domenica 25 gennaio 2015

Nostalgia della democrazia: una storia del liberalismo di sinistra in Italia nell'epoca della regressione protoliberale

Copertina
L'autore è scavalcato a destra dall'Autorità che gli scrive la prefazione; la quale è a sua volta scavalcata - ancora più a destra - dallo zelante recensore [SGA].

Paolo Bonetti: Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, Liberilibri

Risvolto
Questo saggio ripercorre una vicenda intellettuale che va dalla crisi della de­mocrazia liberale sfociata nella dittatura fa­scista fino alle riflessioni di Nor­ber­to Bobbio sulle nuove risposte che il liberalismo è chiamato a dare alla so­cietà contemporanea, così profondamente mu­­­tata rispetto al recente passato. 
Il libro prende in esame una tradizione di pensiero che si divarica in due fi­­loni: quello di una democrazia matura e ri­for­matrice tesa a razio­naliz­zare la so­cietà capitalistica senza spe­gnerne l’in­tima creatività, e quello di una pro­spet­­tiva più marcatamente liberalsocialista che sente il problema del­l’eguaglianza come in­dissolubile da quello della li­ber­tà. 
La postfazione di Dino Cofrancesco è quasi una controstoria rispetto a quella dell’autore e apre lo spazio per una proficua discussione sulla ricostruzione sto­rica di Bonetti. 
Paolo Bonetti È stato professore di Filosofia morale nell’Università di Cas­sino e di Bioetica in quella di Urbino. Come studioso di filosofia politica e morale, ha pubblicato libri su Croce, Gramsci, Pareto e sul gruppo liberal-radicale del «Mondo». Ha anche curato una Intervista sulla democrazia laica a Giovanni Spa­do­lini. Per i nostri tipi ha collaborato al libro collettaneo Sulla pena. Al di là del carcere (2013).


Un saggio di Paolo Bonetti ricostruisce le vicende del liberalsocialismo da Gobetti a Pannunzio, passando per il costituzionalismo di Bobbio

