In questo viaggio nell’antica Mesopotamia, arricchito da un’affascinante e colorata galleria fotografica, Giovanni Iudica ci racconta la storia della città, delle sue straordinarie meraviglie – i Giardini Pensili, le Mura, la Torre di Babele – e delle incredibili conquiste culturali lasciate in eredità sia
a Oriente che a Occidente.
Bellezza e stupore. Confusione e peccato. Nella terra del paradiso terrestre, tra i due fiumi, all’alba della civiltà. Babilonia - la città, celebrata come «fondazione dell’eternità» dall’Enum a Elish, in cui tutto era sacro - e i suoi tesori, comprese due delle sette meraviglie del mondo antico. Le mura «alte come montagne», le otto porte urbiche, i lussureggianti Giardini Pensili voluti per la tradizione dalla regina assira Semiramide (figlia della dea siriana Derceto) e per la storia da Nabucodonosor II, ma inspiegabilmente ignorati da Erodoto, il Palazzo Sud di Nabucodonosor, l’Esagila (il tempio di Marduk, il re degli dei), la Via delle Processioni, i dodici giorni di celebrazione dell’Akitu, la festa del Nuovo Anno...
Ma soprattutto l’Etem enanki, la Torre di Babele iniziata da Hammurabi, semidistrutta da Sennacherib, restaurata da Nabopolassar e infine completata dal figlio sino ad arrivare a una costruzione gradata di sette piani a pianta quadrata (91 metri per lato) e alta circa 100 metri. Un mito, come il labirinto o il numero aureo. Entrato da protagonista assoluto nella religione (la Bibbia), nella narrativa (Borges), nella poesia (Szymborska), nell’arte, nella musica e nei film, simbolo a un tempo di genialità e di caos. Ben descritto, con taglio divulgativo, da Giovanni Iudica, giurista della Bocconi con passioni umanistiche, nel saggio La casa del fondamento del cielo e della terra ( La Vita Felice, pp. 224, euro 20), arricchito da un vasto apparato iconografico - carte geografiche, incisioni, illustrazioni, silografie - a cura di Giovanna Gallina e Stefania Seccareccia.
Certo, la tradizione biblica ci è andata giù pesante contro la città del distruttore del Tempio di Gerusalemme e quindi sede della cattività del popolo ebraico per 60 anni (dal 597 a.C. al 538 a.C.), fino all’arrivo del liberatore Ciro II il Grande: Babilonia sentina di ogni vizio, madre di prostitute e destinataria di terribili maledizioni («Sarà sconvolta da Dio come Sodoma e Gomorra. Non sarà abitata mai più, né popolata di generazione in generazione», scriveva il profeta jahvista Isaia; «È diventata covo di demoni, rifugio di ogni bestia impura e orrenda», gli farà eco Giovanni nell’Apocalisse). Ancora più tremendo l’odio per la Torre dell’architetto Nimrod (“Ribelle”), sino a trasformare la naturale difficoltà di comunicazione tra maestranze provenienti da ogni parte dell’impero babilonese in una micidiale punizione divina, di un dio vendicativo irato per la hybris di uomini tracotanti desiderosi di raggiungere il cielo e conquistare il potere delle stelle.
Ciononostante, nell’iconografia si trovano anche altre interpretazioni. In alcune delle più antiche rappresentazioni della Torre - dal bassorilievo romanico della sagrestia della Cattedrale di Salerno (circa 1050) al mosaico bizantino della Cappella Palatina di Palermo (1135), dalla miniatura del Libro d’Ore del duca di Bedford (1424-1430) al capolavoro (1563) di Pieter Bruegel il Vecchio - prevale l’attenzione per gli aspetti architettonici, sorta di campanili di stampo medievale o a forma elicoidale sull’esempio del minareto di Samarra; Dio è sì presente, ma si limita perlopiù a guardare l’operosità umana, non scaglia fulmini. Se in numerosi casi si intuisce il castigo imminente, con nubi oscure a solcare il cielo e muli e cammelli in fuga, all’apparire dei liberi pensatori del Settecento, all’epoca dei Lumi, accade il miracolo: la Torre è compiuta, gli uomini hanno vinto la loro battaglia e addirittura, in alcune incisioni, in cima alla Torre appare un’intera città, la Civitas Solis.
La vera Babilonia, invece, in lenta decadenza dalla morte di Alessandro Magno, distrutta dalle ondate islamiche, mongole e ottomane, riapparirà dalle sabbie del deserto solo ai primi dell’Ottocento grazie a Claudius Rich, console britannico a Baghdad. E i dati della vera Torre nel 1913, grazie all’architetto tedesco Robert Koldewey.
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