mercoledì 21 gennaio 2015

Italicum, Gotorellum, peste, colera. La mamma dei Civati

La mamma di Civati: in quel partito non si può staredi Massimo Rebotti  Corriere 21.1.15
«I miei genitori vorrebbero che uscissi dal Pd. Ma io resisto» ha raccontato Pippo Civati, uno dei leader della sinistra dem. La mamma prima temporeggia, «in questo periodo cerchiamo di lasciarlo in pace», poi conferma «in un partito così non si può più stare». Rossana Civati non ha più rinnovato la tessera (a Monza) da quando Matteo Renzi è diventato premier: «Ho trovato indecente lo stile con cui è stato defenestrato Letta».
Impegnata per anni in politica, «bassa manovalanza, eh», dal Pci, «quando c’era Berlinguer», al Pd. «La scelta è sua — dice — certo qualche frase in casa mi scappa e un po’ mi spiace, se penso all’impegno che Pippo ci mette. Ma credo che prima o poi dovrà uscire». Di Renzi la signora Civati non condivide «praticamente niente, men che meno quel piglio aggressivo». Eppure alla prima Leopolda lui e il figlio erano insieme, «ma già allora, a me e a mio marito, non sembrò uno di cui ci si potesse fidare. Voler essere un po’ protagonisti va bene, ma farlo a scapito degli altri…».

L’assemblea dei ribelli (con il sogno di arrivare a quota 150)Tutte le anime della sinistra interna riunite stasera a Montecitorio per arginare il pressing renzianodi Monica Guerzoni Corriere 21.1.15
ROMA Nella simbolica Sala Berlinguer di Montecitorio, stasera i parlamentari sconfitti della minoranza batteranno un colpo. Bersaniani, dalemiani, cuperliani, civatiani e bindiani proveranno a reagire alla sberla di Renzi sulla legge elettorale. Come anticipato dal Corriere i non-renziani si conteranno (e si faranno contare) in una grande assemblea, che vedrà unite tutte le anime dell’opposizione interna.
L’ala dura ha spinto molto per organizzare la riunione e spera di mettere assieme almeno 150 parlamentari, oltre un terzo dei gruppi. Impresa non agevole, visto il pressing energico che i vertici del Pd stanno esercitando sui ribelli. Corradino Mineo, tra i pochi pronti a votare contro l’Italicum, racconta che «Renzi ha chiamato personalmente diversi miei colleghi, promettendo ponti d’oro, dicendo “tu sei bravo” o “che te serve?”». Luigi Zanda smentisce pressioni «mai fatte», ma intanto la fronda perde foglie e i ribelli sono tormentati sul da farsi. Dato per scontato il «no» all’emendamento Esposito, che vale come una fiducia, l’unica soluzione che può unire i dissidenti è non partecipare al voto finale. Ma se Forza Italia mettesse a rischio il governo, quanti avrebbero il coraggio di far mancare numeri decisivi? Gotor insiste, «non voterò una legge coi capilista bloccati». Felice Casson prende tempo, «valuteremo alla fine». Cecilia Guerra invece ha deciso, «non voterò contro il governo».
Persa la battaglia contro i nominati il Quirinale si profila come l’ultima spiaggia, l’ultima speranza di poter condizionare le scelte del segretario. Bersani «farà un passaggio» in sala Berlinguer perché sarebbe per lui troppo amara una «minestra» cucinata al Nazareno, cioè un presidente ostile alla minoranza e garante solo del governo. È il grande timore dell’ex segretario, che ha riallacciato il filo con D’Alema e che aspetta ancora l’invito di Renzi a un confronto.
«Tagliando in modo brutale la discussione il segretario si è rifiutato di ascoltare una parte importante del suo partito — denuncia Stefano Fassina — Una prova di forza che ferisce la funzione del Parlamento». E adesso l’ex viceministro prevede ripercussioni «inevitabili» sul Quirinale: «È evidente che il comportamento del presidente del Consiglio complica la discussione». Anche per questo Roberto Speranza sarà in prima fila stasera, per togliere all’assemblea della minoranza il sapore di fronda e tentare una ricucitura. Nel merito però il capogruppo difende la posizione dei 29 ribelli e giudica «un errore» la scelta dei nominati: «Resta un punto irrisolto, si poteva trovare un’altra soluzione. Ma io non vedo come il tema della legge elettorale possa allargarsi al Quirinale o all’ipotesi di una scissione». Eppure per i bersaniani duri e puri la forzatura sulla legge elettorale porta a compimento la «mutazione genetica del Pd», spostando il baricentro del partito a destra. Gianni Cuperlo sarà alla riunione ed è attesa anche Rosy Bindi, la quale continua a pensare che «più Renzi guarda a destra, più si aprono spazi a sinistra». Per Alfredo D’Attorre «ha vinto la linea Verdini» e adesso il governo ha «una nuova maggioranza politica». Quanto costerà al Pd il patto del Nazareno? Qual è il prezzo dell’Italicum? Per Pippo Civati è così alto che la scissione gli appare come la sola via di uscita: «Queste ferite lasceranno un segno, così la situazione non si regge...». E se la civatiana Lucrezia Ricchiuti medita di votare contro l’Italicum, il premier medita di sostituire la ministra Lanzetta con il renziano Bressa.

