mercoledì 14 gennaio 2015

Si complicano i rapporti tra Israele e la Turchia...

Pro Armenia
Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti, trad. Rosanella Volponi, Giuntina

Risvolto
Ho letto questo libro d’un fiato, imparando molte cose, commovendomi, partecipando, confrontando idee e sensazioni. Ho amato i personaggi che mi sfilavano davanti, seguito il procedere dei loro passi e dei loro pensieri, delle loro angoscianti esperienze, della loro risoluta volontà di testimoniare. Ma questo non è un romanzo: è una storia di armeni e di ebrei. Sono qui raccolte le parole, le descrizioni, le impressioni, il grido di dolore di alcuni degli ebrei che hanno seguito in prima persona il procedere del genocidio armeno, e hanno vissuto da vicino quei mesi e quegli anni terribili, spesso in posizioni privilegiate di osservazione.
Antonia Arslan
Quattro testimonianze sul genocidio armeno che ne ricostruiscono la storia, ne chiariscono le peculiarità e ne descrivono gli orrori denunciando le responsabilità con il coraggio di chi non rimane in silenzio davanti all’umanità calpestata e l’indignazione di chi vede il mondo restare inerme se non indifferente davanti al crimine.

Antonia Arslan Avvenire 14 gennaio 2015

Wegner, il Lawrence degli armeni
Corriere 14.1.15
«Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?»
Era disperato Armin Wegner, quel 29 marzo 1916 in cui scrisse alla madre da Bagdad quella lettera in cui raccontava l’orrore per il genocidio armeno. Il mondo intero gli era caduto addosso. Solo pochi mesi prima, il 2 novembre, «sotto il caldo sole d’autunno» a Istanbul, aveva travolto i genitori con l’incontenibile entusiasmo per l’avventura che sognava di vivere come infermiere tra le truppe germaniche alleate dei turchi contro l’Impero russo. Una eccitazione dannunziana: «Dormirò con i soldati turchi e mi ciberò di rifiuti come un ratto (…). Ho il remo della mia vita in mano».
Era un giovanotto sulla trentina, Armin. Bello, rampollo di una famiglia di rigide tradizioni prussiane, amato dalle donne, fascinoso con quella divisa della Croce Rossa tedesca e la kefiah bianca che gli dava un’aria esotica alla Lawrence d’Arabia. Quella feroce pulizia etnica, compiuta sotto i suoi occhi, lo sconvolse. E lo spinse a diventare, con le sue lettere, le sue denunce, le sue foto sconvolgenti di deportazioni, marce nel deserto, scheletri di bimbi fatti morire di fame sotto le mura di Aleppo, foto proibite «pena la morte», il principale testimone del genocidio.
Rientrato in patria, nel gennaio 1919 pubblicò La via senza ritorno e tentò di scuotere lo stesso presidente Usa Woodrow Wilson scrivendogli sul «Berliner Tageblatt» una possente lettera aperta dove, facendosi intendere pure dai compatrioti tedeschi distratti verso i massacri commessi dall’alleato turco, invocava una patria per quei cristiani sradicati dall’Anatolia «perché a nessun popolo della terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli Armeni»: «I villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca. Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere…». Il tutto senza che l’Europa cristiana, a partire dalla «sua» Germania avesse un sussulto: «Signor presidente, salvi Lei l’onore dell’Europa!»
Era un uomo libero. Così libero, come scrive Anna Maria Samuelli nel libro Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 1996), che visitando Mosca nel 1927 finì per mettersi contro sia i comunisti, che secondo lui avevano tradito ogni ideale socialista, sia i nazisti, che lo marchiarono come un «intellettuale bolscevico, traditore dei valori nazionali tedeschi».
Libero e tedesco, tedesco e libero. Lo dimostrano una struggente mostra fotografica appena aperta alla Biblioteca Marciana di Venezia, i riconoscimenti ricevuti come «Giusto» da armeni ed ebrei, il libro che uscirà verso la fine di aprile da Mondadori scritto da Gabriele Nissim, lo scrittore presidente di «Gariwo, la foresta dei Giusti», che ricerca in tutto il mondo i Giusti di tutti i genocidi.
Aveva fegato, Armin Wegner. Al punto che, dopo la serrata antiebraica del 1933, osò scrivere una lettera a Hitler, recapitata alla Casa Bruna di Monaco (la ricevuta fu firmata da Martin Bormann) supplicandolo di proteggere la minoranza ebraica: «Se la Germania è diventata grande nel mondo, a ciò hanno contribuito anche gli ebrei». E giù un elenco, che iniziava con Albert Einstein e proseguiva con altri grandi ebrei tedeschi, imprenditori e intellettuali e olimpionici e giuristi e ricordava i dodicimila ebrei morti in guerra: come poteva la Germania «togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e un focolare?»
Montò il sangue alla testa, ai nazisti, nel leggere quella lettera che pareva irridere al Führer («Lei è mal consigliato!») e già prevedeva tutto: «Con la tenacità che ha permesso a questo popolo di diventare antico, gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo — ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?»
Conclusione: «Non come amico degli ebrei, ma come amico dei tedeschi, come rampollo di una famiglia prussiana in questi giorni, quando tutti rimangono muti, io non voglio tacere più a lungo di fronte ai pericoli che incombono sulla Germania». Fino all’appello disperato: «Protegga la Germania proteggendo gli ebrei!».
Fu sbattuto in galera, Armin Wegner, per quella lettera straordinaria. Pestato. Frustato a sangue. Torturato. Trasferito in un lager e poi un altro e un altro ancora. Costretto infine ad andarsene in esilio. Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine a Positano, Stromboli e Roma dove sarebbe morto quasi sconosciuto nel 1978: «La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!».
Non tornò più a vivere nella patria che l’aveva tradito, Wegner. Mai più. Neppure dopo il 1965 quando, nel cinquantenario del genocidio armeno, la nuova Germania di Ludwig Erhard e Willy Brandt lo riscoprì e gli tributò una serie di onorificenze. Meno importanti, per lui, di quelle ricevute dagli armeni e dagli ebrei, che riconoscono in lui l’esempio di un uomo che salvò un pezzetto dell’onore tedesco.

Una tragica polifonia
Storia. «Pro Armenia - Voci ebraiche del genocidio armeno», edito da Giuntina, a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti: il libro verrà presentato oggi, alle ore 18, presso la libreria Koob di RomaLia Tagliacozzo il Manifesto 10.6.2015,
Ci sono almeno due modi di leg­gere Pro Arme­nia – Voci ebrai­che del geno­ci­dio armeno edito da Giun­tina (pp. 130, euro 12): il primo riguarda la valu­ta­zione dei testi che vi com­pa­iono in quanto fonti sto­ri­che: si tratta infatti degli scritti di tre diplo­ma­tici testi­moni diretti del Metz Yeghérn, il «grande male», l’espressione armena per il geno­ci­dio per­pe­trato dai Gio­vani Tur­chi a cavallo dell’inizio della Prima guerra mon­diale e del quale si è com­me­mo­rato in que­sti mesi il cen­te­na­rio. A loro va aggiunto un giu­ri­sta che con­tri­buì a coniare la defi­ni­zione del reato di genocidio.
Vi è però un altro cri­nale, che mette in gioco cate­go­rie inter­pre­ta­tive diverse e che è dato dal cri­te­rio con cui nasce il volume curato da Ful­vio Cor­tese e Fran­ce­sco Berti: gli autori infatti sono tutti ebrei, un cata­logo ebraico ha la casa edi­trice, e dalla tra­di­zione ebraica pro­viene l’esergo: «Non restare inerte davanti al san­gue del tuo pros­simo», tratto dal libro biblico del Levi­tico. Era il 1915, man­ca­vano alcuni decenni allo ster­mi­nio indu­stria­liz­zato nazi­sta, eppure, diversi per for­ma­zione, iden­tità, cul­tura, nazio­na­lità e pro­ve­nienza alcuni ebrei assi­stono alla strage e ne com­pren­dono lo scon­cio.
Le pagine di Pro Arme­nia ripor­tano un incon­sueto miscu­glio di lin­guag­gio diplo­ma­tico e repor­tage let­te­ra­rio, di sag­gio sto­rico e testi­mo­nianza: ele­menti del volume che si offrono alla rifles­sione sugli ambi­gui e dif­fi­cili con­fini tra sto­ria e memo­ria che carat­te­riz­zano larga parte della discus­sione sulle fonti della rico­stru­zione sto­rio­gra­fica in età contemporanea.


Nar­ra­zioni da bri­vido
Lewis Ein­stein ini­ziò la sua car­riera pro­prio presso l’ambasciata sta­tu­ni­tense a Istan­bul nel 1903 e vi rimase durante la Rivo­lu­zione dei Gio­vani Tur­chi, del geno­ci­dio armeno descrisse pro­dromi, con­te­sto poli­tico inter­na­zio­nale e testi­mo­nianze: «L’umorismo maca­bro della sol­le­ci­tu­dine paterna che di solito maschera i più bru­tali mas­sa­cri in Tur­chia — scrive nel 1917 con la prima guerra mon­diale ancora in corso — fu abban­do­nato per una poli­tica armata di depor­ta­zione, e per la sua impli­cita con­se­guenza: lo ster­mi­nio» (…) e pro­se­gue alcune pagine più avanti: «La ter­ri­bile tra­ge­dia si estende in tutta la sua fero­cia sull’intera Asia Minore. I suoi det­ta­gli sono infi­niti, per­ché dove cen­ti­naia di migliaia peri­rono, per quanti molti moris­sero nel silen­zio, i rac­conti degli altri con­ti­nua­rono a librarsi come fantasmi».
André Man­del­stam è invece amba­scia­tore russo a Costan­ti­no­poli. Fugge dalla Rus­sia verso Parigi nel 1917 dove si dedica al diritto inter­na­zio­nale: si occupa soprat­tutto di diritti delle mino­ranze e fu fau­tore di una dichia­ra­zione «sui diritti inter­na­zio­nali dell’uomo» che pro­muove a New York nel 1929 senza suc­cesso. Il suo rac­conto fa venire i bri­vidi : «Voi non capite cosa ci pro­po­niamo — riporta Man­del­stam nel 1918 — disse il pre­si­dente di un comi­tato per la depor­ta­zione a un tede­sco — Noi vogliamo can­cel­lare la per­fino il nome degli armeni, pro­prio come la Ger­ma­nia vuole lasciare in vita solo i tede­schi, noi vogliamo lasciare solo turchi».
È una testi­mo­nianza ter­ri­bile, pre­cisa, nel lin­guag­gio e nelle indi­ca­zioni dei luo­ghi e dei modi del mas­sa­cro, il testo pre­sen­tato al Mini­stero della guerra a Lon­dra il 16 novem­bre 1916 da Aaron Aaron­shon, sio­ni­sta, agro­nomo impor­tante e uomo che in Pale­stina lavorò al ser­vi­zio dei bri­tan­nici con­tro l’impero otto­mano: «I mas­sa­cri armeni – con­clude Aaron­shon il suo repor­tage — sono frutto dell’azione pra­ti­cata con cura dai tur­chi e i tede­schi cer­ta­mente dovranno per sem­pre con­di­vi­dere con loro l’infamia di que­sta azione».
Il loro rac­conto è tanto più signi­fi­ca­tivo per­ché allora furono tra le poche voci che cer­ca­rono di atti­rare l’attenzione su quanto stava acca­dendo: non ci riu­sci­rono. Non è invece un testi­mone diretto Raphael Lem­kin, giu­ri­sta di fama inter­na­zio­nale, polacco, che rie­sce a rag­giun­gere gli Usa nel 1941, primo autore della defi­ni­zione giu­ri­dica di «geno­ci­dio» accolta oggi dalla «Con­ven­zione sulla pre­ven­zione e puni­zione del cri­mine di geno­ci­dio» appro­vata dalle Nazioni Unite il 5 dicem­bre 1948.
Sul primo fronte, quello della sto­ria e della ricerca, «si tratta di quat­tro voci diverse, di quat­tro distinti punti di vista sul ’grande’ geno­ci­dio armeno – scri­vono Ful­vio Cor­tese e Fran­ce­sco Berti nella Post­fa­zione — sui suoi pre­sup­po­sti e moti­va­zioni; sulla con­ti­nuità sto­rica con altri epi­sodi simili; sulle ter­ri­bili moda­lità ope­ra­tive, sul deli­cato rap­porto che a pro­po­sito è inter­corso tra le isti­tu­zioni otto­mane e le diplo­ma­zie euro­pee; sulla que­stione della respon­sa­bi­lità poli­tica cui impu­tare la com­mis­sione di que­ste atro­cità, sia il ten­ta­tivo di nascon­derle al dibat­tito inter­na­zio­nale come al cuore e alla memo­ria di ogni uomo».


Cupi river­beri
Sul signi­fi­cato da attri­buire invece alla comune ebrai­cità degli autori sono le pagine della Pre­fa­zione della scrit­trice Anto­nia Arslan: «Que­sto non è un romanzo: è una sto­ria di armeni e di ebrei. Qui sono rac­colte le parole, le descri­zioni, le impres­sioni, il grido di dolore di alcuni degli ebrei che hanno seguito in prima per­sona il pro­ce­dere del geno­ci­dio armeno».
Vi tor­nano anche Cor­tese e Berti: «Tutti gli autori sono ebrei. E la cir­co­stanza non può che far riflet­tere, visto che il loro corale lamento Pro Ame­nia può essere tra­guar­dato anche come tri­ste pre­sa­gio di chi, essendo sem­pre stato per­se­gui­tato, intra­vede in quel caso un ango­sciante salto di qua­lità, un pre­ce­dente vio­len­tis­simo capace, da quel momento in poi, di abbat­tersi anche su altri popoli, in pri­mis, quello ebraico».
Pro Arme­nia. Voci ebrai­che sul geno­ci­dio armeno è un libro sin­go­lare, in cui si incon­trano voci e sen­ti­menti, ragioni e cul­ture, di chi ha evi­dente memo­ria di per­se­cu­zioni col­let­tive e si misura con il geno­ci­dio di altri, sco­prendo che gli è impos­si­bile rima­nerne indif­fe­rente. A «Izmit (…) — scrive Ein­stein — il vescovo rive­stito dei suoi più bei para­menti sacer­do­tali, guidò il suo gregge, can­tando l’inno che si dicesse can­tas­sero i figli d’Israele quando fug­gi­rono dall’Egitto». E aggiunge: «E così par­ti­rono, quasi sem­pre verso la morte». Man­ca­vano ancora oltre venti anni alla Shoah, cento a oggi

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