lunedì 12 gennaio 2015

Cinema e ontologia

La mela di Cézanne e l'accendino di Hitchcock. Il senso delle cose che vediamo nei filmAnto­nio Costa: La mela di Cézanne e l’accendino di Hit­ch­cock Il senso delle cose nei film, Einaudi, pp. 370, euro 35,00

Risvolto
Antonio Costa si occupa di ciò che «arreda» il mondo in cui si svolgono le storie, di ciò che sta attorno ai personaggi: delle cose con cui i personaggi entrano in contatto e delle cose che in vario modo entrano nella storia. E se ne occupa da vari punti di vista: narrativo, plastico, simbolico. Indaga cioè sul rapporto tra le cose e le forme cinematografiche: sul perché possiamo dimenticare certi particolari della trama dei film di Hitchcock, ma non dimenticheremo mai determinati oggetti degli stessi film: una chiave, un bicchiere di latte, un accendino...
La mela è una di quelle «incredibili mele e pere dipinte da Cézanne» che Woody Allen, in Manhattan, mette tra le dieci cose per le quali vale la pena di vivere. L'accendino è quello di Delitto per delitto: secondo gli esperti un Ronson, modello Adonis, personalizzato. A metterli assieme, la mela di Cézanne e l'accendino di Hitchcock, è stato Godard, in Histoire(s) du cinéma. E questo per dirci che sono ben pochi quelli che conservano memoria della mela di Cézanne in confronto a quanti ricordano l'accendino di Delitto per delitto. Da qui prende le mosse questo libro dedicato alle cose che vediamo nei film, e ai film come luoghi in cui gli oggetti quotidiani sono diventati, almeno nel nostro immaginario, quello che sono. Non solo di caffettiere, panchine e spremiagrumi si tratta, ma anche di una goccia di pioggia su una foglia, della fiamma di un fuoco acceso in riva al mare, di un fossile incastonato in una roccia...

Il cinema e le cose, un legame virtuoso 
Cinema e oggetti. Ingigantiti, isolati, situati in relazioni inusuali, gli oggetti inseriri nei film vengono rianimati dalle strategie che governano e alterano il senso del racconto

