lunedì 12 gennaio 2015

Il vizio di Sade

FLORVILLE E COURVAL_Layout 1
Su Sade leggi anche quiqui e qui e qui

Sade: Flor­ville e Cour­val o della fata­lità, Elliot, tra­du­zione di Elena Faber, pp. 93, euro 10,00

Risvolto
Florville e Courval è uno dei più bei racconti di Sade e una funesta storia di infortunes de la vertu: la protagonista (una sorta di Justine in sedicesimo) apprende con raccapriccio, nel giro di pochi minuti, di essere l’amante di suo fratello, la moglie di suo padre, l’assassina di suo figlio e colei che ha mandato al patibolo sua madre…
L’Ottocento ne avrebbe fatto un feuilleton: Sade, invece, spinge al massimo la follia combinatoria dando alla vicenda un che di favoloso, portandola avanti come un aggraziato balletto di tremende simmetrie dove, esprit de geometrie ed esprit de finesse si confrontano ammiccando e facendosi vicendevolmente lo sgambetto. Tutto si combina, tutto quadra, tutto si dimostra nell’infallibilità delle leggi della Natura, ricomponendosi in un’immagine sinistramente positiva e atrocemente beffarda che l’autore vivifica con un sottile humour nero per dimostrare una volta di più l’ineluttabilità del male.

Sade: I cri­mini dell’amore, L’Orma Edi­tore, pp. 216, euro 14,00

Risvolto
Eugénie de Franval, Florville e Courval, Dorgeville: tre perfetti marchingegni narrativi (originariamente contenuti nella raccolta I crimini dell’amore, 1800) in cui Sade dà prova di un savoir faire letterario degno dei più grandi romanzieri della sua epoca. Lontano dalla prolissità e dall’oltranzismo delle sue pubblicazioni clandestine, il Divin marchese si affida qui all’allusione, all’ellissi e persino alla suspense per sovvertire convenzioni letterarie e sociali, dischiudendoci con illuministica ironia le quinte teatrali dell’ipocrisia e della moralità.
 



Sade, veleni della virtù nello spazio tragico 
«Florville e Courval o della fatalità» e «I crimini dell'amore», il Sade castigato a due secoli dalla morte. Con la stessa nefandezza riservata al male il Divin Marchese amministra il bene, rendendo l’uno e l’altro funzionali al tentativo di mistificazione che attraversa il suo grandioso progetto letterario. A questo altare sacrifica volentieri persino la pornografia

