Giovanni Pico della Mirandola: Mito, magia, qabbalah, a cura di Giulio Busi e Raphael Ebgi, Millenni Einaudi
Risvolto
Eccentrico già agli occhi dei contemporanei,
Pico è sempre stato un pensatore
difficile da collocare. Ricco, esibizionista,
uomo di mondo e «dilettante di genio»,
il Conte della Mirandola è, dopo piú di
cinque secoli, una sorta di ospite illustre
e scomodo della cultura italiana.
Lorenzo
de' Medici, tra i pochissimi che riuscirono
a confrontarsi con lui (quasi) alla
pari, lo definí «istrumento da sapere
fare il male et il bene» e Pico, di cui tanto
si è parlato e scritto, ci appare ancora
come un enigma. L'Orazione sulla dignità
dell'uomo è considerata uno dei testi
piú rappresentativi del Rinascimento,
ma il resto della sua opera - in tutta la sua
lussureggiante erudizione - rimane quasi
inaccessibile, tanto ricco da sconcertare
e confondere. Con questo libro viene per
la prima volta individuata una chiave interpretativa
forte, che pone al centro delle
riflessioni pichiane l'intreccio tra mito,
magia e qabbalah: i tre gradini piú alti della
scala sapienziale disegnata dal Conte.
Dal Bacio al Vino, passando per Bacco,
Muse e Veneri, il volume è organizzato
come un dizionario, per lemmi, e a ogni
voce corrisponde una selezione di brani
di Pico sul tema. In un commento apposito
si offre poi un'analisi del «Pico visivo», ovvero del rapporto tra le idee del
Conte e alcuni capolavori dell'arte quattrocentesca.
Con lo strumento dell'antologia dell'antologia,
Busi ed Ebgi affrontano l'aggrovigliata
matassa del pensiero di Pico. E
riescono a districarla come finora non
era ancora successo.
Asceta, cabalista e anche rubacuori, Pico inseguito da un marito tradito
Il genio nato a Mirandola era un passionale che fece conoscere la mistica ebraica
di Giorgio Montefoschi Corriere 3.1.15
«Eccentrico
già agli occhi dei contemporanei. Troppo ricco ed esibizionista, un
dilettante di genio difficile da collocare». Così Giulio Busi — uno dei
maggiori esperti di ebraismo medievale e rinascimentale — abbozza un
primo ritratto di Giovanni Pico della Mirandola all’inizio della
splendida introduzione del Millennio Einaudi (curato poi da lui stesso e
Raphael Ebgi) intitolato, appunto, Giovanni Pico della Mirandola. Mito,
magia, qabbalah .
Non è un ritratto semplice. Perché se c’è un
personaggio enigmatico, un «camaleonte» spavaldo e sfuggente, un «ospite
illustre e scomodo della cultura italiana», quello è proprio il Conte
della Mirandola. Protetto da Lorenzo de Medici — uno «tra i pochissimi
che riuscì a confrontarsi con lui (quasi) alla pari» — e amico del
Poliziano e del Savonarola (severo, costui, nei suoi confronti, per non
essersi voluto fare frate domenicano, dunque convinto che la sua anima
si sarebbe fermata in Purgatorio); sodale e rivale di Marsilio Ficino,
il filosofo che a Firenze stava introducendo gli studi platonici; dotato
di una memoria fuori del comune; conoscitore di tutto quello che si
poteva conoscere della cultura classica e insieme «scopritore» della
qabbalah; attratto dalla magia e dai maghi (poiché «come il contadino
marita gli olmi alle viti, così il mago la terra al Cielo»);
frequentatore precoce delle più importanti aule universitarie italiane e
francesi, nonostante uscisse da un ambiente provinciale e da una
famiglia feudale «più dedita alle armi che agli ozi letterari»; autore
di opere — come l’ Orazione sulla dignità dell’uomo e le 900
Conclusiones — che per l’intreccio dei saperi provocano una vera
«vertigine intellettuale», Pico è nel medesimo tempo uomo di mondo e
mistico, asceta e rubacuori, ma la sua scala va dritta verso il cielo:
alla ricerca delle perle smarrite.