Stefano Catucci, 11.1.2015 

Nella sosti­tu­zione di un car­tel­lone pub­bli­ci­ta­rio, la mat­tina della morte di una donna che gli era molto cara, Jorge Luis Bor­ges lesse una volta la rive­la­zione del fatto che le cose vivono un’esistenza indif­fe­rente al destino degli uomini, dai quali pren­dono le distanze in molti modi. Siamo abi­tuati a pen­sarle come «oggetti», entità inerti che rice­vono senso dallo sguardo di un sog­getto. Chia­marle «cose» signi­fica rico­no­scere, invece, la loro capa­cità di tes­sere rela­zioni in modo auto­nomo ogni volta che, con la loro pre­senza, con­tri­bui­scono a defi­nire uno spa­zio, un’atmosfera, uno stato emo­tivo. Le cose sono per­ciò immerse in un con­ti­nuo dive­nire che spesso igno­riamo del tutto, ma che il cinema ci ha aiu­tato a sco­prire gra­zie alla sua capa­cità di coglierne i movi­menti, di seguirne le tra­sfor­ma­zioni, gli adat­ta­menti, le meta­mor­fosi da «oggetti» col­lo­cati sullo sfondo a «cose» dotate di una vita propria. 
Il ruolo che le cose occu­pano nel cinema è il tema del libro di Anto­nio Costa La mela di Cézanne e l’accendino di Hit­ch­cock Il senso delle cose nei film, volume ric­ca­mente illu­strato nel quale con­ver­gono, oltre a testi nuovi, anche scritti pub­bli­cati dall’autore nell’arco di un decen­nio, a testi­mo­nianza di un inte­resse col­ti­vato nel lungo periodo (Einaudi, pp. 370, euro 35,00). Nel cinema, osserva subito Costa, le cose sono pro­fon­da­mente impli­cate nei pro­cessi for­mali di costru­zione del rac­conto. I film non si limi­tano a regi­strarne o a evi­den­ziarne l’esistenza, ma le mito­lo­giz­zano e le pro­iet­tano in un cir­cuito comu­ni­ca­tivo senza precedenti. 
Rem Koo­lhaas ha scritto che al di là di una certa massa cri­tica ogni edi­fi­cio, anche il più sgra­ziato, diventa un monu­mento. Alle cose, nei film, capita qual­cosa di simile. Gli oggetti più pic­coli e banali acqui­stano un’aura di arti­sti­cità. Alcuni si pre­pa­rano a diven­tare icone di un’epoca, altri par­te­ci­pano agli snodi di una trama in modo così aperto da otte­nere un risalto del tutto nuovo, quasi fos­sero essi stessi degli attori, come avviene per esem­pio con Hit­ch­cock, auten­tico mae­stro di un cinema delle cose. 
Il titolo del libro di Costa trae spunto da un acco­sta­mento bril­lante che Jean-Luc Godard ha effet­tuato nelle sue Histoire(s) du cinéma e che prende come rife­ri­mento pro­prio Hit­ch­cock. Spesso, dice Godard, si dimen­ti­cano gli snodi delle sue trame o i motivi che hanno por­tato i per­so­naggi all’interno degli intri­ghi che sono chia­mati ad affron­tare. Impresse nella nostra memo­ria riman­gono piut­to­sto imma­gini sparse delle cose che Hit­ch­cock ha col­lo­cato nei suoi film: un camion nel deserto, un bic­chiere di latte, un mazzo di chiavi, una fila di bot­ti­glie. La logica visiva non è molto diversa da quella della pit­tura: «il lavoro d’innesto dell’oggetto nel tes­suto nar­ra­tivo non è per nulla infe­riore», osserva Costa, «a quello svolto nell’atelier del pit­tore». Ma nel cinema il pri­mato delle cose non resta anco­rato al piano melo­dram­ma­tico della nar­ra­zione. La vastità del pub­blico a cui il cinema si rivolge tra­sforma infatti le cose in vei­coli dell’immaginario col­let­tivo, situan­dole su «un piano asso­luto che coin­volge a un tempo la dimen­sione sen­so­riale e quella cono­sci­tiva».
Godard con­clu­deva così, allora, le sue anno­ta­zioni su Hit­ch­cock: «forse die­ci­mila per­sone non hanno dimen­ti­cato la mela di Cézanne, ma sono un miliardo gli spet­ta­tori che ricor­de­ranno l’accendino di Delitto per delitto». 