“Ci guida Verdini”. I veleni sul ring del PdI ribelli contrappongono la Costituzione ai richiami alla disciplina. Zanda sorpreso: “Incredibile un dissenso così organizzato” Boccia chiede a Renzi di evitare “metodi da Is” con la minoranza. I fedelissimi del premier: “Ha passato il segno, chieda scusa”di Giovanna Casadio Repubblica 21.1.15
ROMA«Ci siamo consegnati a Berlusconi, anzi a Verdini che è il vero consulente del Pd sull’Italicum, e non soltanto». La minoranza dem — guidata dalla falange bersaniana con Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca e dai civatiani — tira le somme alla fine di una giornata in cui il partito è piombato nel caos. I dem si spaccano nell’assemblea dei senatori, dove gli appelli di Renzi e del ministro Maria Elena Boschi all’unità, gli ammonimenti del premier («Grave se mancano i voti del Pd sulle riforme»), la mozione di sentimenti dei renziani, restano lettera morta. In 29 sciamano dall’auletta dove è riunito il gruppo a Palazzo Madama e più che le parole, vale la faccia del capogruppo Luigi Zanda che aveva sperato fino all’ultimo si sgretolasse l’opposizione interna: «Non immaginavo un dissenso organizzato...», mormora Zanda.
Ma sulla richiesta della minoranza di cancellare i capilista bloccati, Renzi non sente ragione. Non si cambia, sta nel Patto del Nazareno, nell’accordo con Berlusconi incontrato a Palazzo Chigi ieri mattina poco prima di vedere il gruppo dem. La sinistra del Pd annuncia che non darà tregua: non voterà l’Italicum e consegna un documento contro. Lo dice Gotor. Lo spiega Paolo Corsini citando l’articolo 67 della Costituzione, quello che recita “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Vale più della disciplina e dell’obbedienza al partito. Doris Lo Moro mette sul tavolo le dimissioni da capogruppo in commissione affari costituzionali: «Voterò con la minoranza del partito, non posso essere incoerente». Lo scontro esplode. Renzi tenta di convincere: «Cara Doris, comprendo e apprezzo il tuo travaglio... ma la questione dei capilista nominati non è poi decisiva». Per i renziani i dissidenti «hanno passato il segno». Andrea Marcucci parla a Bersani nella speranza che la falange bersaniana al Senato torni a più miti consigli: «La minestra votata anche da Bersani in prima lettura alla Camera era molto meno saporita».
Lo strascico di tensioni finirà in un sabotaggio del candidato di Renzi per il Quirinale? I renziani lo temono e denunciano. La minoranza nega e contrattacca: «Si è visto che il Patto del Nazareno varrà anche per il Quirinale », rincara Gotor. Tra la sinistra dem e Stefano Esposito, il senatore che ha presentato il maxi emendamento-ghigliottina, volano parole grosse. Esposito accusa «i cattivi consiglieri di Bersani, quelli che l’hanno fatto perdere nel 2013, i Gotor». Passano le ore e i toni si alzano. I dissidenti tuttavia fanno sapere di essere saldamente ancorati nella “ditta”, nel partito. Solo Civati e i suoi sembrano tentati dalla scissione, da un movimento a sinistra con Sergio Coffera- ti, Maurizio Landini e Nichi Vendola. La fronda dem sull’Italicum poi si riduce a 26, perché tre senatrici (Puppato, Idem e Albano) si sfilano. Corradino Mineo, civatiano, svela la lamentela di Renzi contro il lettiano Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, che aveva a sua volta pesantemente attaccato il premier. «Mi ha detto Boccia — è lo sfogo di Renzi — che faccio come l’Isis». «Matteo fa la vittima per strappare un applauso ai senatori, tutto pur di vincere», chiosa Mineo. «Boccia chieda scusa», è la reazione dei renziani. C’è un’atmosfera pesante tra i Democratici. Vannino Chiti — che è stato ricevuto qualche giorno fa da Renzi proprio per parlare della nuova legge elettorale — ammette di essere sconcertato: «Mi sembrava che Matteo si fosse convinto a dare ascolto a noi della minoranza contro i capilista bloccati. Se si va avanti così i cittadini non eleggono più le Province, non eleggeranno il nuovo Senato e neppure i parlamentari... Evidentemente Berlusconi non ha voluto sentire ragione». Nel Pd ci si guarda in cagnesco. Alfredo D’Attorre, deputato bersaniano, ironizza: «Elezioni anticipate? Se ci fossero, Renzi rivedrebbe Palazzo Chigi in cartolina».