di Emanuele Trevi, 21.12.2014 

Temo che leg­gere Sade con una mano sola, come dice­vano i nostri nonni, sia diven­tata un’attività del tutto desueta, ammesso che le fan­ta­sie del Mar­chese siano mai dav­vero ser­vite a quel nobile e igie­nico scopo. Inol­tre, vi deve pia­cere quella roba lì, molto imbrat­tata di merda e san­gue, e fino a qui può andare anche bene, ma soprat­tutto infar­cita, anche sul più bello, delle tre­mende digres­sioni filo­so­fi­che, tra le più pre­ve­di­bili e ripe­ti­tive della sto­ria umana. Forse è venuto dav­vero il momento di un’antologia ben fatta, capace di pescare le migliori nefan­dezze sepa­ran­dole da tutto il resto. È in que­sti ver­tici di scel­le­ra­tezza che il pro­di­gio della scrit­tura sadiana rivela ancora intatta la sua forza, che deriva da un’intuizione deci­siva del potere della parola, e in par­ti­co­lare della parola scritta. La quale pog­gia sem­pre sulla capa­cità di imma­gi­na­zione del let­tore, o della let­trice ovvia­mente, i quali, men­tre desti­nano una delle mani all’ufficio che sap­piamo, imma­gi­nano ciò che leg­gono, forse in maniera ancora più per­versa e tru­cu­lenta (chi può saperlo ?) di come lo imma­gi­nava colui che ha scritto.
Il con­ta­gio di Sade è impla­ca­bile: se lo leggi, e imma­gini ciò che descrive, sei come lui, sei capace di imma­gi­nare quello che ti fa imma­gi­nare. Se fos­sero stati scritti con una mag­giore sag­gezza arti­stica, forse libri come Juliette o le 120 gior­nate di Sodoma avreb­bero dav­vero inne­scato una rivo­lu­zione della sen­si­bi­lità senza pre­ce­denti nella cul­tura occi­den­tale. Pro­vate a imma­gi­nare la mente di Sade con il talento di un Tur­ge­nev o di un James…
C’è poi il cosid­detto Sade «casti­gato», ovvero quello che si può leg­gere tenendo como­da­mente il libro con due mani. Quando a sessant’anni, nel 1800, pub­blicò la serie di lun­ghi e tetri rac­conti «morali» inti­to­lata I cri­mini dell’amore, ben pochi se la bev­vero, tanto è vero che ritornò pre­sto in galera per poi essere rin­chiuso nel mani­co­mio di Cha­ren­ton, dove morì nel 1814. Ovvia­mente, non si tratta di una reden­zione e nem­meno, in fin dei conti, di un’ipocrisia. L’interesse di que­sta parte «casti­gata» della sua opera risiede sem­mai nella coe­renza con la quale Sade per­se­gue il suo gran­dioso pro­getto let­te­ra­rio fon­dato sul potere della scrit­tura.
Il Bene ci verrà dun­que ammi­ni­strato con la stessa nefan­dezza riser­vata al Male. Per que­sto supremo ten­ta­tivo di misti­fi­ca­zione, anche la por­no­gra­fia si rivela inu­tile, e Sade la sacri­fica volen­tieri sull’altare delle sue ambi­zioni. Ne nascono alcune gemme nar­ra­tive come il romanzo breve Flor­ville e Cour­val o della fata­lità (Elliot, tra­du­zione di Elena Faber, pp. 93, euro 10,00), che Filippo D’Angelo ha inse­rito in una edi­zione par­ziale dei I cri­mini dell’amore, acu­ta­mente cen­trata sul tema (molto caro a Sade) dell’incesto (L’Orma Edi­tore, pp. 216, euro 14,00). La prima di que­ste due edi­zioni è arric­chita dall’ultimo sag­gio scritto da Ric­cardo Reim, che ci ha lasciati poche set­ti­mane fa. Reim è stato un geniale uomo di tea­tro e insieme uno straor­di­na­rio cono­sci­tore della sto­ria del romanzo moderno, e soprat­tutto dei suoi sva­riati enfers, sia neri che rosa. Il suo è il miglior via­tico per l’illuminante espe­rienza di que­sto Sade pala­dino della Virtù, capace di distil­lare i suoi nuovi veleni nell’efficace alam­bicco della forma breve.
La scom­messa è tra le più dif­fi­cili, per­ché rove­sciando il cal­zino della sua filo­so­fia, lo scrit­tore dovrà dimo­strare che il risul­tato è iden­tico, come una somma che rimane sem­pre la stessa mutando l’ordine degli addendi. Qua­lun­que cosa l’uomo pensi o dichiari di se stesso, le forze oscure di cui è ostag­gio fini­scono per vani­fi­care ogni discorso. È que­sto il senso pro­fondo di quella fata­lità che tra­sforma la vir­tuosa Flor­ville nell’autrice dei peg­giori delitti che si pos­sano imma­gi­nare. Tutto ciò che la gio­vane donna fa per ripa­rare ai suoi errori e con­for­mare il suo com­por­ta­mento ai suoi scru­poli, fini­sce per rive­larsi un pezzo della trap­pola mor­tale che finirà per stri­to­larla. E quando l’«orrore» della verità si mostra in tutta la sua ter­ri­bile evi­denza, all’eroina di Sade non rimane altra scelta che quella di spa­rarsi un colpo di pistola in testa. Come la pro­ta­go­ni­sta di una tra­ge­dia arri­vata al suo fune­sto scio­gli­mento, avrà giu­sto il tempo di tirare le somme: «o vedo il mio amante in mio fra­tello o vedo il mio sposo nell’autore dei miei giorni, e se guardo a me stessa vedo solo l’esecrabile mostro che ha pugna­lato suo figlio e ucciso sua madre».
Ma lo spa­zio tra­gico imma­gi­nato da Sade, più che da esseri umani in carne ed ossa, è popo­lato da mario­nette della sorte, prive di ogni spes­sore psi­co­lo­gico. Come Justine, modello asso­luto e per­fetto di tutte le vit­time sadiane, anche Flor­ville è inca­pace di pen­sare il senso di ciò che subi­sce. La sua è una cata­strofe che non pro­duce nes­suna catarsi. E gli ideali vir­tuosi che dovreb­bero con­so­larla anche nella sven­tura si sciol­gono come neve al sole. Sono solo il rove­scio spe­cu­lare delle lun­ghe eser­ci­ta­zioni filo­so­fi­che dei tanti mal­vagi liber­tini ai quali Sade ha dato voce nella sua opera. Con per­fida mali­zia, Sade ci mostra come da un mede­simo argo­mento con­ven­zio­nale si pos­sano trarre con­clu­sioni ugual­mente vero­si­mili per gli apo­lo­geti del Vizio e per i difen­sori della Virtù.
Negli ammo­ni­menti del pro­tet­tore di Flor­ville, uomo one­sto ed assen­nato, si rico­no­scono molti degli argo­menti favo­riti dei suoi nemici. Così, sfrut­tando una famosa pagina di Mon­tai­gne sulle dif­fe­renze dei costumi umani e la rela­ti­vità della morale, il liber­tino ne trarrà la con­clu­sione che tutte le norme sono arbi­tra­rie e disprez­za­bili dall’uomo supe­riore. Il vir­tuoso, par­tendo dall’identica pre­messa, potrà invece con­vin­cersi che i dif­fe­renti costumi sono la prova dell’esigenza uni­ver­sale di rea­liz­zare il Bene, quali che siano le con­di­zioni dell’esistenza e le tra­di­zioni par­ti­co­lari («Per­ché i diversi climi, i diversi tem­pe­ra­menti hanno neces­sità di diversi tipi di mode­ra­zione, per­ché, in una parola, la virtù si è mol­ti­pli­cata in mille forme diverse, si può soste­nere che non c’è virtù sulla terra? Sarebbe come dubi­tare della realtà di un fiume quando si separi in mille rami diversi»).
I ragio­na­menti del Sade «vir­tuoso», insomma, non sono un’alternativa auten­tica all’apologia del vizio e della pre­po­tenza alla quale aveva assue­fatto i suoi let­tori. Se le stesse parole, gli stessi con­cetti pos­sono ser­vire a un’affermazione e ugual­mente al suo con­tra­rio, signi­fica solo che entrambi i discorsi, quello liber­tino e quello vir­tuoso, sono finti, ina­de­guati a espri­mere la tre­menda realtà che ci sovra­sta, con­du­cen­doci tutti a un’identica fine. Se la fata­lità potesse par­lare, quello sì che sarebbe un discorso rive­la­tore. Ma la fata­lità è muta, intenta alla sua strage per­pe­tua, e forse nem­meno lei, come le sue vit­time, sa cosa pen­sare di se stessa. Ne ver­rebbe fuori, suprema intui­zione, l’immagine di un uni­verso com­ple­ta­mente idiota, nel quale non hanno senso né il pen­siero né gli eventi che lo smen­ti­scono.
È una lezione pre­ziosa, que­sta del vec­chio Sade, soprat­tutto in un’epoca in cui le sedu­zioni del Bene si rive­lano ancora più per­ni­ciose delle pre­ve­di­bili e usu­rate lusin­ghe del Male. Forse pen­sava pro­prio a Sade Kafka, quando nel penul­timo dei Qua­derni in ottavo scri­veva che «il male è il cielo stel­lato del bene». Ma non c’è biso­gno di sta­bi­lire qual­che filia­zione diretta. Più pro­ba­bil­mente sia Sade che Kafka, esseri umani dotati di una supe­riore con­sa­pe­vo­lezza, guar­da­vano le oscure stelle dello stesso cielo, l’unico che ci sia stato con­cesso di scrutare.

Nessun commento: