sabato 17 gennaio 2015

Ridurre l'orario di lavoro: un altro piddino prigioniero

Marco Craviolatti: E la borsa e la vita, Ediesse 
Risvolto

Sofferenza sociale, minacce ambientali, crisi economiche ricorrenti... la necessità di profondi cambiamenti del «modello di sviluppo» è ormai consapevolezza diffusa, ma in quale direzione? La risposta ortodossa è da decenni la stessa: più lavoro. I sindacati lo invocano per aumentare l’occupazione, le imprese lo impongono allungando e intensificando le prestazioni dei dipendenti. Però il lavoro è sempre di meno: la riduzione dell’orario «medio» è già in atto da decenni in tutti i paesi avanzati, tuttavia si traduce in una crescente polarizzazione tra sottoccupati e sovraoccupati, con effetti drammatici per entrambi. Se dunque l’uovo di Colombo sotto gli occhi di tutti consistesse nella risposta opposta: meno lavoro? Meglio: nella distribuzione equa di un lavoro in diminuzione, ma più efficiente, dignitoso e utile alla collettività. Il testo esplora questa possibilità, alla ricerca di una possibile quadratura del cerchio tra punti di vista solo in apparenza inconciliabili: un sindacato capace di rinnovarsi, movimenti sociali che coniugano idealismo e pragmatismo, attori economici innovativi e responsabili. Chiamando la politica al suo ruolo dimenticato di indirizzo dell’economia


La buona vita dove tutti possono lavorare 
Marco Omizzolo e Roberto Lessio, il Manifesto 17.1.2015 

«E la borsa e la vita» è il titolo del bel libro di Marco Cra­vio­latti, edito da Ediesse (euro 14), con pre­fa­zione di Ste­fano Fas­sina. Senza mai cedere alla reto­rica e con un’importante docu­men­ta­zione a soste­gno delle sue tesi che non appe­san­ti­sce la let­tura ne bana­lizza l’analisi, Cra­vio­latti sostiene la pra­ti­ca­bi­lità di un’alternativa reale alla can­cel­la­zione dei diritti, alla subor­di­na­zione dei lavo­ra­tori e disoc­cu­pati al capi­tale, alla mor­ti­fi­ca­zione delle esi­stenze per l’ansia neo­li­be­ri­sta della glo­ba­liz­za­zione con­tem­po­ra­nea. Il suo sot­to­ti­tolo indica subito la dire­zione: «distri­buire e ridurre il tempo: oriz­zonte di giu­sti­zia e di benes­sere». Lavo­rare meno, per lavo­rare meglio e tutti. 
Sono descritti quat­tro ottimi motivi per ridurre gli orari di lavoro. In pri­mis si trat­te­rebbe di uno stru­mento di distri­bu­zione della domanda di lavoro, soprat­tutto se scarsa. L’autore ricorda che si tratta di poli­ti­che già spe­ri­men­tate in altri paesi euro­pei e con ottimi risul­tati, non­ché in Ita­lia coi «vec­chi» con­tratti di soli­da­rietà.
La coniu­ga­zione di inve­sti­menti pub­blici per l’occupazione, magari a par­tire dalla messa in sicu­rezza del ter­ri­to­rio, vera grande opera utile del paese, insieme alla redi­stri­bu­zione del lavoro, può sop­pe­rire alla rela­tiva scar­sità di risorse eco­no­mi­che da impiegare. 
In que­sta dire­zione si muove la seconda ragione. La ridu­zione di ora­rio inci­de­rebbe sul rap­porto tra capi­tale e lavoro, «resti­tuendo — scrive Cra­vio­latti — ai lavo­ra­tori una quota dell’enorme cre­scita di pro­dut­ti­vità avve­nuta negli ultimi quarant’anni». In que­sto caso i van­taggi sono sem­pre andati in favore della ren­dita e dei pro­fitti da capi­tale, cre­sciuti più dei salari. 
Per inver­tire que­sta dire­zione è neces­sa­rio, secondo l’autore, fare cre­scere i salari reali e/o ridurre gli orari di lavoro a ten­den­ziale parità di sala­rio. Un’ulteriore ragione riguarda i bene­fici anche per le imprese. La ridu­zione ora­ria miglio­re­rebbe l’efficienza e la pro­dut­ti­vità del lavoro incen­ti­vando la con­cor­renza fon­data sull’innovazione e sulle com­pe­tenze pro­fes­sio­nali, in alter­na­tiva al feroce con­te­ni­mento dei costi produttivi. 
La quarta e ultima ragione con­si­ste­rebbe nell’impatto posi­tivo nella vita indi­vi­duale e sociale, limi­tando l’alienazione e libe­rando risorse indi­vi­duali e col­let­tive in favore dello svi­luppo della per­sona, della par­te­ci­pa­zione sociale, dello scam­bio non monetario. 
Una pro­po­sta di senso, qua­li­fi­cata, che indica una dire­zione diversa rispetto a quella attuale, dove non vince solo e sem­pre il capi­tale, come in una par­tita a carte con il baro, il con­flitto ha un ruolo sociale e non è deru­bri­cato a resi­duo ideo­lo­gico e la for­bice tra ric­chi e poveri dimi­nui­sce miglio­rando pro­dut­ti­vità, diritti, giu­sti­zia, ugua­glianza. Un mode­rato rifor­mi­smo è suf­fi­ciente per avviarla, è scritto nella sua intro­du­zione, men­tre gli esiti potreb­bero essere una radi­cale tra­sfor­ma­zione dei modelli di pro­du­zione e di consumo.

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