giovedì 22 gennaio 2015

La mostra sull'età della crisi dell'Impero romano




L'angoscia va in mostra: il PERTURBANTE dei RomaniMaurizio Cecchetti Avvenire 6 febbraio 2015

L’età dell’angoscia L’Impero Romano e il suo lato oscuro
Ai Musei Capitolini dal 28 gennaio la rassegna dedicata al III secolo dopo Cristo, tempo di ansie religiose e presagi di decadenzadi Maurizio Bettini Repubblica 22.1.15
SI ERA nel 1970 e La Nuova Italia mandò in libreria Pagani e Cristiani in un’epoca d’angoscia , un libro di Eric R. Dodds. L’autore, regius professor di Greco a Oxford, era in realtà già noto in Italia per un altro libro dal titolo ugualmente suggestivo: I Greci e l’irrazionale , apparso una decina di anni prima. Che cosa introduceva Dodds, con questa nuova opera, nella nostra visione dell’età imperiale romana e del mondo antico in generale?
Sostanzialmente due cose: il richiamo a un poema composto nel 1947 da Wystan Hugh Auden, The Age of Anxiety e soprattutto l’idea che una determinata epoca della storia umana potesse aver condiviso uno stesso stato d’animo, una medesima condizione spirituale: per non dire un medesimo inconscio. Sappiamo che nel periodo compreso fra Marco Aurelio e Costantino l’impero romano fu caratterizzato da una crescente spirale di mali: decadenza sociale, crisi economica, pressione ai confini dell’impero da parte di altre popolazioni, conflitti intestini, strapotere dell’esercito, e così di seguito. Nell’interpretazione di Dodds, a questa realtà profondamente negativa avrebbe fatto riscontro, in campo spirituale, la crescita di un nuovo sentimento religioso, più profondo, più individuale, tale da aprire la strada all’affermazione di culti centrati sull’immortalità e la sopravvivenza dell’anima: fra cui il cristianesimo, ovviamente, che in breve avrebbe assunto una posizione dominante. Questa trasformazione religiosa dell’impero si sarebbe dunque consumata sullo sfondo di uno stato d’animo ben individuato e largamente condiviso: l’angoscia. Per la verità l’edizione originale del libro di Dodds aveva per titolo Pagans and Christians in an Age of Anxiety . E come rileva Eugenio La Rocca nel bel saggio che inaugura il catalogo di questa mostra, è difficile capire perché il termine anxiety – “ansietà”, “inquietudine” – fosse stato tradotto con una parola tanto più marcata come “angoscia”. In ogni caso fu forse anche per questa scelta editoriale, un po’ spiccia ma efficace, che il libro suscitò molta attenzione. Questa formula foriera di inquietudine, “età dell’angoscia”, torna adesso nel titolo della mostra che si apre il 28 gennaio ai Musei Capitolini (fino al 4 ottobre), dedicata al periodo che Dodds mise al centro delle sue ricerche. Inutile dire che un momento come quello odierno, in cui certezze sociali, economiche e culturali sembrano scomparire, pare fatto apposta per resuscitare i fantasmi che, secondo Dodds, agitarono pagani e cristiani. Per altro verso, però, non dobbiamo neppure semplificare troppo il senso delle trasformazioni che ebbero luogo nel III secolo d. C. Sarebbe sbagliato affermare che l’afflusso di religioni “straniere” a Roma in quel periodo costituì un fenomeno radicalmente nuovo: il politeismo antico ha sempre praticato, e accettato, la trasmigrazione degli dèi, cercare e accogliere nuovi culti faceva parte del sistema. Così come è difficile accettare l’idea che l’avvento di nuove religioni, e soprattutto quello del Cristianesimo, fosse dovuto esclusivamente al bisogno di spiritualità che travagliava gli abitanti dell’impero: con l’implicita presupposizione che i culti tradizionali fossero inadeguati a soddisfare questo bisogno e come tali già predestinati a soccombere. Si tratterebbe infatti di un’interpretazione più teologica che non storica. Ma non è tanto questo che deve interessarci, quanto l’angoscia, o l’ansia, collocate da Dodds sullo sfondo della sua ricostruzione. In altre parole, com’era arrivato l’autore a trasformare una condizione psicologica in una categoria buona per interpretare la storia?
Per comprenderlo conviene rifarsi all’altro libro di Dodds: I Greci e l’irrazionale . Siamo nel 1948, la seconda guerra mondiale è appena terminata, la prima non è affatto lontana. La storia recente dell’Europa mostra, in altre parole, che la cultura europea, apparentemente così razionale, in realtà non lo era affatto. Probabilmente fu questo il motivo che spinse Dodds a dedicare le sue energie alla parte più “scandalosa” della Grecia: la pazzia vista come fenomeno po- sitivo, veicolo di ispirazione poetica o di contatto con la divinità; il sogno, alla cui realtà significativa i Greci sembrano in qualche modo credere; lo sciamanesimo, che Dodds vede all’origine di una nuova dottrina dell’anima, concepita adesso come soggetto autonomo rispetto all’essere umano nel suo complesso. Nelle sue ricerche l’obiettivo di Dodds è quello di sostituire l’immagine dei Greci come popolo dominato dalla ragione – amministratori unici del lógos – con una in cui trova piena cittadinanza anche ciò che al lógos si oppone. Ecco perché, oltre all’antropologia, ne I Greci e l’irrazionale l’orizzonte metodologico include anche la psicoanalisi, nella convinzione che l’inconscio possa esercitare un grosso peso nelle vicende umane: e quindi anche nei fenomeni storici o culturali. A Dodds insomma sta a cuore mettere in luce il lato oscuro, profondo di una cultura o di un popolo, ciò che si agita nella sua psiche: sia che si tratti dei Greci, sia che si tratti degli abitanti dell’impero romano divenuti preda dell’ansia.
La vita intellettuale di una persona, comunque, è una cosa complicata, e quella di Eric R. Dodds sembra esserlo stato anche più di altre. Il fatto è che egli fu personalmente e individualmente un attento osservatore di fenomeni psicologici, specie se oscuri e irrazionali. Il regius professor, infatti, per anni partecipò alle sedute della Society for Psychical Research, di cui divenne anche presidente: una società che si occupava di manifestazioni extrasensoriali, di trasmissione del pensiero e di fenomeni medianici. Un classicista oggi di fama internazionale, il quale fu studente ad Oxford quando Dodds era ormai in pensione, mi ha raccontato una volta questo aneddoto. Dopo aver preso il suo PhD discutendo una tesi sulla religione greca, il giovane studioso aveva inviato a Dodds il libro che aveva tratto dal proprio lavoro. Questo dono gli era valso un invito per il tè a casa dell’illustre maestro. Ci era andato, piuttosto emozionato, aveva suonato il campanello e Dodds era venuto ad aprirgli la porta. «Grazie per il suo libro, giovanotto» gli aveva detto ancora sulla soglia «ma debbo avvertirla che non mi occupo più di religione greca. Mi interessa solo lo spiritismo».

Da Commodo a Diocleziano l’addio all’anticoIl passaggio da un sovrano all’altro segna anche in campo artistico l’abbandono dei canoni classicidi Giuseppe M Della Fina Repubblica 22.1.15
AL centro della mostra L’età dell’angoscia. Da Commodo a Diocleziano ( a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco) è un periodo di particolare importanza per la storia di Roma: il III secolo d. C. che si aprì con uno sguardo rivolto all’indietro, verso l’azione di grandi imperatori quali Traiano, Adriano e Marco Aurelio e si chiuse guardando in avanti in direzione di un mondo completamente diverso da quello conosciuto sino ad allora. Cento anni che sembrano essere durati molto di più: una consapevolezza non estranea agli stessi contemporanei vissuti tra assetti istituzionali di lunga tradizione che crollavano e altri che tentavano di sorgere, tra una religione millenaria che non dava più risposte e altre – tra le quali il cristianesimo destinato ad affermarsi – che si accingevano a sostituirla. Lungo il percorso espositivo, il racconto, che va dalla morte per avvelenamento di Commodo (192 d. C.) alla fine del regno di Diocleziano (305 d. C.), è affidato a opere d’arte e a prodotti dell’artigianato artistico del tempo. Una produzione sulla quale aveva riflettuto a lungo lo storico dell’arte antica Ranuccio Bianchi Bandinelli che, nel suo bagaglio culturale, aveva una capacità di lettura formale sostanzialmente andata perduta. In uno dei suoi libri più fortunati Roma. La fine dell’arte antica ha osservato: «la caratteristica fondamentale è l’abbandono dei canoni classici e l’accentuazione del modellato in senso coloristico con il fine di raggiungere, in ogni caso, una espressione marcata. Se l’angoscia corrispondeva a un sentimento diffuso, vi è anche, in questo secolo, una manifestazione di volontà di potenza che non rifuggirà da nessun mezzo per affermarsi».