Il 1486 — racconta Giulio Busi,
che nei confronti di Pico nutre ogni indulgenza — è un anno cruciale e
frenetico per il Conte della Mirandola. Appena ventitreenne, ha già un
posto di rilievo nell’ambiente culturale fiorentino.
È anche molto
bello. Così lo descrive il nipote Gianfrancesco: «Fu di aspetto insigne e
nobile, di statura alta e retta, di carnagione delicata, di viso bello
sotto ogni aspetto, cosperso di un colorito che tendeva al pallido e di
un rosso che bene gli si addiceva, di occhi grigio azzurri e svegli, di
capigliatura bionda e di un biondo naturale, di denti bianchi ed
eguali». Come non innamorarsi di un giovane di tal fatta: bello, colto,
ricco?
Nella sua rete è caduta Margherita — pure lei bellissima —,
vedova di uno speziale, sposata in seconde nozze con un rappresentante
di un ramo minore dei Medici: gabelliere che, per sbarcare il lunario (o
forse per por fine alla subodorata tresca che va avanti già da qualche
tempo), si trasferisce ad Arezzo. Giovanni non demorde. Si presenta ad
Arezzo con una scorta non indifferente e rapisce Margherita che sta
andando a messa. Il marito si infuria, convince il capitano della città
all’inseguimento, con ben duecento uomini armati; diciotto
accompagnatori del Conte rimangono sul campo; Pico e il suo segretario
riescono a riparare nella rocca di Marciano; la «sposa salvata» ritorna
mestamente ad Arezzo. Scoppia uno scandalo, di cui è naturalmente
informato il Magnifico. Ma Lorenzo ama il Conte della Mirandola: quel
ragazzo scapestrato che sa milioni di cose, con il quale può conversare
di Platone e San Tommaso, di Ovidio e Omero, della bellezza che è nel
mondo, di quella che è invisibile, e di Dio. Fa capire che a lui di quel
suo «parente povero» non importa più di tanto e che Giovanni va
lasciato in pace.
Quindi, Giovanni, liberato da ogni preoccupazione,
si ritira in campagna e si butta a capofitto nel lavoro. È il mese di
luglio: conclude l’epistola sul Canzoniere di Lorenzo, prepara a tappe
forzate le Conclusiones , inizia lo studio dell’arabo, e soprattutto
dell’ebraico e della mistica giudaica.
Gli fa da guida, in questa
impresa assolutamente nuova per la cultura del tempo, che di mistica
ebraica non sapeva nulla, una figura altrettanto originale e controversa
— alla quale, non a caso, Giulio Busi ha dedicato, in più opere,
notevole attenzione. Costui è figlio di una colta famiglia ebraica
siciliana di Caltabellotta. Col nome del suo padrino di battesimo prima,
Guglielmo Raimondo Moncada, poi con quello di Flavio Mitridate, si è
convertito al cristianesimo. Ordinato prete, dopo gli studi di teologia a
Napoli, insegna all’università e fa velocemente carriera nella corte
papale, finché il coinvolgimento in un delitto lo costringe (come
Caravaggio) ad abbandonare Roma e a ritirarsi oltralpe.
Rientrato a
Firenze, frequenta Ficino e conosce Pico. L’incontro fa scoccare una
scintilla. Mitridate ha bisogno di aiuto: Pico gli mette a disposizione
le sue ricchezze perché traduca dall’ebraico in latino tutto quello che
può della mistica ebraica. È un lavoro forsennato quello al quale si
sottopone il sofisticato ebreo siciliano convertito. Ma, in tal modo,
l’imponente corpus della mistica ebraica, la qabbalah, fa il suo
ingresso nel mondo umanistico europeo. Rischiarandolo con una
sbalorditiva luce. Perché — secondo Pico — questa millenaria sapienza
ebraica, sconosciuta e sospetta, sebbene nascostamente, ha un cuore
antico di verità cristiana.
