard Schröder e Joschka Fischer, sino al contributo dato all’elaborazione della Terza via (anche in virtù della comunanza scientifica che lo legava ad Anthony Giddens, assieme al quale aveva codificato il concetto di modernizzazione riflessiva).
Il sociologo tedesco si era riproposto di indagare il mondo nuovo e pieno di inquietudini della Risikogesellschaft, la «società del rischio», esito peculiare della tarda modernità; espressione che ha dato il titolo alla sua opera più famosa, scritta poco dopo l’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, la tragedia ecologica assurta a emblema dei numerosi rischi (di natura anche sociale, politica, sanitaria, alimentare) a cui risulta esposta l’umanità contemporanea. Lo studioso fa di questa nozione la chiave interpretativa per avanzare una teoria generale delle società industriali avanzate, descrivendo le trasformazioni radicali che investono l’esistenza quotidiana di ciascuno nella pluralità dei ruoli che si trova a dover rivestire (cittadino, genitore, figlio e lavoratore, tra i tanti).
La società del rischio diventa così la categoria per dare significato a un Villaggio globale dove è andata perduta la nettezza dei confini tra natura e cultura ed è tramontata la funzione di orientamento della tradizione, mentre si moltiplicano i mutamenti climatici e i drammi ecologici (dal buco nell’ozono al global warming, sino al morbo della «mucca pazza»), manifestazioni di un’incontrollata attività del genere umano. Il rischio si configura quindi come l’orizzonte ineliminabile, disgregatore di sicurezza, dell’individuo nell’epoca della seconda modernità riflessiva, caratterizzata dall’incremento esponenziale dell’incertezza, dalla disintegrazione delle identità e appartenenze della sua prima fase (come la nazione o la classe) e dall’imporsi, da un lato, dell’antipolitica e, dall’altro, della subpolitica dei poteri tecnici e specialistici (finanza, medicina, giustizia) sempre più egemonici.
Nell’ultimo periodo, l’analisi di Beck si era fatta via via maggiormente critica nei confronti della globalizzazione di segno neoliberista, caricandosi di preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze sociali e per una precarietà che da lavorativa si è convertita in esistenziale. Ma non aveva mai finito per indulgere al catastrofismo, continuando a sperare nelle potenzialità positive della tarda modernità e nelle loro facoltà di liberare energie verso stili e tempi di vita più soddisfacenti e libertari, fino al coronamento dell’obiettivo massimo di una «modernità responsabile», fondata su una democrazia al tempo stesso ecologica e tecnologica.
Pur detestando l’industrialismo e il fordismo (per i quali non provava alcuna nostalgia) e non lesinando critiche all’eredità dei Lumi, Beck si è scagliato in maniera durissima contro il postmodernismo, collocandosi, sulla scia di Habermas, nel solco di un pensiero che continua a professare il suo atto di fiducia nei confronti del Progetto moderno, di cui si devono superare le contraddizioni mediante la radicalizzazione e il rilancio del messaggio di emancipazione. Il progresso, in buona sostanza, va guarito dai suoi mali (attraverso un rinnovato cosmopolitismo europeista e un’inedita forma di «illuminismo ecologico»), e non rigettato. E Beck si è rivelato capace come pochi di cogliere l’ambivalenza costitutiva di questa nostra età globale (come nel caso della caoticità degli affetti derivante dalla crisi del paradigma della famiglia tradizionale). Tra i suoi tanti libri: Il normale caos dell’amore (1996), Modernizzazione riflessiva (con A. Giddens e S. Lash; 1999), Che cos’è la globalizzazione (1999), La società del rischio (2000), I rischi della libertà (2000), Lo sguardo cosmopolita (2005), Europa tedesca (2013).

Ci mancherà il suo contributo alla nostra coscienza
di Zygmunt Bauman Repubblica 4.1.15
ULRICH Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri. Traduzione di Elisabetta Horvat

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