Volontà di potenza, angoscia che potremo andare a ritrovare nella selezione delle opere esposte. Alla nostra ricerca aggiungerei il desiderio di riuscire a riconoscere, nel nuovo, il bagaglio culturale ellenistico che strattonato, incompreso, negato riesce comunque ad affiorare nella posizione di un corpo, nell’atteggiamento di una testa, nella resa dei capelli, o in altri particolari ancora minori. La volontà di comprendere la forza di una tradizione riproposta talvolta contro le indicazioni degli stessi committenti e affidata ai cartoni logori di una bottega artigiana, all’insegnamento di un maestro, all’abilità di mani allenate, ai condizionamenti dettati dagli attrezzi stessi del mestiere. In alcuni casi il gioco si rivela semplice, quasi scoperto con uomini e donne raffigurati quali personaggi della religione e della mitologia pagana, come – modello ricorrente – Ercole: si osservi il busto in marmo dell’imperatore Commodo rinvenuto negli Horti Lamiani a Roma. O i riferimenti frequenti alla figura di Alessandro Magno. In altri esempi può rivelarsi più sottile e controverso. Ci si può soffermare allora di fronte a un pannello in opus sectile con la testa del dio Sol, scelto non a caso per la copertina del volume di Bianchi Bandinelli. Giunge da un mitreo sottostante la chiesa di Santa Prisca a Roma che, a sua volta, si era insediato su un edificio precedente a destinazione residenziale. Vi è stato chi ha voluto identificarlo con la domus dell’imperatore Traiano e, in tal caso, la suggestione sarebbe fortissima. La divinità è raffigurata, utilizzando tarsie di calcare e di marmi dal colore differente, in una posa scomposta, nell’atto di voltarsi verso sinistra, con le ciocche dei capelli disordinati. Il volto presenta grandi occhi rivolti verso l’alto, le sopracciglia ondulate, la fronte corrugata, la bocca dischiusa: riesce a trasmettere la drammatica tensione del tempo in cui venne realizzato, probabilmente tra il 235-250 d. C. Ma in esso si può intravedere l’archetipo scultoreo dell’Alessandro Magno di Lisippo, facendoci intuire la complessità ambigua dei decenni che cambiarono definitivamente Roma e il suo impero.


L’eterno conflitto : dai romani al califfato
Il III secolo d.C. fu definito l’«età dell’angoscia», ora ci frastorna lo scontro di civiltà Ma è il solito urto tra privilegiati e diseredati, che talvolta emerge con furore misticodi Luciano Canfora Corriere La Lettura 25.1.15
All’inizio del XXI secolo è nato, contro ogni aspettativa, un «Califfato» che profetizza la fine dell’Occidente, così come nell’ultimo ventennio del secolo XX il khomeinismo profetò la fine dell’Urss. Nel momento più acuto della lunga crisi dell’impero romano (III secolo d.C.) sorse una unità statale possente, che staccò pezzi significativi dalla compagine dell’impero: Siria, Egitto, Asia Minore. Fu il regno di Zenobia di Palmira, che costrinse l’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) a una dura guerra per riconquistare l’Oriente e in particolare l’Egitto, al prezzo — tra l’altro — della distruzione di un intero quartiere di Alessandria e della sua mitica biblioteca.