«Ridotto all’essenziale — scrive Busi —
il ragionamento di Pico suona così. Se si mettono in controluce il Libro
di Esdra , il Vangelo, le allusioni di Paolo nella Lettera ai Romani , e
le affermazioni più esplicite di grandi Padri della Chiesa, si scopre
che gli ebrei possiedono una sapienza segreta, consegnata da Dio a Mosè
sul Sinai e poi passata di generazione in generazione.
Questa è la
qabbalah propriamente detta, ora custodita con gelosia dalla gente di
Israele, che si rifiuta di schiuderla agli altri. Ed è un danno, perché
colui che se ne impadronisce, com’è riuscito al giovane mirandolano,
ottiene una chiave formidabile per leggere la Scrittura con occhi nuovi e
per capirla più profondamente». Pico vi legge i segreti della storia,
le origini di ogni mito, e, soprattutto, l’avvento del vero Messia. E
vede — usando la chiave del simbolo — che tutto è contenuto in tutto;
ogni grano di realtà è abbastanza capiente per accogliere il mondo
intero; e l’uomo, che è al centro della creazione, ritraendosi in se
stesso — esattamente come Dio si è ritirato in se stesso, contraendosi,
per far posto alla creazione — può arrivare a Dio.
La visione
rivoluzionaria di Pico e i suoi talvolta spericolati accostamenti (come
quello fra magia e qabbalah e i miracoli di Cristo) non potevano non
allarmare la Chiesa, e il Papa, Innocenzo VIII, istituì una commissione
di prelati e di esperti per giudicare la verità delle Conclusiones . La
prima seduta si tenne nell’appartamento del vescovo Jean de Monissart il
2 marzo 1487, quando il fastoso carnevale romano era da poco finito. I
giudici ponevano domande su domande. Il Conte della Mirandola rispondeva
stizzito. I reverendi padri si irritavano sempre di più. Il culmine
della irritazione reciproca fu raggiunto alla fine della giornata quando
venne presa in esame la seguente dichiarazione: «Non v’è scienza che ci
dia maggiore certezza della divinità di Cristo della magia e della
Cabala». Che mai voleva dire quel ragazzo impudente? Pico, altezzoso
com’era, si beffò dei padri e dette una risposta elusiva (lui — disse —
intendeva quella parte della «Cabala» che non è scienza né teologia
rivelata) che sconcertò ulteriormente il severo consesso. La condanna
era inevitabile.
Il libro di Busi e Ebgi «nasce dalla frustrazione»,
come scrive nella sua introduzione Giulio Busi. Vale a dire, dal senso
di sgomento che si coglie di fronte alla foresta di luoghi simbolici,
citazioni mitologiche, corrispondenze, intrecci, allusioni, parole
segrete o indecifrabili poiché provenienti da lingue del tutto
sconosciute, che costituisce l’opera di Pico della Mirandola. L’unica
strada da percorrere — ed è stata quella che hanno imboccato i due
autori — era quella di organizzarlo per argomenti, come una specie di
dizionario, facendo seguire ai testi pichiani un loro commento. Detto
questo, il lettore non deve scoraggiarsi. Tutt’altro. Sappia che leggerà
pagine bellissime. Conoscerà l’ambrosia: il nettare divino che concede a
chi lo assume la vita eterna. Saprà che non si può incontrare
impunemente un dio, e che per questo motivo (per aver visto Pallade
nuda) Tiresia divenne cieco (ma ebbe il dono della profezia). Saprà che
anche Omero divenne cieco per aver chiesto, sul tumulo di Achille, che
gli apparisse come era da vivo. Saprà che l’isola di Ogigia battuta dai
flutti è l’isola delle fantasie e dei desideri terreni, mentre Penelope è
l’approdo alla patria celeste. Saprà che Dio è avvolto nella caligine.
Saprà che il bacio è la più perfetta copula fra gli amanti. Ma che
esistono anche baci che superano il corpo, come i baci del Cantico dei
Cantici . E che si può morire di baci. Purché si faccia molta attenzione
nel non baciare chiunque: estranei che possano impedire la salita al
Cielo.
Isgrò parla con PicoAda Masoero Domenicale 23 novembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento