giovedì 8 gennaio 2015

Denunciare i rossobruni folcloristici e nemmeno accorgersi dei rossobruni veri ovvero della Sinistra Imperiale

couverture de LES NOUVEAUX ROUGES-BRUNS
Un libro concettualmente fallito [SGA].

Jean-Loup Amselle: Les nou­veaux rouges-bruns. Le raci­sme qui vient, Edi­tions Lignes, pp. 120, euro 14

Risvolto
Comment décrire et penser le phénomène, aussi violent que symptomatique de notre époque, du passage d’un certain nombre d’intellectuels, agitateurs, journalistes de l’extrême gauche vers l’extrême droite ? C’est à quoi s’emploie Jean-Loup Amselle, qui, dans ce livre, actualise un tableau consternant dont Dieudonné et Soral ne sont que les noms les plus connus, et pense ce processus en ethnologue. Posant avec perspicacité cette question : qu’est-ce qu’un tel processus doit au regain de mode du primitivisme dû aux études post-coloniales ?
Ce livre entend montrer que ce phénomène des transfuges – transfuges qui vont de l’(extrême) gauche à l’(extrême) droite ou, plus simplement, sont de droite tout en tenant un discours prétendument de gauche – ne saurait être assimilé aux « non-conformistes » des années 1930 tels qu’en rendent compte certains auteurs. Certaines caractéristiques originales, apparues récemment, les distinguent en effet et leur donnent une touche nettement contemporaine.
Parmi ces caractéristiques, il faut compter le primitivisme qui est le propre aussi bien de l’anthropologie que des idées postcoloniales, et qui justifie qu’un ethnologue, comme l’est Jean-Loup Amselle, accorde son attention à cette question éminemment politique. En effet, le primitif, en tant que catégorie oppositive, est un élément essentiel de notre identité proprement sociétale et des idéologues qui parlent en son nom. Les penseurs ou les idéologues rouges-bruns, dans le cadre du reflux des théories du progrès, sont de plus enclins à mobiliser des références ethnologiques exotiques comme contre-modèles des aspects qu’ils critiquent dans notre propre société ; ils puisent également dans les « merveilleuses » traditions d’entraide des communautés paysannes d’autrefois ou de ce qui est censé en subsister dans les milieux populaires d’aujourd’hui. La déploration de la perte des valeurs authentiques de solidarité est ainsi l’un des traits majeurs de la pensée des nouveaux « rouges bruns ».
La pensée de ces idéologues s’abreuve donc à la source d’une certaine anthropologie, la plus primitiviste, donc la plus « glamour », qui, de ce fait, occupe les devants de la scène institutionnelle et médiatique. En notre époque écologiste et « diversitaire » à souhait, quoi de plus excitant que la figure de l’Indien d’Amazonie ou du Papou de Nouvelle Guinée pour parler au cœur des Occidentaux à qui l’on serine qu’ils vivent dans une société à somme nulle et qu’il ne sert à rien de lutter pour des causes sociales ringardes ? Le primitivisme et le populisme qui lui est lié sont donc l’une des sources majeures du conservatisme contemporain.
Dans ce nouveau livre, Jean-Loup Amselle examine donc le phénomène « rouge brun » et le racisme qui lui est lié sous l’angle, non seulement du primitivisme proprement dit, mais aussi de toutes les notions « élémentaires » qui le charpentent : l’autochtonie, la racine, le peuple, la nation, le groupe, la communauté, la culture populaire, la race, la « blanchitude », la « francité », la diaspora, la laïcité et le « Made in France ».
Mais s’agissant de ce transfert de l’(extrême) gauche vers l’(extrême) droite, l’auteur se demande également si le marxisme n’a pas sa part de responsabilité. Chez Marx et Engels en premier lieu, mais aussi et surtout chez les anthropologues marxistes qui ont recherché dans les sociétés exotiques les ancêtres contemporains de l’humanité, et qui ont rallié le populisme et le primitivisme. Les penseurs ou des idéologues de tout poil (journalistes, essayistes, philosophes) se sont ainsi emparés des aspects les plus caricaturaux de cette discipline et il en est résulté que le primitivisme et le populisme ont dorénavant paradoxalement partie liée avec le racisme, donnant toute son originalité et sa nouveauté au phénomène rouge brun actuel.