Il cinema dun­que ampli­fica il senso delle cose, dona loro un «sovrap­più d’essere», come avrebbe potuto dire Hans-Georg Gada­mer, che di volta in volta le ingi­gan­ti­sce o le rim­pic­cio­li­sce, le isola o le immerge in nuove rela­zioni, le acce­lera o le ral­lenta, le anima o le fos­si­lizza. Le stra­te­gie di costi­tu­zione del senso sono così varie da ren­dere impos­si­bile per­sino trac­ciare l’elenco di una tipo­lo­gia bene ordi­nata. Costa fa un ten­ta­tivo in que­sta dire­zione sepa­rando le cose comuni di ogni giorno dagli ele­menti natu­rali e dal pae­sag­gio, oppure distin­guendo il trat­ta­mento riser­vato ad alcuni oggetti pri­vi­le­giati — per esem­pio ai dispo­si­tivi ottici: fine­stre, spec­chi, lenti, occhiali — e quello che ha inve­stito i pro­dotti del design industriale. 
L’ordine degli argo­menti, però, viene for­zato di con­ti­nuo dalla rap­so­di­cità degli acco­sta­menti e si disperde nelle dira­ma­zioni rizo­ma­ti­che di un libro che vale soprat­tutto per la mol­ti­pli­ca­zione degli esempi che spa­ziano in tutta la sto­ria del cinema e tra­va­li­cano ogni distin­zione di genere, sostando anche nei campi del docu­men­ta­rio e della videoarte. Per dotarsi di un lin­guag­gio ido­neo ad affron­tare un tema in larga parte nuovo Costa attinge alla semio­tica e alle teo­rie del design, alla filo­so­fia e alla cri­tica cine­ma­to­gra­fica. Ma i pas­saggi più acca­de­mici e sag­gi­stici del libro restano pur sem­pre dei pre­li­mi­nari, pun­tual­mente supe­rati dalla ric­chezza dell’esemplificazione. 
Enu­me­rare i regi­sti, i titoli, le epo­che e le cose prese in con­si­de­ra­zione da Costa sarebbe vano, trat­tan­dosi di un libro che tran­sita con sciol­tezza dalla scac­chiera di Casa­blanca agli oggetti del monte dei pegni di uno dei primi film di Char­lot (The Pawn­shop, 1916), o dagli espe­ri­menti di Bru­nel­le­schi sulle camere otti­che agli occhiali indos­sati da Nicole Kid­man nelle scene finali di Eyes Wide Shut, l’ultimo film di Stan­ley Kubrick. Alcuni capi­toli, come quello finale che elenca alfa­be­ti­ca­mente alcuni oggetti del cinema, o quello dedi­cato al design nel cinema ita­liano degli anni ses­santa e set­tanta, hanno uno spi­rito enci­clo­pe­dico da cui pos­sono sca­tu­rire altri spunti di rifles­sione e discen­dere una serie di studi a venire. Ma ci sono almeno due nuclei cen­trali, due fami­glie di cose, i dispo­si­tivi ottici, appunto, e le loco­mo­tive, che ben rias­su­mono l’operazione di Anto­nio Costa.
Il cinema infatti, a par­tire dai primi espe­ri­menti dei Fra­telli Lumière, ha impo­sto il treno come pro­to­tipo dell’immagine in movi­mento e la sta­zione fer­ro­via­ria come «fab­brica dei sogni», secondo una pro­ie­zione che non sfuggì a Wal­ter Ben­ja­min e che da Geor­ges Méliès, autore nel 1898 di un Pano­rama pris d’un train en mar­che, attra­versa tutta l’epopea del Western e giunge, sulla via del ritorno alle ori­gini, fino al sogno visio­na­rio e retro­spet­tivo di Hugo Cabret, il film con cui Mar­tin Scor­sese ha cele­brato Méliès. 
I dispo­si­tivi ottici, d’altra parte, sono gli oggetti che il cinema ha usato per pro­vare a defi­nire il pro­prio sguardo e per evi­den­ziarne il carat­tere di arti­fi­cio: dalla porta che inqua­dra John Wayne sullo sfondo di un oriz­zonte deser­tico in Sen­tieri sel­vaggi fino alla mito­lo­gia delle fine­stre e agli obiet­tivi foto­gra­fici che hanno attratto l’attenzione di tanti regi­sti, a comin­ciare da Miche­lan­gelo Anto­nioni. Le cose, nei film, non par­lano per­ciò solo di un mondo esterno al cinema, quello che appar­tiene anche alla vita quo­ti­diana degli spet­ta­tori e che è diven­tato sem­pre più pro­ble­ma­tico. Oggi, osserva Costa, a «uscire dal cinema» non sono più solo spet­ta­tori ancora incan­tati dall’effetto del «cubo scuro» all’interno del quale hanno assi­stito allo spet­ta­colo, come scri­veva Roland Bar­thes, ma è il cinema stesso, tra­smi­grato fuori dalle sale, nelle case, e asse­diato in modo cre­scente da due lati: la nar­ra­zione delle serie tele­vi­sive da una parte, la pres­sione della videoarte dall’altra. 
Il mondo delle cose sem­bra così il mezzo para­dos­sale al quale il cinema si aggrappa per restare se stesso, par­lare di se stesso, rima­nere all’interno dei suoi ster­mi­nati con­fini per non disper­dersi nell’indifferenza dei media. E que­sta ansia, che si avverte in realtà anche in un libro sostan­zial­mente alle­gro come que­sto, non è solo appan­nag­gio dei ciné­phi­les, cioè dei desti­na­tari più imme­diati del lavoro di Costa, ma può essere con­di­viso anche dagli altri, cioè da coloro che con buona pace di Godard sti­mano essere ben più di die­ci­mila, al mondo, quelli che hanno in mente le mele di Cézanne e si sen­tono fuori, invece, da quel miliardo che ha in memo­ria gli accen­dini di Hitchcock.

Nessun commento: