sabato 24 gennaio 2015

Ritratto di Virginia Woolf

Le rivelazioni di Virginia Woolf Attimi di luce nel cuore della vita 

Al centro dei ricordi d’infanzia e adolescenza il rapporto con la madre e la sorella 

Pietro Citati Sabato 24 Gennaio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

Momenti d’essere , che Virginia Woolf cominciò a scrivere il 16 aprile 1939, è uno dei suoi capolavori: certo il libro più bello degli ultimi anni (ed è raccolto nel secondo volume dei Meridiani Mondadori, Saggi, Prose, Racconti , a cura di Nadia Fusini). In molto ricorda Al faro , sebbene sia meno grandiosamente simbolico. È un libro sul presente: su un presente che ha dietro di sé il passato, e quindi diventa mille volte più profondo di quando non è che qui, ora, adesso, e si protende sempre più all’indietro, come se non potesse avere fondo né fine. 
Il tempo non è omogeneo: esso è composto da «momenti di essere» e da «momenti di non essere»; e il vero narratore rende giustizia ad entrambi, perché ama ed è fedele a tutte le forme del tempo. I «momenti di non essere» sono una specie di ovatta, compatta e continua: potremmo chiamarli, con una parola comune, «storia». I «momenti di essere» sono discontinui, frammentari, e ci portano verso il cuore e il culmine o i culmini della nostra vita. Potremmo chiamarli rivelazioni: rivelazioni luminose; senza di essi non sappiamo chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. 
Tutta la vita, anche quella più comune, è gremita da momenti di essere: forse specialmente l’infanzia; se guardiamo all’indietro, ci assalgono ora una «tristezza senza speranza», ora «colori brillanti, suoni distintissimi», ed entrambi appartengono ai momenti di essere. Sono sia stabili ed eterni: sia mobilissimi, e si avvicinano e poi scompaiono, si ingrandiscono e si rimpiccoliscono, procedendo a velocità diverse, secondo la diversa urgenza che li spinge. C’è in essi il segno di «qualcosa di reale al di là delle apparenze»: «Sono io — dice la Woolf — che lo rendo reale esprimendolo in parole... Solo con l’esprimerlo in parole gli do interezza». 
Ricordiamo La signora Dalloway . Mentre Clarissa Dalloway è in casa, o passeggia per i giardini di Londra, all’improvviso ha una rivelazione: sente il mondo farsi vicino, carico di qualche stupefacente e incomprensibile significato: la crosta sottile dell’esistenza quotidiana si spacca; e Clarissa prova una passione simile all’estasi. L’attimo cade come una goccia: la imbeve di sé; oppure lei si tuffa nel suo centro che le dilata i nervi e il cuore. In quell’istante, che le pare un preannuncio di eternità, e forse potrebbe perderla, conosce insieme tutte le polarità dell’esistenza: la vita e la morte, la luce e la tenebra, la felicità e l’orrore. Il momento dura pochissimo, come il ricordo di Proust: un barlume d’estasi; poi si ritira, fugge via, finisce; e Clarissa si ritrova di nuovo sparsa nella liquidità della vita. 
Nei Momenti d’essere , la Woolf ricorda i mesi d’estate passati a St. Ives, in Cornovaglia. «Nulla di quanto avemmo da bambini fu altrettanto importante per noi dell’estate in Cornovaglia. Partire per la fine dell’Inghilterra; avere la nostra casa, il nostro giardino — e quella baia, quel mare, e la montagna…; udire le onde frangersi la prima notte dietro la tenda; fare vela col bragozzo; scavare nella sabbia; arrampicarsi sugli scogli e vedere gli anemoni che aprivano le loro antenne negli stagni; trovare di tanto in tanto i pesciolini che guizzavano; ripassare le lezioni in sala da pranzo e vedere la luce che cambiava colore sulle onde; andare giù in paese a comperare la scatola di acquerelli dalla signora Lambran; odorare l’odore di pesce nelle stradine scoscese; e vedere gli innumerevoli gatti; e le donne sui gradini delle case che rovesciavano secchi d’acqua sporca nei tombini… Potrei — conclude la Woolf — riempire pagine e pagine di tutte le cose che facevano delle estati trascorse a St. Ives il miglior inizio di vita che si possa immaginare». Con tanta differenza di temperamento e di fini, il lettore ricorda Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas. 
Al centro di quella grande cattedrale che era l’infanzia, stava la madre, che la ossessionò sempre — sentiva la sua voce, la vedeva, immaginava cosa avrebbe fatto o detto in ogni momento della giornata — sino al momento in cui concepì Al faro . Il primo ricordo di Virginia era il grembo della madre: il graffio della collana sulla sua guancia premuta contro il vestito. Poi la rivedeva con la sua vestaglia bianca sul balcone. Aveva ancora nell’orecchio la sua voce: decisa, rapida; in particolare risentiva i toni bassi con cui finivano le sue risate. 
La madre era molto svelta, diretta, pratica e divertente. A volte era pungente: odiava l’affettazione. Era severa: aveva alle spalle una conoscenza che la rendeva triste; e si calava nel proprio dolore quando era sola. La figlia viveva immersa nella sua atmosfera: tanto che non riusciva a staccarsi da lei mai abbastanza da vederla come una persona. La madre era tutto: Talland House era piena di lei; la casa di Hyde Park era piena di lei. Se pensava a lei, la vedeva sempre in una stanza piena di gente, mentre chiacchierava e rideva. La vedeva seduta al suo tavolino di lavoro che scriveva. «Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio correre il pensiero; ma sempre lei in compagnia; lei in mezzo agli altri; lei generalizzata, diffusa, onnipresente; lei come la creatrice di quell’affollato, allegro mondo che gioiosamente ruota proprio al centro della mia infanzia». 
Il 9 maggio 1895, quando Virginia Woolf aveva quattordici anni, la madre morì. Quella mattina, verso le sei, Virginia si affacciò alla finestra della propria stanza e vide il dottore allontanarsi, con la testa china, le mani serrate dietro la schiena. Era un meraviglioso e immobile mattino celeste di primavera. Vide i piccioni in volo posarsi. Provò una sensazione di calma, di tristezza, di finalità. Diede l’ultimo bacio alla madre. Il suo volto appariva inconsolabilmente distante, scavato e severo. Quando la baciò, le parve di baciare del ferro giallo. Con la morte della madre, l’allegra e variegata esistenza famigliare, che lei aveva creato e mantenuto in vita, si chiuse per sempre. Al suo posto, si posò sopra la famiglia una nube scura: «Noi stavamo come accucciati vicino, tristi, solenni, irreali, sotto una nebbia di gravi emozioni. Sembrava impossibile squarciarla. Non solo era pesante; era irreale. Come se un dito si fosse posato sulle nostre labbra». 
Col passare degli anni, la figura di Virginia si distinse dallo sfondo famigliare e sociale. Non era mai passiva: ma inquisitiva, irrequieta, effervescente, tenace nel contraddire e nell’interrogare; e decifrava minuziosamente le singole parole e frasi del mondo. Presto, insieme alla sorella, Vanessa, formò un nucleo privato: una congiura molto intima. In quel mondo pieno di uomini, padre, fratelli e parenti, esse si costruirono un piccolo mondo. Strinsero un’alleanza così stretta tra loro, che ogni cosa era guardata dallo stesso punto di vista e prendeva forma dallo stesso punto di sorveglianza. Ogni giorno, verso le quattro e mezza del pomeriggio, cominciava la conversazione. Virginia e Vanessa dovevano essere pronte con le chiacchiere: pronte a un faticosissimo pettegolezzo. Il tutto veniva racchiuso nelle buone maniere vittoriane, che non venivano naturali né a Vanessa né a lei. Impararono così bene le regole di quel gioco vittoriano, che non lo dimenticarono più: esso aveva una sua bellezza perché era fondato su qualità civilissime, come il controllo, la simpatia umana, l’abnegazione. 
La Woolf sosteneva che sia la sua conversazione di donna matura, sia le sue lettere, sia i suoi articoli critici ricordavano da vicino quell’antica musica vittoriana. In realtà si faceva torto. La Woolf non fu mai vittoriana, né nella conversazione, né nelle lettere, né nella critica. Quando andava ai tè, ai party e alle cene, trovava la vita «prodigiosamente interessante»: imparò a parlare, talvolta a parlare troppo, annegando nelle parole; cercava che il sangue le spumeggiasse nelle vene come champagne. 
La sua vera conversazione, o almeno quella che ci è rimasta, sono le lettere, che scriveva con inimmaginabile felicità. «Sono una chiacchierona vera e propria», diceva. «Schiamazzo come un cacatoa rosa e giallo». Quale verbosità febbrile: quale dedizione ai colori e alle superfici del mondo, e a tutte le persone incontrate, alle quali non poteva mai negare un abbraccio fuggitivo. Desiderava la vita: voleva abbracciarla; ingoiava e assimilava tutte le cose viste o appena intraviste. Corteggiava il mondo e voleva essere corteggiata. Viveva, e vedeva, attraverso gli altri. Così le sue lettere brillano, scintillano, civettano, figlie dell’eccitazione e del capriccio. La sua scrittura svegliava le sue parole-colombe, le gettava fuori dalla colombaia, le alzava a stormi nell’aria, inventava piccole feste, decorazioni floreali, accendendo razzi colorati nel cielo della fantasia. 
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