Difficile indicare un più drammatico simbolo di «decadenza». Quasi un secolo dopo, uno storico siriaco che scriveva in latino ed era rimasto pagano, Ammiano Marcellino, rievocava la terribile e distruttiva vicenda di Alessandria nel XXII libro delle sue Storie . Oggi alcuni pensano che il mondo stia vivendo un nuovo «terzo secolo»: sta davvero finendo una civiltà?
Ogni epoca ha udito paventare o profetare la decadenza. Questo potrebbe portare a concludere che la decadenza non esiste e che, semmai, è la proiezione dell’allarme di alcuni o di molti, o anche dell’«angoscia» di una parte, più sensibile e più pensante.
L’allarme cresce al cospetto di grandi rivolgimenti. Nell’età delle guerre civili romane, Lucrezio ravvisa un indizio di decadenza persino nella realtà fisica: un tempo la terra produceva corpi più grandi, giganteschi. Molti anni fa, Santo Mazzarino, in un piccolo libro geniale, La fine del mondo antico (1959), apriva l’ultimo capitolo con i versi di Verlaine: «Io sono l’impero alla fine della decadenza, che guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti» (1883). Qui torna il motivo della grandezza dei corpi. I popoli nuovi sono anche fisicamente «più grandi», e l’impero in decadenza li osserva indolente. Aggiungiamo che ciò che appare «decadenza» ad alcuni protagonisti o testimoni non è affatto tale per altri. Quelle che, nella prospettiva dell’assetto imperiale romano, e nella percezione dei suoi ceti dirigenti, nonché di una parte della storiografia moderna, erano le «invasioni barbariche», nella storiografia germanica sono le «migrazioni di popoli»: fenomeno dunque positivo che sta alla base della compenetrazione latino-germanica da cui nasce il mondo moderno.
Crisi acute — all’apparenza irreversibili — scandirono la storia della compagine romana ben prima del «fatale» III secolo. Orazio, testimone diretto del riaprirsi delle guerre civili dopo la morte di Cesare, prevede, nell’ Epodo XVI , che i barbari verranno ad abbeverare i loro cavalli in Campidoglio. Analoga fu la percezione, tra i contemporanei, dell’anno 69 d.C., tra la morte di Nerone e l’avvento di Vespasiano: riesplose allora la guerra civile e parve profilarsi il fallimento non solo della dinastia giulio-claudia, ma della costruzione augustea come tale. E così dalla crisi esplosa alla morte di Commodo (180-192), emerse, nel sangue, la dinastia severiana; e, all’estinguersi di questa, un «semibarbaro», Massimino il Trace (235-238), salì sul trono dei Cesari.
Non sarà inutile ricordare che proprio la vicenda del breve e devastante governo di Massimino, drammatizzata da Erodiano nella Storia dopo Marco , fu — insieme all’esperienza della rivoluzione russa — tra gli spunti che misero in moto la fantasia storiografica di uno dei grandi del Novecento: Mikhail Rostovtsev. Per lui — ormai esule — nell’opera sua più celebre, la Storia economica e sociale dell’impero romano (1926), la rivoluzione russa del 1917 aveva rappresentato l’analogo della sommersione della elevata civilitas ellenistico-romana da parte della semibarbara massa contadina.
La scansione per secoli, si sa, è sempre approssimativa. Nondimeno è lecito dire che la percezione del tramonto di un mondo e l’aspettativa di una nuova, salvifica, linfa spirituale furono sentimenti diffusi nel tempo che va dal sempre più stanco governo di Marco Aurelio (161-180 d.C.) alla rifondazione dello Stato ad opera di Diocleziano (284-305 d.C.). Perciò quel secolo fu definito da un grande storico irlandese, Eric Dodds (1893-1979), «età dell’angoscia», in un famoso ciclo di conferenze poi divenute libro (1964).
Ernest Renan si era spinto oltre e aveva parlato di fine del mondo antico già con Marco Aurelio. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia di Dodds cercava di cogliere i patemi e le aspettative che accomunavano le varie correnti spirituali dell’epoca al di là della distinzione, non di rado arbitraria, tra «pagani» e «cristiani».
L’iniziativa di Eugenio La Rocca di dar vita, a Roma, ai Musei Capitolini, a una grande mostra, ricca di oltre 200 pezzi, dedicata appunto al «secolo dell’angoscia», non soltanto offre materiali di primaria importanza, illustrativi di quell’epoca, ma, com’è giusto, rimette in discussione la definizione stessa, così fortunata, di Dodds. La Rocca mette alla prova la tenuta storiografica di tale concetto nell’ambito storico-artistico. Dalla sua analisi risulta chiaro quanto sia deludente il meccanicismo di chi ha posto in relazione la «crisi del III secolo» con le nuove forme di espressione artistica, in particolare la ritrattistica e il gigantismo dei sarcofagi. Una impostazione così sanamente storicistica si coglieva già nel libro «giovanile» di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Storicità dell’arte classica (1943) di cui parlò Giorgio Pasquali, con schietto entusiasmo, nel «Corriere della Sera» del 24 giugno di quell’anno: «Per Bandinelli — scrisse Pasquali — l’ellenismo figurativo dura a Roma da Silla a Traiano; sotto Traiano comincia un’arte nuova, romana, che giunge sino a Teodosio». È dunque già nel II secolo, e sempre più dalla metà in avanti, che si produce una trasformazione profonda, che investe i più diversi ambiti: artistico, religioso, filosofico, politico. E prosegue ben oltre Diocleziano.
Lo stesso Dodds, in un precedente lavoro divenuto ben presto celeberrimo, I Greci e l’irrazionale (1950), aveva infranto l’incantesimo «apollineo»: aveva fatto emergere dalle nostre fonti, spesso, in precedenza, lette selettivamente o non capite, il magma cultural-religioso che, nel mondo greco, costituiva una sorta di realtà alternativa rispetto a quella razionale e luminosa su cui fa perno la lettura classicistica. Quel magma ebbe sue forme, si nutrì di culti misterici e di culti stranieri (Tracia e Frigia ne furono le due aree matrici) i quali guadagnarono terreno nei ceti cosiddetti «bassi», ma attrassero anche quelli «alti».
Di questa genealogia intellettuale, un ramo fu Il tramonto dell’Occidente di Spengler (1918), ma è giusto ricordare che l’intuizione di partenza era racchiusa nel memorabile ancorché indigesto saggio di Nietzsche sull’ Origine della tragedia , là dove l’allora filologo fissava, con un colpo d’ala, le due categorie sempre confliggenti del «dionisiaco» e dell’«apollineo». In momenti di grave crisi, quel magma fuoriesce come lava.
La prospettiva più aderente alla realtà è dunque quella che considera forze e pulsioni siffatte come stabilmente e «pericolosamente» latenti. L’«angoscia» non è appannaggio di un determinato secolo. Il nostro presente viene frastornato dalla dottrina del «conflitto di civiltà», e la cronaca apparentemente ne ribadisce la fondatezza. Ma, a ben vedere, si tratta dell’eterno conflitto tra l’alto e il basso, tra privilegiati e diseredati, che attraversa epoche e continenti; e che, quando i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti, si esprime come furore mistico-religioso-palingenetico.


Il bello dell’angoscia
Ai Musei Capitolini uno spaccato sull’arte spettacolare prodotta durante la terribile crisi che investì Urbe nel III secolo d. C.di Cinzia Dal Maso Il Sole 15.2.15
Cinquanta imperatori in cent’anni, morti quasi tutti per mano assassina: che altro dire per illustrare il Terzo secolo d.C., l’epoca più concitata della storia dell’Impero romano? L’età della crisi. Crisi politica: scomparvero le dinastie imperiali e gli imperatori furono poco più che fantocci in mano agli eserciti. Crisi istituzionale: le numerose riforme corrosero a poco a poco le fondamenta del governo e dell’esercito di Roma. Crisi economica, tra svalutazioni monetarie, guerre esterne e civili, e l’Impero che non garantiva più sicurezza. Crisi sociale, tra comunità disgregate, carestie, epidemie, e disperati migranti in cerca di fortuna.