Giancristiano Desiderio - il Giornale Dom, 25/01/2015


Liberalismo di sinistra / 1
La libertà uguale per tutti
Piero Bonetti offre una serie di ritratti di personaggi tra loro anche non omogenei, come ad esempio Gobetti e Amendoladi Giuseppe Bedeschi Il Sole Domenica 1.3.15
Paolo Bonetti, noto studioso di Croce (di cui ha scritto un bel profilo, edito da Laterza), pubblica ora, per i tipi di liberilibri, una Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio. Nel volumetto si susseguono ritratti di Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, Guido Calogero, Aldo Capitini, degli “azionisti” liberali (Omodeo, La Malfa, eccetera), degli animatori del settimanale «Il Mondo», e di Norberto Bobbio.
La scrittura di Bonetti è limpida (un merito, questo, di cui gli si deve dare atto, in tempi come i nostri, in cui – come dice giustamente Cofrancesco nella sua postfazione – lo stile criptico e la metafora oscura vengono sempre più contrabbandati come indici di profondità teoretica). Ma non direi che sia altrettanto limpido il quadro complessivo delineato dall’Autore, e che da esso si ricavi un’idea chiara e coerente del cosiddetto «liberalismo di sinistra in Italia». La stessa scelta dei protagonisti lo dimostra.
Prendiamo due figure importanti: Piero Gobetti e Giovanni Amendola. Gobetti diede un giudizio estremamente positivo sulla rivoluzione bolscevica in Russia (contro le riserve dei Kautsky, dei Mondolfo, dei Turati eccetera), e dichiarò che era inessenziale, anzi futile, porsi il problema se essa fosse o no una rivoluzione socialista, perché essa era – ecco il dato fondamentale da non perdere di vista – una «rivoluzione liberale». Il giovane intellettuale torinese concluse infatti un suo articolo sulla rivoluzione russa con queste parole: «L’opera di Lenin e di Trotzky rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo». In piena coerenza con questi giudizi, Gobetti approvò il movimento di occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, che gli parve «l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia», «la libertà che si instaura». Anche nel movimento di occupazione delle fabbriche, e in particolare nell’esperimento “consiliare” teorizzato e promosso da Gramsci, Gobetti vide una grande espressione di liberalismo. Egli era convinto, infatti, che i capitalisti non fossero più in grado, ormai, di adempiere la loro funzione di risparmiatori e di imprenditori, e che dovessero essere gli operai, attraverso la loro organizzazione autonoma, i Consigli, a sostituirsi agli industriali per salvare la civiltà capitalistica. Per Gobetti, insomma, la classe operaia era l’unica classe capace di preservare il sistema borghese, sostituendosi alla borghesia.
Volgiamoci ora a Giovanni Amendola: il quadro, in lui, è del tutto diverso. Sul bolscevismo egli diede un giudizio completamente negativo; e in modo altrettanto negativo valutò il movimento di occupazione delle fabbriche nel 1920. Anzi, egli non esitò a riconoscere al fascismo il “merito” di essersi opposto con tutti i mezzi al tentativo rivoluzionario di ispirazione bolscevica; e nessun italiano – egli diceva – poteva «non riconoscere il vantaggio che derivò alla patria nostra dall’esserle stata risparmiata l’esperienza mortale del leninismo». (Da queste parole si vede che in un primo tempo Amendola sottovalutò il carattere eversivo, “totalitario” – un termine da lui coniato, che ebbe poi diffusione mondiale – del fascismo; e quando lo percepì, pagò con la vita la sua intransigente opposizione ad esso).
Certo, anche Amendola, come Gobetti, fu antigiolittiano. Ma fu tale perché egli vide nello Stato giolittiano uno Stato di minoranze, che erano sì eredi della tradizione liberale, ma che non avevano saputo integrare le grandi masse nelle istituzioni. Amendola voleva che alla direzione dello Stato fossero chiamati uomini e ceti nuovi. E ciò nel quadro delle istituzioni liberali, in modo che la libertà coincidesse con la democrazia. A tal fine egli si propose di costruire un “partito nuovo”, capace di realizzare un blocco di forze comprendente la borghesia lavoratrice e produttrice e il proletariato (il quale, dunque, non era visto da Amendola in una luce esclusiva e salvifica).
Dunque, che cosa hanno in comune Gobetti e Amendola, in termini dottrinali? Nulla o quasi nulla, sicché non si vede come essi possano essere messi insieme sotto l’etichetta del “liberalismo di sinistra” (che è definizione tanto improbabile e astratta quanto la sua omologa-opposta, quella del “liberalismo di destra”. E altre difficoltà storico-concettuali sono segnalate da Cofrancesco nella sua postfazione).
Paolo Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra in Italia . Da Gobetti a Bobbio. Liberilibri, Macerata, pagg. 220, € 16,00

Liberalismo di sinistra / 2
Un fil rouge sino a Bobbio di Massimo Teodori Il Sole Domenica 1.3.15
Con la scomparsa di gran parte delle voci del liberalismo riformatore e la crescente presenza sulla scena pubblica di populismi socializzanti e corporativismi conservatori, è più che mai opportuno richiamare alla memoria le correnti intellettuali e politiche che hanno reso l’Italia un paese più moderno e liberale secondo le migliori tradizioni riformatrici dell’Occidente. Con la Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio (Liberilibri), Paolo Bonetti ripercorre le vicende di intellettuali e protagonisti politici che hanno giocato un ruolo significativo nel Novecento, pur non appartenendo a un unico movimento politico, né a una omogenea tendenza culturale. Il merito di Bonetti, tuttavia, è proprio di essersi tenuto lontano dagli schematismi teorici del pensiero politico, e di avere proceduto a una ricostruzione storica nella quale si snoda il filo unificante che collega uomini, gruppi e partiti variamente denominati liberali classici e liberalsocialisti, liberisti e radicali, democratici liberali e socialisti liberali, i quali, tutti, si sono battuti per salvare la sostanza etico politica della tradizione liberale passando attraverso le riforme economiche e politico-giuridiche.
Qualcuno potrebbe obiettare che è contraddittorio includere in un unico calderone il Benedetto Croce del metodo liberale e la sintesi di liberalismo e socialismo di Guido Calogero, ed è ideologicamente dissacrante mescolare il liberismo pragmatico di Luigi Einaudi con il mix di giustizia e libertà di Carlo Rosselli. Altri potrebbero sottolineare che il grande moralizzatore Gaetano Salvemini, autore del Ministro della malavita, non può essere accostato a Giovanni Giolitti che, pur di attuare un liberalismo popolare regolato dallo Stato, non si fece scrupoli sulle pratiche clientelari nel mezzogiorno. Altri ancora che amano discettare del tasso di liberalismo di Piero Gobetti potrebbero sostenere che il ventenne non elaborò mai un programma politico coerente ma guardò con simpatia ai comunisti di Ordine nuovo polemizzando con i socialisti riformisti di Turati. Dal canto loro, i critici dell’azionismo, facenti capo, ieri, ad Augusto Del Noce e, oggi, a Dino Cofrancesco (a cui si deve una corposa postfazione «scritta pensando a Vincenzo Cuoco»), non accetteranno mai l’idea che l’“azionismo” è una categoria inadatta a designare le vicende plurime e singolari degli azionisti che, durante e dopo il Partito d’Azione, praticarono idee e percorsi politici disparati tra cui quello più spiccatamente liberale del gruppo di “Stato moderno” di Mario Paggi, così sorprendentemente moderno nell’analisi delle istituzioni occidentali.
Con l’esaurimento dell’Italia liberale in cui ebbero un ruolo decisivo Giolitti, Croce e il liberaldemocratico Giovanni Amendola, e dopo la sconfitta del fascismo, nel secondo dopoguerra i liberali hanno dovuto fare i conti con l’egemonia dei comunisti e dei cattolici. I leader che avrebbero potuto guidare con autorevolezza la rinascita liberale – Gobetti, Rosselli, Amendola, e pure Giacomo Matteotti loro interlocutore socialista – non a caso erano stati eliminati dai fascisti. Restava il Partito d’azione che non aveva lasciato il monopolio dell’antifascismo e della Resistenza al Partito comunista, e aveva ipotizzato con la corrente cosiddetta di “destra” poi confluita in parte nel Partito repubblicano (oltre a Ugo La Malfa, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero e Luigi Salvatorelli), una linea riformatrice non marxista vicina alle esperienze del New Deal americano e del laburismo britannico.
Dieci anni dopo, il Partito radicale di Mario Pannunzio, nato dalla costola di sinistra del Partito liberale e da ex-azionisti (Paggi, Ernesto Rossi, Leo Valiani) tentò, senza successo, la strada della “terza forza” che costituì negli anni Cinquanta una barriera di libertà liberatrice al comunismo e al clericalismo, e lasciò in eredità al centrosinistra i progetti di riforme economiche, sociali e istituzionali dei convegni degli “amici del Mondo”, la sede più illustre del dialogo tra riformatori sparsi per ogni dove. In seguito i radicali di Marco Pannella rinvigorirono la battaglia laica e antitotalitaria portando a compimento alcuni diritti civili tra cui il divorzio. Bonetti, in conclusione, dopo avere ricordato che Norberto Bobbio ha rinverdito il significato liberale della democrazia procedurale, del principio di maggioranza, e dei diritti delle minoranze, ha compendiato in due prospettive di rinnovamento le maggiori correnti del liberalismo di sinistra: quella Gobetti-Rosselli-Calogero, che ha ipotizzato, pur nel mantenimento del costituzionalismo liberale, una radicale trasformazione della struttura economica in senso socialista, e quella della classica democrazia liberale riformatrice di Giovanni Amendola-Ugo La Malfa-Mario Pannunzio che si è mossa all’interno del capitalismo regolato.

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