I chierici rosso-bruni di Jean-Loup Amselle 

Intervista. Un’intervista con l’antropologo francese per l’uscita del suo ultimo libro sulla convergenza «rosso-bruna» che vede uniti la «destra dei valori» e alcuni teorici della sinistra in nome della lotta al mercato e al multiculturalismo

Marco Dotti, 19.12.2014 
Molti ven­gono dall’estrema sini­stra e, da sini­stra, hanno fatto un salto tri­plo a destra. Altri, invece, a destra ci sono sem­pre stati, ma hanno affi­nato lin­guag­gio, armi e con­cetti. Altri, invece, a destra ci sono arri­vati quasi invo­lon­ta­ria­mente, per «osmosi» da imbor­ghe­si­men­too, peg­gio, per una distorta appli­ca­zione della pro­prietà com­mu­ta­tiva: «se le nostre parole sono le stesse e il nostro nemico è comune – sono frasi, que­ste, che risuo­nano come un man­tra tra molti chic anno­iati che sognano di radi­ca­li­smi a venire — allora pos­siamo dirci dalla stessa parte». 


Eppure, osserva Jean-Loup Amselle, antro­po­logo e autore del recente Les nou­veaux rouges-bruns. Le raci­sme qui vient (Edi­tions Lignes, pp. 120, euro 14), seb­bene ten­ta­tivi di sin­tesi fra estremi e vicende di tran­sfu­ghi da sini­stra a destra si siano sem­pre, anche se spo­ra­di­ca­mente. veri­fi­cati nel corso del secondo dopo­guerra, oggi assi­stiamo a una con­fi­gu­ra­zione nuova. Tal­mente nuova che, com­plice la con­fu­sione che regna sovrana sotto il cielo d’Europa, que­sta con­fi­gu­ra­zione ha dato vita a una tipo­lo­gia che rischia seria­mente di popo­lare l’intero pae­sag­gio intel­let­tuale pros­simo ven­turo: è la tipo­lo­gia del rosso-nero a cui allude il titolo del lavoro di Amselle, un raz­zi­sta che si muove con destrezza in una società post­co­lo­niale e multiculturale. 

Abbiamo incon­trato Jean-Loup Amselle pro­prio a seguito di que­sto suo lavoro che, al di là dello spe­ci­fico fran­cese, sem­bra indi­vi­duare una ten­denza rosso-nera che anche in Ita­lia gua­da­gna ogni giorno a sé ampi spazi di manovra. 



Nelle prime pagine del suo libro, lei parla di una «destra dei valori» che, sem­pre più, assume la posi­zione di «gau­che de tra­vail». La cri­tica al libe­ri­smo eco­no­mico è l’unico comune deno­mi­na­tore fra que­sta destra e que­sta sinistra? 

L’associazione fra ciò che ho chia­mato «gau­che du tra­vail», ossia la cri­tica del libe­ra­li­smo e del capi­ta­li­smo, e «droite des valeurs», ossia la difesa della fami­glia, delle tra­di­zioni di mutuo soc­corso del popolo e dell’educazione tra­di­zio­nale, non costi­tui­sce in sé alcuna novità. La ritro­viamo ovun­que, nel fasci­smo come nel nazi­smo o, per meglio dire, nazio­nal­so­cia­li­smo. La novità, secondo me, sta nel fatto che l’attuale feno­meno rosso-nero si inscrive nella con­giun­tura del secondo dopo­guerra, segnata dalla cre­scente influenza delle idee dell’etno-antropologia e delle tesi post­co­lo­niali. Se voles­simo rife­rirci alla situa­zione ita­liana, dovremmo a mio avviso esa­mi­nare in modo molto pre­ciso e netto le idee di Erne­sto de Mar­tino e Pier Paolo Paso­lini, nel loro ambi­guo rap­porto con il fasci­smo. Limi­tan­doci a Paso­lini, non pos­siamo non dire che ritro­viamo in lui un’attitudine tipi­ca­mente «pri­mi­ti­vi­sta» e eco­lo­gi­sta che lo induce a pre­fe­rire il fasci­smo alla società dei con­sumi, pen­siamo alle sue famose «luc­ciole» e ai suoi Scritti cor­sari. 

Scri­veva infatti Paso­lini: «Nes­sun cen­tra­li­smo fasci­sta è riu­scito a fare ciò che ha fatto il cen­tra­li­smo della civiltà dei con­sumi». In Paso­lini pos­siamo al tempo stesso vedere un ante­nato delle idee post­co­lo­niali. Paso­lini idea­liz­zava le società eso­ti­che, afri­cane, le società con­ta­dine euro­pee del Mez­zo­giorno d’Italia o del Friuli. Nono­stante fosse omo­ses­suale, Pier Paolo Paso­lini era un difen­sore della fami­glia patriar­cale. Esi­ste quindi – e cito Paso­lini come esem­pio, affin­ché si possa capire bene il nodo dav­vero pro­ble­ma­tico della que­stione – una nuova con­giun­tura ideo­lo­gica den­tro la quale si svi­luppa la figura del «rouge-brune» con­tem­po­ra­neo. Da un lato, con la valo­riz­za­zione delle società eso­ti­che – cosa che non esi­steva affatto sotto Pétain o nel governo di Vichy, in Fran­cia, durante la Seconda guerra mon­diale, ma nem­meno sotto il fasci­smo in Ita­lia o durante il nazi­smo in Ger­ma­nia — e, dall’altro lato, abbiamo l’inedita impor­tanza acqui­sita dalla tesi postcoloniali. 

Ci tro­viamo dun­que in una nuova con­fi­gu­ra­zione rosso-nera den­tro una sfera che appar­tiene pie­na­mente alla sfera multiculturale… 

Attual­mente assi­stiamo a una «raz­ziz­za­zione» ambi­gua, di tipo post­co­lo­niale che avanza ante­po­nendo la logica dei «due pesi, due misure». Tutto que­sto è legato indub­bia­mente alla que­stione del con­flitto israelo-palestinese e all’emergere di un nuovo anti­se­mi­ti­smo. L’attuale giu­deo­fo­bia non è infatti la pro­se­cu­zione dell’antisemitismo degli anni Trenta. E cosa ben diversa e pog­gia su un fatto ele­men­tare: pos­siamo pren­der­cela fin che vogliamo con i musul­mani senza cor­rere alcun rischio, men­tre se non pos­siamo toc­care un solo capello a un ebreo senza rischiare di incap­pare negli strali di qual­che «lobby sio­ni­sta». L’alleanza che esi­steva fra le diverse mino­ranze etni­che e reli­giose si è rotta poi­ché neri e arabo-musulmani oggi si con­si­de­rano vit­time delle atti­vità di una mino­ranza attiva: quella della dia­spora ebraica asso­ciata allo Stato d’Israele. Si sta­bi­li­sce così una con­giun­zione fra anti­se­mi­ti­smo, nega­zio­ni­smo e anti-imperialismo che ha tratti ine­diti. La lotta delle razze ha sosti­tuito la lotta di classe. 

Sul fatto che que­sto sia il nuovo spet­tro che inquieta l’Europa non c’è dub­bio, ma resta da capire se si tratti di un feno­meno euro­peo o, vice­versa, di tanti feno­meno regio­nali che rischiano di avere forti riper­cus­sioni sull’Europa qua­lora tro­vas­sero la forza di legarsi stra­te­gi­ca­mente, non solo tat­ti­ca­mente.
Io penso si tratti di un feno­meno euro­peo, che però si può osser­vare quasi in ogni regione, sia nei paesi dove la pro­spe­rità eco­no­mica ancora c’è – pen­siamo alla Sviz­zera, all’Austria ma anche ai paesi scan­di­navi -, sia in nei paesi che sono più dura­mente col­piti dalla crisi: l’Italia, la Spa­gna, la Fran­cia o la Gre­cia. Inten­dia­moci, però: non si tratta però di anta­go­ni­smo fra «i bian­chi» e gli altri, ma di un anta­go­ni­smo fra coloro che si erano anti­ca­mente sta­bi­liti su quei ter­ri­tori e i nuovi arri­vati, siano que­sti ultimi euro­pei o non euro­pei. Que­sto spiega anche il for­tis­simo raz­zi­smo e l’ostilità nei con­fronti dei rom che, ben­ché siano euro­pei, sono ostra­ciz­zati come i magh­re­bini. L’onda nuova del popu­li­smo si spiega a mio avviso cogliendo que­sta dinamica. 

