Tra giustizia e vendetta Giovanni Folchi fu "L'ultimo fucilato"Prima torturatore di partigiani, poi caduto sotto il plotone d'esecuzione il 7 febbraio del 1946. Un libro-inchiesta di Luca Fazzo sul capitano accusato di collaborazionismoStefano Zurlo - il Giornale Mer, 21/01/2015
L’ultimo fascista giustiziato Per colpa dei voltagabbana 1 feb 2015 Libero PAOLO BIANCHI
La guerra civile in Italia, dopo l’8 settembre 1943, fu un caos. Un’intera generazione si trovò spaccata fra l’adesione al fascismo morente e la ribellione a esso e al suo alleato tedesco. Su quanto avvenne in quei 19 mesi, fino al 25 aprile 1945, e poi nei sanguinosi strascichi, esiste una mole impressionante di libri. A questa però vengono ancora aggiunti nuovi tasselli, soprattutto quando a occuparsene è qualche storico o cronista di particolare bravura. È il caso, qui, del giornalista Luca Fazzo. Questo suo libro, L’ultimo fucilato ( Mursia, pp. 192, euro 15) è l’avvincente e documentata ricostruzione di un processo e di una condanna.
Giovanni Folchi, 29 anni, già ufficiale del Battaglione Azzurro della Rsi, fascista dalla prima all’ultima ora, fu di fatto l’ultimo condannato a morte per crimini di guerra, a Milano, il 7 febbraio 1946.
Fazzo ne ricostruisce la vicenda avendo attinto informazioni da parecchie fonti, dall’Archivio di Stato di Milano all’archivio del Corriere della Sera, dall’archivio storico diocesano di Milano all’ufficio storico dell’Aeronautica e così via, fino alla testimonianza diretta di uno tra gli ultimi partigiani, 16enne al tempo dei fatti, Enzo Galletti, che fu tra le vittime di Folchi.
Ma chi era Folchi? Un capitano dell’Aeronautica che aveva giurato fedeltà al re, poi combattuto in Grecia, aderito alla Rsi e quindi in azione a Milano, con metodi non certo morbidi, organizzando cacce ai ribelli, arresti, interrogatori basati anche sulla tortura, e un’esecuzione di nove partigiani, il 14 gennaio 1945.
Il procedere narrativo di Fazzo è avvincente perché mai inficiato da giudizi morali. A Milano in quel periodo accadevano i fatti più violenti, in una mescolanza di scontri bellici e di regolamenti di conti anche personali. Corpi militari e paramilitari come la Decima MAS, le SS italiane e le Brigate Nere usavano metodi brutali. Agguati, esecuzioni, arresti, interrogatori, tradimenti, rappresaglie, vendette: tutto finiva in un calderone d’orrore.
Ma nel frattempo appariva con frequenza un altro atteggiamento disgraziatamente troppo umano: la pusillanimità, l’opportunismo, la ricerca di scappatoie tra quanti, esponenti entusiasti del regime, si affrettavano, persino all’ultimo momento, a cambiare divisa e a saltare sul carro del vincitore. Scrive Fazzo: «Già all’inizio del 1944 era chiaro a tutti che la fine del fascismo era solo una questione di tempo. Così era inevitabile che la tendenza a defilarsi si facesse strada tra chi non aveva alcun desiderio di venire personalmente travolto dal crollo del Duce e del suo regime, e cominciava a costruirsi un passato afascista, se non addirittura antifascista, da fare valere davanti al nuovo stato. L’italica sindrome del voltagabbana si preparava in quei mesi al suo più trionfale e indim enticabile manifestarsi».
Folchi non fu uno di questi. Lui fu coerente fino alla fine. Corpulento e gioviale, aveva agito col pugno di ferro. Dopo la liberazione, il 27 aprile, mentre avveniva ogni genere di esecuzioni sommarie, e nel carcere di San Vittore dominava la confusione, fu arrestato. E qui si apre un enigma. Folchi avrebbe potuto cercare di scappare, aveva persino un salvacondotto del CLN. Ma non lo fece. Forse per non abbandonare la famiglia. Così fu processato in tempi record, e contro di lui testimoniarono non solo i parenti delle vittime, ma perfino il tenente Luciano Fiocchi, suo commilitone, un campione mondiale di trasformismo, uno che il 25 aprile stesso, in extremis, si era unito ai partigiani. Folchi si difese con dignità, e con dignità morì. Quello che l’autore del libro mette acutamente in evidenza è però la ben diversa sorte di tanti altri che avevano commesso azioni peggiori delle sue e che, nel nuovo clima di amnistia e di clemenza, portarono a casa la pelle.
Scrive bene Mario Cervi nella prefazione: «Penso che il libro di Fazzo dovrebbe essere letto dai giovani che piangono sulla loro sorte desolata. Altri giovani vissero tempeste molto diverse da quella dello spread».
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