Fu «L’età dell’angoscia», come recita il titolo della mostra in corso ai Museo Capitolini a Roma, richiamandosi alla famosa opera di Eric Dodds. Un titolo poco invitante, in questi nostri tempi che ricordano per molti aspetti le crisi antiche. E non del tutto calzante, come la mostra spiega molto bene: i curatori Eugenio La Rocca, Annalisa Lo Monaco e Claudio Parisi Presicce aggiungono che fu anche, e soprattutto, l’età dell’ambizione.
Durante le crisi la ricchezza non svanisce ma si distribuisce diversamente, concentrandosi in poche mani. Il Terzo fu il secolo delle grandi ricchezze private e delle proprietà fondiarie che s’ingrandivano a dismisura. Il secolo della decadenza dell’edilizia pubblica a vantaggio del lusso privato: ci sono in mostra argenterie sontuose, oltre agli eleganti affreschi da una dimora da via Nazionale a Roma da troppo tempo chiusi nell’Antiquarium comunale. E i modellini dal Museo della civiltà romana (tuttora chiuso) mostrano una Roma che cercò sempre più di catturare la popolazione con spettacoli e le terme più grandi e belle dell’antichità. Ma anche una città che si riempì di caserme per mantenere un ordine pubblico difficile, e che Aureliano cinse di potenti mura per proteggerla come mai prima. Una città sempre meno “capitale”, in un’Italia sempre meno centrale rispetto all’Impero. Dopo l’editto di Caracalla del 212 d.C. tutti i cittadini dell’Impero godettero degli stessi diritti, e con Diocleziano alla fine del secolo l’Italia non fu che una delle sue molte province. Fu anche il secolo del boom dei cosiddetti “culti orientali”, primo fra tutti il Cristianesimo che subì le persecuzioni più dure. E poi Mitra, Sabazio, Giove Dolicheno, Iside, Cibele: tutti culti molto antichi - si osserva in una ricca sezione della mostra - che nel III secolo hanno sicuramente fornito risposte alle inquietudini e ai pressanti bisogni di salvezza personale. Forse, però, la loro ampia diffusione in occidente è dovuta anche ai molti “migranti” che da un capo all’altro dell’Impero portavano con sé il proprio credo. Chi meglio di noi, oggi, può comprendere ciò?
L’ambizione del secolo, tuttavia, si vede soprattutto nei ritratti: sempre più gente comune amò farsi ritrarre in vesti divine o eroiche, come Ercole, Onfale o Venere. E gli imperatori - personaggi disposti a tutto per acquisire un potere che sapevano essere comunque precario – si astraevano sempre più dagli umani a rappresentare col proprio ritratto quel potere assoluto che di fatto non avevano. I loro tratti diventavano sempre meno realistici e più schematizzati, con gli occhi sporgenti e rivolti verso l’alto a significare il loro essere come un dio, simbolo della Roma eterna.
La mostra si apre con una galleria di ritratti, come oramai consuetudine nella serie di mostre «I giorni di Roma» di cui questo è il quarto appuntamento.
Se altre volte, però, la selva di volti rischiava di parlare poco al visitatore, in questo caso cattura a prima vista.
In un allestimento realmente spettacolare, scorrono i “grandi” del secolo in ordine cronologico, e si è spinti a scoprirne le gesta, a capire quale esercito li ha acclamati e quale ne ha decretato la fine. E nonostante le schematizzazioni e gli occhi tutti uguali, paiono avere più carattere dei loro più duraturi predecessori: allora si viveva d’immagine molto più che di sostanza.
Tra tanti volti “sognanti”, spicca sicuramente l’enorme statua bronzea di Triboniano Gallo dal Metropolitan, ma lo sguardo si posa curioso soprattutto sui raffinati filosofi in trono – il giovane, l’uomo maturo e l’anziano - dalla villa di Dioniso a Dion in Macedonia.
Oppure su alcuni volti di gente comune, benestanti che si facevano ritrarre come filosofi: mostrano, palpabile, tutto il «dolore di vivere» del secolo.

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