Poco vale il lavoro dei pontieri. Francesco Verducci invita a non essere autolesionisti: «È come quella moglie che per fare un dispetto al marito... Ma il nuovo Italicum è una buona legge». Renzi garantisce: «La minoranza non si caccia». Ma non deve esagerare e «si deve votare insieme ».
Gli sms nervosi e le cravatte allentate In Aula lo psicodramma della frondaL’esponente bersaniano Gotor: non sarò corresponsabile di questa tragica vicendadi Fabrizio Roncone Corriere 21.1.15
ROMA Ci sono scene che spiegano molto.
Questa in ascensore, per dire.
Il senatore Francesco Nitto Palma è saltato dentro con un balzo.
Spinge il pulsante «T», sbuffa, alza il suo sguardo classico (non capisci mai se è un ghigno di disprezzo, o una smorfia di pazienza).
«Che c’è?».
C’è che il patto del Nazareno tiene, no?
«Noi di Forza Italia, qui a Palazzo Madama, votiamo come è stato deciso. Punto. Anzi, punto e basta».
E Fitto? E i fittiani?
«I fittiani? I fittiani non esistono. Se riescono ad arrivare a dieci, è tutto grasso che cola».
Stavolta il ghigno era proprio di disprezzo. Le porte si aprono, esce, va a farsi un giro di Burraco («Il suo amico Ciro Falanga, l’altro giorno, gli ha vinto 20 euro, e adesso deve dargli la rivincita»: è la voce divertita di Monica Cirinnà, senatrice del Pd).
Risalire.
Tornare al primo piano, attraversare il corridoio dei busti, cercare Miguel Gotor.
Raccontano che il capo dei rivoltosi bersaniani sia piuttosto nervoso. Ci sono politici capaci di nascondere sentimenti, lacrime, sudore. Gotor, no: Gotor fu arruolato da Bersani per coprire il ruolo dell’intellettuale non organico, forse per fare persino il ministro della Cultura — studioso di santi, eretici e inquisitori, filologo di Aldo Moro, ricercatore di Storia moderna a Torino — ma non ha mai subìto una reale mutazione genetica; è rimasto un professore universitario e così, se si arrabbia, o si dispiace, o se capisce di aver perso, si vede.
Un paio d’ore fa, nella sala Koch, durante l’assemblea dei senatori del Pd, atmosfera tesa, la Boschi vestita di nero, Gotor se ne stava lì, seduto al centro. Molto irrequieto, con la cravatta allentata, le mani sul cellulare per mandare sms, riceverli, rispondere, e poi guardarsi intorno, guardare soprattutto lui, Matteo Renzi, che l’aveva definito «il mio nemico preferito» (quando il bersaniano Paolo Corsini s’è alzato annunciando un documento politico ostile all’Italicum redatto proprio da Gotor e firmato da 29 senatori, Renzi ha deglutito, il capogruppo Luigi Zanda s’è passato una mano tra i capelli, Giorgio Tonini e Stefano Lepri si sono guardati come di solito si guardano quelli che finiscono su «Scherzi a parte»).
Gotor, l’avete fatta grossa.
«Abbiamo seguito la nostra coscienza».
Qualcuno, però, adesso sembra pentito.
«Vuol sapere se qualcuno dei 29 sta cambiando idea e, invece di uscire dall’Aula, resterà? Non lo so, può darsi. Problemi loro. Io non voglio essere corresponsabile di questa penosa, tragica vicenda...».
Sta usando toni forti.
«Vogliono far passare una legge elettorale decisa solo con Verdini. Il 70% di eletti da Renzi e Berlusconi, il 30% di eletti con le preferenze. Una vergogna assoluta. Io, per coerenza, mi tiro fuori. Altri faranno come me, altri magari no... Quello lì, per esempio, cosa farà?».
Indica Ugo Sposetti.
Sposetti, in verità, durante l’Assemblea, è stato autore di un intervento vibrante e raffinato, ha ricordato che un gruppo parlamentare ha il dovere della sintesi, della compattezza, che non è possibile dividersi in vinti e vincitori.
Passa la senatrice Donella Mattesini. Chiama Sposetti: «Ugo, sei stato bravissimo. Dobbiamo restare uniti!». Arriva la notizia che tre dei 29 ribelli ci avrebbero ripensato ufficialmente: sono la Puppato, la Idem e la Albano. Voteranno sì all’ormai celebre «emendamento Esposito», costruito per inglobare tutti gli accordi di maggioranza sull’Italicum, e che quindi farebbe decadere altri 48 mila emendamenti. Il senatore di Gal, Vincenzo D’Anna, spiega che, a questo punto, «più che di Italicum sarebbe opportuno parlare di Espositum». I bersaniani paiono ostinati e giurano che sul loro pallottoliere continuano comunque a contare 29 dissidenti. Fitto spedisce sms ai suoi: e i fittiani conteggiati sarebbero forse anche venti (magari non andate a dirlo a Nitto Palma).
Alla buvette c’è Mario Michele Giarrusso (M5S).
«Che spettacolino... Noi grillini siamo contrari a questo schifo di legge imposto da Renzi e Berlusconi. Purtroppo, ormai c’è poco da fare...».
Gira voce che Sel e Lega proveranno ad allungare i tempi. Roberto Calderoli, per lunghi minuti, tiene magnificamente l’Aula.
Magnificamente, poi, è chiaro: dipende dai gusti.
Augusto Minzolini esce.
Minzolini, da qualche tempo, viene arruolato tra i rivoltosi di FI. Ma se vai a dirglielo, lui s’infuria. La verità è che ti trovi davanti a un senatore che ragiona con la testa di un cronista politico. Salta d’istinto qualche passaggio, rischia, bleffa, intuisce.
«Che noia ormai parlare d’Italicum... dai, parliamo piuttosto di Quirinale! Io dico che Berlusconi spinge per Amato. Ma se Renzi, che come Nerone vive di sospetti, non ci casca, allora potrebbe comparire una figura simile a Mattarella...».
Tipo?
«Tipo Ugo De Siervo... Oh, ma io non v’ho detto niente... Non mettetemi nei casini».

Pd, tre virate in due annidi Lina Palmerini Il Sole 21.1.15
Quasi un anno fa la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Renzi sull’Italicum e sul Colle, votava in una direzione del Pd un documento per sfiduciare Enrico Letta e portare a Palazzo Chigi l’attuale premier. In meno di un anno l’ennesima virata.
Era il 14 febbraio di un anno fa quando Enrico Letta si dimise da premier dopo una direzione del Pd che lo aveva sfiduciato. Furono 136 i voti a favore dell’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, una staffetta - si disse - per avviare una nuova fase del Governo e del partito e affrontare le europee di maggio. In quella direzione Pd, di fatto, a favorire il cambio di premier fu la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Matteo Renzi sull’Italicum e sul Quirinale. Tra quei 136 voti c’era tutta la minoranza bersaniana, cuperliana e dei giovani turchi, solo i 16 di Civati votarono contro e in due si astennero, Stefano Fassina e la bindiana Margherita Miotto. Insomma, la stessa corrente che contribuì alla fine dell’Esecutivo Letta e all'arrivo di Renzi oggi lo accusa di essere anti-democratico sull’Italicum, di fare patti oscuri con Berlusconi, di aver varato provvedimenti economici di destra come il Jobs act. Ma allora perché ne favorirono l’ascesa a Palazzo Chigi senza nemmeno passare per le urne?
Non si può usare l’argomento di un cambiamento di personalità del segretario Pd in questi ultimi mesi: le bordate alla Cgil le aveva lanciate durante le primarie, i primi provvedimenti sul lavoro li ha fatti prima delle europee, la rottamazione l’aveva compiutamente spiegata e applicata e il patto del Nazareno era già nato quasi un mese prima di quella direzione di febbraio. Dunque, non c'era nulla che non si sapesse di Renzi, neppure l’accordo con l’ex Cavaliere è stata una sorpresa.
La domanda resta: cosa è cambiato in meno di un anno? E a questa se ne affianca una più profonda che non ha a che fare solo con il premier ma con il Pd nel suo complesso. E cioè un partito di maggioranza relativa - quale è oggi il Pd - si può permettere di fare inversione di marcia ogni nove, dodici mesi? Si può permettere un’assenza di strategia a medio termine e continuare a bruciare leader e Governi come se niente fosse? Perché non è solo Renzi che è finito nel tritacarne. Prima di lui è toccato a Pierluigi Bersani, poi a Letta e ora a lui. In meno di due anni il Partito democratico, il più votato dagli italiani, ha messo alla graticola tre leader ma quello che è più grave è l’improvvisazione con cui crea e distrugge posizioni politiche. Il Pd, minoranza inclusa, ha votato il pareggio di bilancio e poi l’ha messo all’indice, dal 2011 al 2012 ha votato insieme a Berlusconi il Governo Monti e poi lo ha rinnegato. E soprattutto nella primavera 2013 ha votato le larghe intese insieme al Pdl di Berlusconi - che era nella maggioranza di Governo - mentre ora vuole stracciare il patto del Nazareno che è sulle riforme. Il risultato è la confusione, una assenza totale di criteri politici che vivano più di sei mesi. Una continua navigazione a vista.
La questione non è solo come andrà a finire sull’Italicum e, la prossima settimana, sul Quirinale. Non è la sopravvivenza o no di Renzi ma se il partito di maggioranza relativa, il Pd, non cominci a essere la vera mina vagante per le istituzioni e per il Paese. Una mina non solo vagante ma incomprensibile. Questo continuo cambiare giudizio su punti strategici di una legislatura sta portando il Pd a trasformarsi da partito a “movida”. Senza una bussola e con identità multiple. Altro che primarie, il problema è a Roma e in Parlamento.
 
 
Il Pd si spacca (davvero)



All’ora di pranzo, alla riu­nione dei sena­tori Pd Renzi arriva fre­sco dell’incontro con Ber­lu­sconi dove ha incas­sato la ras­si­cu­ra­zione che gli man­cava: pur turan­dosi il naso, Forza Ita­lia sosterrà l’Italicum. Di più: si impe­gna anche a votare il maxi-emendamento Espo­sito, una trap­pola con­ge­gnata da mano esperta (dif­fi­cile che sia quella del tori­nese pro­Tav, tor­nito in altre mate­rie) che farà sal­tare una valanga di emen­da­menti e met­terà la legge sul bina­rio — è il caso di dirlo — dell’alta velo­cità. Ma Renzi, a dif­fe­renza delle asprezze del giorno prima, sta­volta usa «un tono mie­loso, rispet­toso verso le mino­ranze», rac­conta Cor­ra­dino Mineo. «Forse per­ché non è sicuro che Ber­lu­sconi con­trolli i suoi nel voto finale?». Renzi con­ti­nua a spie­gare (il ter­mi­ne­giu­sto è minac­ciare) che se salta l’Italicum si va al voto. Ma non impres­siona più come un tempo. «Se si andasse a voto anti­ci­pato Renzi vedrebbe Palazzo Chigi solo in car­to­lina» dice a Sky Alfredo D’Attorre. L’affermazione è forte. Ma è un fatto che con il ’con­sul­tel­lum’ Renzi, dato comun­que per vin­cente, dovrebbe per­pe­tuare le lar­ghe intese. Cosa che non vuole, spiega ai sena­tori: «Voglio fare la legge elet­to­rale con Ber­lu­sconi per­ché non voglio più gover­narci insieme».
Ma la guer­ri­glia sull’Italicum va avanti. E andrà oltre la pro­ba­bile disfatta del senato. Desti­na­zione finale, il voto per il nuovo capo dello stato. È lì che Renzi si gioca la par­tita della legi­sla­tura. Ma anche le varie­gate mino­ranze dem si gio­cano la soprav­vi­venza: un nome pla­teal­mente frutto del Patto del Naza­reno sarebbe uno smacco dif­fi­cile da rias­sor­bire, l’ennesimo dopo la lunga serie: il jobs act, l’Italicum, la riforma del senato, l’addio al Pd da parte di Cof­fe­rati. Un epi­so­dio, quest’ultimo, di cui nes­suno parla volen­tieri ma che è il con­vi­tato di pie­tra dei capan­nelli dei dem dis­si­denti. Che suc­ce­derà quando mezzo Pd ligure si farà espel­lere per­ché voterà un can­di­dato diverso da quello uffi­ciale? La sini­stra par­lerà di «amara necessità»?
Espo­sito, ex dale­miano ex ber­sa­niano ora in area turca fran­gia entu­sia­sti del pre­mier, depreca la mino­ranza: «Sono quelli che hanno man­dato a sbat­tere Ber­sani, ora vor­reb­bero fare lo stesso con Renzi», si sfoga con un col­lega. Sem­bra allu­dere a Gotor. Ma i 29(-meno-3) dis­si­denti in realtà non sono un’area poli­tica com­patta. Ci sono bin­diani, (Dirin­din), ber­sa­niani (Gotor), ’libe­ra­mente’ civa­tiani (Mineo, Tocci, Ric­chiuti), civa­tiani già dale­miani (Chiti), non irre­gi­men­tati (D’Adda, Man­coni). C’è anche Paolo Cor­sini, il pro­fes­sore ex dc che è stato vice di Mar­ti­naz­zoli a Bre­scia. E la magi­strata Doris Lo Moro, capo­gruppo in com­mis­sione Affari costi­tu­zio­nali, che ieri davanti a Renzi fa il suo coming out: senza emen­da­menti non dirà sì l’Italicum. L’assemblea dei sena­tori Pd fini­sce con 71 sì e un aste­nuto. Ma il resto dei 102 pre­senti non par­te­ci­pano alla vota­zione. E non ne rispet­te­ranno l’esito, spiega Mineo, «in forza dell’art. 67 della Costi­tu­zione e del rego­la­mento che per gli argo­menti di rile­vanza costi­tu­zio­nale ci invita e a rap­pre­sen­tare la nazione e non la linea del partito».
Nel pome­rig­gio in aula il voto viene rin­viato. L’esito è scritto. Ma fra otto giorni esatti Renzi dovrà fare il nome can­di­dato pre­si­dente della Repub­blica. Ora sa per certo che la mino­ranza andrà a quell’appuntamento come alla madre di tutte le battaglie.

Prende forma un’alleanza che va oltre il Nazarenodi Massimo Franco Corriere 21.1.15
Stanno emergendo due novità. La prima è che si profila in Senato una nuova maggioranza parlamentare, fondata sul patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. La seconda è che ne fanno parte gran parte del Pd e di FI, e il Nuovo centrodestra. Ma per paradosso, mentre spunta una sorta di rinnovata unità Berlusconi-Alfano in vista dell’elezione del capo dello Stato, sulla legge elettorale il partito del premier perde 29 senatori su 102. La componente che fa capo all’ex segretario Pier Luigi Bersani non vuole votare il cosiddetto Italicum : i cento capilista bloccati, voluti da Berlusconi sono indigesti in quanto «nominati» dai leader. Si tratta di capire quali saranno le conseguenze sul Quirinale di questo mutamento di scenario e di rapporti di forza. Il fatto che Renzi abbia deciso di andare avanti dopo il colloquio con Berlusconi a Palazzo Chigi significa che l’accordo tra i due si sta cementando. E il «placet» dell’ex premier al premio alla lista vincente dimostra che le intese con palazzo Chigi vanno oltre quelle conosciute. Se ci fossero le elezioni ora, FI non potrebbe aspirare nemmeno al ballottaggio. Dunque, Berlusconi si muove ormai in un’ottica che va al di là del partito. Per questo gli avversari dentro FI parlano di «suicidio». La verità è che Pd e FI ritengono di potere eleggere da soli il capo dello Stato. È la conferma di un patto asimmetrico, nel quale Renzi ha la possibilità di imporre il suo schema. L’imprevisto, forse, è stato l’abbandono rumoroso dell’ex sindacalista Sergio Cofferati dopo le irregolarità nelle primarie in Liguria: un episodio che ha smentito la pacificazione del Pd alla vigilia del voto per il Quirinale; e segnalato la nascita di «assi del Nazareno» anche a livello locale. E si somma al «no» all’ Italicum di almeno ventisei dei ventinove senatori. È probabile che la legge passi comunque prima del 29 gennaio grazie ad un emendamento che annulla gran parte degli altri. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, spiega che «i numeri ci sono. Siamo tranquilli». A Palazzo Madama dovrebbe esistere un margine di sicurezza di almeno una decina di voti rispetto alla soglia minima di 161. Il problema è il prezzo politico: la spaccatura del Pd. E sono i contraccolpi sulla scelta del presidente della Repubblica. L’ipotesi di una candidatura votata dal grosso di Pd e FI e dal Ncd di Alfano diventa plausibile: sempre che i margini del Senato reggano a Camere riunite.
Il tentativo del M5S di opporsi «a tutti i costi» all’ Italicum per agganciare il Pd non renziano prefigura una maggioranza alternativa. Insomma, come si prevedeva la competizione sta diventando dura. Verrebbe da dire che quanto è accaduto ieri rende la situazione più chiara. La condizione, però, è che lo «schema del Nazareno» conduca rapidamente al risultato programmato da Renzi e Berlusconi per il Quirinale. In caso contrario, sarà il caos dagli esiti più imprevedibili.


Scatta la maggioranza trasversale A favore della riforma almeno 195 voti “trasversali”.di Barbara Fiammeri Il Sole 21.1.15
Roma È la vittoria del Patto del Nazareno. E per garantirla tanto Matteo Renzi che Silvio Berlusconi hanno deciso di sacrificare l’unità dei loro rispettivi partiti. L’Italicum sarà approvato dal Senato prima che il Parlamento si riunisca in seduta comune per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano con i voti decisivi di Fi.
A dare l’input del «non si torna indietro» è stato il premier, che fin da lunedì aveva messo in conto di arrivare in aula con un partito diviso. Un conto salato, che Renzi ha immediatamente girato a Silvio Berlusconi nel faccia a faccia svoltosi ieri mattina a Palazzo Chigi.
Al Cavaliere il premier ha ribadito che il tempo delle mediazioni è scaduto: l’Italicum va approvato rapidamente e per farlo l’unica possibilità è il via libera all’emendamento del democratico Stefano Esposito, che travolge o, meglio, fa decadere automaticamente tutti i 44mila emendamenti alla riforma elettorale, compresi quelli presentati dalla minoranza del Pd. Dentro l’emendamento Esposito (qualcuno ironicamente ha già ribattezzato la riforma elettorale “Espositum”) c’è infatti tutto il nuovo Italicum: soglie di sbarramento al 3%, clausola di salvaguardia per far decorrere la nuova legge a partire dal 1° luglio 2016 e naturalmente i capilista bloccati, chiesti da Berlusconi e contro cui si è si schierata la minoranza dem guidata dai bersaniani, ma anche il premio alla lista, a cui Fi si è sempre opposta. Almeno fino a ieri.
Da ieri tutto è cambiato. E quanto è avvenuto nell’aula di Palazzo Madama è la fotografia più eloquente. In un clima tesissimo si è assistito a interventi di singoli senatori seduti tra i banchi del Pd o di Fi, che prendevano le distanze dai loro reciproci gruppi e venivano applauditi dall’opposizione. Un’opposizione di cui Fi non fa più parte, non sull’Italicum e che ridisegna la scena parlamentare. Lo dice esplicitamente il capogruppo azzurro Paolo Romani che parla di «dato politicamente rilevante»: «In questo momento, stante questa situazione politica in cui Renzi non ha più la maggioranza al Senato, riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all’approvazione della legge elettorale “con i nostri”». E Giulio Tremonti, il megaministro dell’Economia di tutti i governi Berlusconi che oggi siede tra i banchi di Gal osserva: «Siamo di fronte a una nuova maggioranza, forse a un nuovo governo se ci fosse un Capo dello Stato...».
Una battuta che ben sintetizza il nuovo corso della svolta impressa ieri da Renzi e Berlusconi e destinata a riflettersi tra qualche giorno nel voto per il Colle. Prima di allora però bisogna esaurire il capitolo Italicum. La conferenza dei capigruppo ha deciso che il voto finale arriverà la prossima settimana. Tutto però si deciderà tra oggi e domani. Quando l’aula dovrà pronunciarsi sui cosiddetti emendamenti «premissivi», perché la loro approvazione farebbe decadere gran parte dei 44mila emendamenti presentati. Tra questi due sono sostenuti da 29 senatori della minoranza Pd (primo firmatario il bersaniano Miguel Gotor) e prevedono che l’assegnazione dei seggi avvenga per un 30% con capilista bloccati e per un 70% tramite le preferenze, legando inoltre l’entrata in vigore della legge elettorale al via libera definitivo alla riforma costituzionale del Senato.
Il governo ha già dato parere contrario e l’apporto di voti di Fi garantisce che non supereranno l’esame dell’aula. Anche perché alcuni dei 29 senatori della minoranza che avevano sottoscritto il documento presentato da Gotor all’assemblea del gruppo, hanno già fatto sapere che non voteranno contro la decisione del governo. Distinguo che potrebbero aumentare nelle prossime ore e che emergeranno non tanto sul voto a favore degli emendamenti della minoranza, quanto su quelle che avverrà immediatamente dopo. Il caso vuole che dopo gli emendamenti Gotor sia posto ai voti quello Esposito.
È di fatto la prova generale del voto finale, quella in cui si potrà pesare l’effettiva forza del dissenso espresso dalla minoranza Dem e dai fittiani in Fi. Ieri l’intervento più duro è stato quello di Doris Lo Moro. L’attuale capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali ha attaccato l’emendamento del collega di partito chiedendone la «bocciatura» e riscuotendo gli applausi di Lega, Sel e 5stelle. Una volta superato lo scoglio Esposito quasi tutti gli altri emendamenti decadranno in quanto in contrasto quanto già deciso dall’aula. Dopodiché Renzi e Berlusconi potranno concentrarsi sulla scelta per il Quirinale.


L’Italicum nascerà da un partito in frantumiPer il premier una vittoria che rende Berlusconi determinante: ora è più debole nella partita del Quirinaledi Stefano Folli Repubblica 21.1.15
ALLA fine Matteo Renzi otterrà dal Senato la riforma elettorale a lungo inseguita, con il premio in seggi al partito vincitore e i capilista bloccati. Ormai è a un passo dal risultato, a suo modo storico. Il che significa che il Pd diventerà ancora di più il partito del premier, modellato e plasmato sugli obiettivi di una leadership forte e poco propensa ai compromessi interni. Ma la trasformazione è dolorosa e lascia sul campo un certo numero di macerie. Il vecchio partito si sfalda, registrando un’altra sconfitta. E per i vinti c’è poca pietà: i dissidenti sono marcati come «anti- partito»; il bersaniano Gotor, l’uomo degli emendamenti, è dipinto come un oscurantista; e il leader si preoccupa più che altro di non appannare la sua immagine di corridore instancabile.
Di conseguenza gli oppositori sono costretti ad arretrare, consapevoli che pochi di loro avrebbero fortuna al di fuori dei confini del Pd. Può darsi che esista, alla sinistra di Renzi, un’area elettorale propizia per un esperimento stile Tsipras, ma al momento non si vede chi potrebbe incarnare la versione italiana del politico greco. Forse Landini, dice qualcuno. Intanto l’unica cosa certa è che i gruppi anti-Renzi hanno tentato la prova di forza al Senato e la stanno perdendo, sia pure battendosi bene. D’altra parte, il premier non ha davvero motivo di essere soddisfatto, al di là del messaggio propagandistico. Un Pd frantumato giusto alla vigilia del voto sul Quirinale non è di buon auspicio. La contesa sulla legge elettorale ha creato una nuova fascia di malcontento, non tanto fra chi ha trovato il coraggio di votare contro le indicazioni del gruppo (di fatto mettendosi ai margini del partito), quanto fra i senatori che stanno rientrando nei ranghi per disciplina e non per convinzione. E fra tutti coloro che non si sono esposti nella contestazione al premier-segretario, ma covano la segreta speranza di una rivincita.
Renzi esce quindi indebolito e non rafforzato dalla prova di forza sulla riforma. Prevale, sì, ma esponendosi a nuovi rischi in vista dell’elezione del capo dello Stato. In fondo c’è del vero nell’argomento usato da Gotor e indirettamente da Bersani contro di lui: la rottura con la minoranza interna rende più significativo e centrale il soccorso di Berlusconi. La riforma passa grazie alla logica del «patto del Nazareno». Il capo di Forza Italia, più volte descritto come subordinato a Renzi, quasi soggiogato dal giovane fiorentino, questa volta gioca da protagonista e offre al suo semi- alleato un contributo decisivo. Lo fa scontando una rottura interna a Forza Italia parallela a quella del Pd, simile anche nei numeri. Anche qui si conferma (intorno a Fitto) un’area di malessere che andrà meglio valutata fra pochi giorni, quando si comincerà a votare per il successore di Napolitano. In altre parole, il patto a due regge, ma è quasi una corsa contro il tempo a spremere dall’accordo tutto quello che se ne può ricavare prima che i fattori di logoramento prevalgano. E poi c’è un’altra questione. Qual è il prezzo che Renzi paga al suo partner per l’aiuto ricevuto a Palazzo Madama? Lo spirito pragmatico di Berlusconi ha di sicuro percepito la difficoltà del presidente del Consiglio e avrà letto nella spaccatura del Pd l’opportunità di cogliere un successo più rotondo. In primo luogo il leader di Forza Italia è di nuovo al centro del gioco politico e questo è già molto. Ma c’è di più, grazie anche all’alleanza tattica ricomposta con Alfano. Magari la possibilità di tagliare la strada del Quirinale a un esponente del Pd, quanto meno a una figura proveniente dalla tradizione ex comunista. Tocca sempre a Renzi fare la prima mossa e avanzare una proposta per la presidenza della Repubblica. Ma l’operazione è tanto più complicata quanto più il Pd esce spaccato dal confronto sulla riforma elettorale..

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