Accanto al nuovo anti­se­mi­ti­smo abbiamo però assi­stito allo svi­luppo di un’attitudine con­tra­ria ma in qual­che modo com­ple­men­tare che è stata anche da lei defi­nita «judéo­phi­lie». Entrambe le ten­denze sem­brano fare i conti con entità «meta­sto­ri­che», ossia con un sog­getto – un popolo, una comu­nità, spre­gia­ti­va­mente: una razza – sot­tratto alla dina­mica sto­rica, quasi si trat­tasse dii una «spe­cie perenne»… 

Credo che affer­mare il pro­prio amore per un qual­siasi gruppo – che siano ebrei, arabi, musul­mani, neri, afri­cani e via discor­rendo – abbia un effetto. Un effetto che, in qual­che modo, richia­man­doci al lin­gui­sta John L. Austin, potremmo chia­mare un «lavoro per­for­ma­tivo». Nel per­for­ma­tivo men­tre si afferma si fa, si pro­duce qual­cosa. E così, que­sto amore dichia­rato nel momento stesso in cui viene dichia­rato costi­tui­sce quel gruppo come tale. Mi sem­bra che il rime­dio fini­sca così per diven­tare peg­giore del male, per­ché il raz­zi­smo pro­cede esat­ta­mente seguendo que­sta logica: impu­ta­zione di gruppo, nega­zione costante della esi­stenza degli indi­vi­dui. Oggi siamo den­tro que­sta logica, sia quando pra­ti­chiamo odio sia quando affer­miamo amore. 

Lei è antro­po­logo ma quello affron­tato nel suo libro è un tema che si direbbe tipi­ca­mente socio­lo­gico. Per­ché impe­gnarsi in que­sta ricerca? Nell’introduzione parla anche di un’urgenza… 

Credo che se c’è un’originalità nel mio libro discenda pro­prio dal fatto che a scri­verlo è stato un antro­po­logo con un’esperienza sul campo, presso alcune società afri­cane. Il raz­zi­smo è una que­stione molto com­pli­cata che impone la neces­sità di avere una visione equi­di­stante dalle società occi­den­tali e da quelle «eso­ti­che», cosa che non impe­di­sce affatto – al con­tra­rio! – di assu­mere una posi­zione uni­ver­sa­li­sta. Per me, poi, ci sono due modi di fare antro­po­lo­gia. Il primo con­si­ste nel met­tere in rilievo le dif­fe­renze per poi iden­ti­fi­care le ras­so­mi­glianze. Il secondo, a cui va la mia pre­fe­renza, con­si­ste nel repe­rire ciò che gli anglo­sas­soni chia­mano «com­mo­na­li­ties», ossia le ras­so­mi­glianze tra l’Occidente e le altre società, per riser­vare le spe­ci­fi­cità, in un secondo tempo, alla cate­go­ria di «resto» o a quella di «opa­cità» (pen­siamo a Sega­len o Glis­sant). La mag­gior parte degli antro­po­logi fran­cesi, ma non solo quelli fran­cesi a dire il vero, che in una certa epoca si defi­ni­vano mar­xi­sti, hanno abban­do­nato que­sta posi­zione per alli­nearsi al pri­mi­ti­vi­smo e al cul­tu­ra­li­smo di Lévi-Strauss o al cogni­ti­vi­smo o al pro­spet­ti­vi­smo. Così facendo, viene negata la sto­ri­cità delle società esotiche. 

Tutti si alzano in piedi e pun­tano il dito davanti alla parola «negro», ma pochi ammet­tono che la que­stione, in una società com­po­sta da una mol­te­pli­cità di gruppi etnici, è ben più com­plessa e sot­tile. Lei a que­sto pro­po­sito parla di un grado zero del raz­zi­smo. Di che cosa si tratta? 

Il grado zero del raz­zi­smo è l’assegnazione iden­ti­ta­ria di un qua­lun­que indi­vi­duo alla «sua» sup­po­sta ori­gine. Rin­viare i musul­mani fran­cesi a un’origine magh­re­bina o i neri a un’origine afri­cana signi­fica negare il fatto che essi sono e si sen­tono fran­cesi. D’altronde, esi­stono ora­mai diverse forme di anti­raz­zi­smo. Da un lato, l’antirazzismo delle orga­niz­za­zioni anti­raz­zi­ste qua­li­fi­cate come «di bian­chi» dalle orga­niz­za­zioni «raz­zi­zate» che pre­ten­dono di rap­pre­sen­tare le mino­ranze etni­che discri­mi­nate. Il pro­blema posto dall’uso della nozione di «racisé», come se rap­pre­sen­tasse una realtà ogget­tiva, è che non pog­gia più sulla nozione di «razza» ed è per que­sto che io rifiuto la distin­zione fra «razza bio­lo­gica» e «razza socio­lo­gica». L’inversione dello stigma – negri­tu­dine, «black pride» — man­tiene sem­pre qual­cosa di pre­sup­po­sto, che ci viene resti­tuito e positivizzato. 

Il raz­zi­smo che verrà – sot­to­ti­tolo del suo libro — pos­siede già il pro­prio voca­bo­la­rio: comu­nità, gruppo, dia­spora, radici, autoc­to­nia. A com­pli­care la que­stione, però, va detto che molti fra i più influenti e meno sprov­ve­duti rosso-neri, cri­ti­cano gli avver­sari par­tendo da una logica rela­ti­vi­sta e culturalista. 

Qui si pone la que­stione dell’universalismo. I post­co­lo­niali e gli stu­diosi di subal­tern stu­dies cri­ti­cano i «diritti dell’uomo» in nome di una neces­sa­ria «pro­vin­cia­liz­za­zione dell’Europa» — così si esprime Dipesh Cha­kra­barty – o per­ché que­sti diritti sareb­bero «bian­chi», pen­siamo in que­sto secondo caso alla Con­fe­renza di Dur­ban III. L’universalimo è però difeso da filo­sofi afri­cani come Sou­ley­mane Bachir Dia­gne, cosa che rende assurda l’assimilazione dei «diritti dell’uomo» all’Occidente. D’altronde, però, non pos­siamo opporre, per esem­pio, i Diritti dell’uomo (o della donna), in quanto occi­den­tali, alle con­sue­tu­dini tipi­ca­mente afri­cane di que­sto o di quell’altro paese afri­cano. Pren­diamo ad esem­pio le muti­la­zioni geni­tali fem­mi­nili: in certi paesi sono com­bat­tute da asso­cia­zioni di afri­cani che lot­tano con­tro que­ste pratiche. 

Il neo­po­pu­li­smo è uno dei tratti che carat­te­riz­zano ideo­lo­gi­ca­mente i rosso-neri. Ma è un popu­li­smo dall’alto. Mi sem­bra que­sta una delle linee più deli­cate: c’è un popu­li­smo a bassa inten­sità, éli­ta­rio, intel­let­tuale che, in nome della lotta ai disva­lori e alle dise­gua­glianze pro­dotte dal mer­cato, fa leva su soli­da­rietà ver­ti­cali – di gruppo, appar­te­nenza – dimen­ti­can­dosi pro­prio della strut­tura mate­riale che segna e modella quelle disu­gua­glianze. Che ruolo gio­cano i mezzi di comu­ni­ca­zione nella dif­fu­sione di que­sto messaggio? 

Gio­cano un ruolo capi­tale. I media sono cor­re­spon­sa­bili dell’avanzare del nuovo popu­li­smo e dell’estrema destra, per­ché ciò che amano, que­sti media, sono i per­so­naggi «ibridi», i rosso-neri appunto. Amano il filo­sofo pro­vin­ciale, pen­siamo a Michéa o Onfray, il nero anti­se­mita, come Dieu­donné, o l’ebreo raz­zi­sta, è il caso di Eric Zem­mour. Amano tutto ciò che è in grado di con­fon­dere e offu­scare le cate­go­rie e le oppo­si­zioni poli­ti­che. Que­sto fatto è par­ti­co­lar­mente chiaro nelle reti di noti­zie che tra­smet­tono a flusso con­ti­nuo infor­ma­zioni, anche sotto forma di ban­delle situate in basso, nello schermo. Sono reti par­ti­co­lar­mente sot­to­messe alla dit­ta­tura dell’ascolto e indotte a creare costan­te­mente feno­meni di disin­for­ma­zione. Le reti sociali (Face­book o Twit­ter) danno però un con­tri­buto non infe­riore a que­sta fre­ne­sia di disin­for­ma­zione istan­ta­nea che va a tutto svan­tag­gio della rifles­sione di lunga durata. Credo che per uscire da que­sta logica aber­rante occorra denun­ciare il feno­meno, ma la stig­ma­tiz­za­zione in sé non basta. Dob­biamo sot­to­porre a cri­tica certe nostre istanze, ini­ziare a deco­struire, a capire. Solo così ce la faremo.

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