“Syriza, la sinistra che serve . Ora un nuovo partito” intervista di Salvatore Cannavò il Fatto 27.1.15
di Alessandro Oppes Repubblica 27.1.15
MADRID . «Non c’è stata l’apocalisse che minacciavano, il sole è tornato a sorgere in Grecia». Camicia rossa e maniche rimboccate, il leader di Podemos Pablo Iglesias si presenta in una sala affollata da centinaia di giornalisti per celebrare il trionfo di Alexis Tsipras.
Iglesias, che cosa cambia a partire da ora?
«La vittoria di Syriza decreta ufficialmente il fallimento delle politiche di austerità, che no solo hanno provocato enormi sofferenze ai greci, ma si sono rivelate anche completamente inefficaci. I tre grandi problemi che affliggevano il Paese erano il debito, la disoccupazione e la disuguaglianza: non solo sono rimasti intatti, ma si sono aggravati. Finalmente la Grecia ha un presidente greco e non un delegato di Angela Merkel».
Sì, però ora arriva il momento di passare dalle parole ai fatti. Dovrà agire in un contesto europeo difficile, in parte ostile. «Tsipras è un patriota che naturalmente rispetterà gli obblighi internazionali della Grecia, ma facendo ciò che un democratico deve fare: mettere al primo posto l’interesse del suo paese e del suo popolo. E’ una buona notizia per il Sud-Europa che si faccia strada un nuovo europeismo, che dimostrerà che la sovranità deve essere nazionale e popolare, non può stare nelle mani di Davos o della Bundesbank o della troika».
Cominciano, però, le pressioni di chi dice che la Grecia non può esimersi dal rispettare gli impegni.
«Per poter pagare i debiti occorre riprendere il cammino della crescita, generare prosperità. Le politiche realizzare fino ad ora hanno solo contribuito a incrementare il debito, che in questi anni ha raggiunto in Grecia il 175 per cento del Pil. Ciò che propone Syriza è il discorso più coerente per il rilancio dell’economia. A quel punto potrà rispettare gli impegni».
In che modo un eventuale fallimento potrà avere conseguenze sulla scommessa spagnola di Podemos?
«Noi appoggiamo Syriza, siamo felici per la sua vittoria, ma non si possono fare parallelismi. La situazione della Spagna è molto diversa. Per fortuna, qui le conseguenze della crisi non sono state altrettanto forti. In più, la nostra è la quarta economia della zona euro: la Spagna non la si può minacciare come si è fatto con la Grecia».
Dopo la vittoria di Tsipras toccherà alla Spagna di “Podemos”
Ma perché questa rivoluzione democratica possa riuscire a modificare il corso delle cose bisogna che Renzi e Hollande dicano chiaramente che il trattato sui bilanci va modificato Ora tutti uniti contro l’austerità la sinistra europea riparta da Syrizadi Thomas Piketty Repubblica 27.1.15
IL TRIONFO elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale.
Concretamente, queste forze politiche dovrebbero approfittare dell’occasione per dire con voce alta e forte che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento, e per mettere sul tavolo nuove proposte, tali da consentire una vera rifondazione democratica della zona euro. Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove.
Per essere chiari: a partire dal momento in cui si condivide una stessa moneta, è più che giustificato che la scelta del livello di deficit, così come gli orientamenti generali della politica economica e sociale, siano coordinati. Semplicemente, queste scelte comuni devono essere fatte in modo democratico, alla luce del sole, al termine di un dibattito pubblico e con contraddittorio. E non applicando regole meccaniche e sanzioni automatiche, che dal 2011-2012 hanno prodotto una riduzione eccessivamente rapida dei deficit e una recessione generalizzata della zona euro. Risultato: la disoccupazione è esplosa mentre altrove scendeva (sia negli Stati Uniti che nei Paesi esterni all’area dell’euro), e i debiti pubblici sono aumentati, in contraddizione con l’obbiettivo proclamato. La scelta del livello di deficit e del livello di investimenti pubblici è una decisione politica, che deve potersi adattare rapidamente alla situazione economica. Dovrebbe essere fatto democraticamente, nel quadro di un Parlamento dell’Eurozona in cui ogni Parlamento nazionale sarebbe rappresentato in proporzione alla popolazione del rispettivo Paese, né più né meno. Con un sistema del genere, avremmo avuto meno austerità, più crescita e meno disoccupazione. Questa nuova governance democratica consentirebbe anche di riprendere in mano la proposta di mettere in comune i debiti pubblici superiori al 60 per cento del Pil (per condividere lo stesso tasso di interesse e per prevenire le crisi future) e istituire un’imposta sulle società unica per tutta la zona euro (il solo modo per mettere fine al dumping fiscale).
Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso.
Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto.
E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale. (Traduzione Fabio Galimberti)
Avanti populismi Podemos parla spagnolo e sogna in greco
I movimenti di Iglesias e Syriza hanno lo stesso programma, ma a Madrid il salvataggio è stato più softdi Luca Veronese Il Sole 28.1.15
Partiti anti-sistema o anti-euro. Stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa assieme alla crisi economica. Il trionfo di Syriza è coerente con quanto si è visto alle europee di maggio e potrebbe avere ripercussioni in altri Paesi, a cominciare dalla Spagna, prima puntata di un’inchiesta che si occuperà anche di Gran Bretagna e Francia.
Il Regno Unito andrà alle urne in maggio e l’ascesa di Ukip, il partito anti-europeista di Nigel Farage, rischia di trasformare il voto in un referendum anticipato sulla permanenza o meno di Londra nell’Unione europea.
La Francia non ha scadenze elettorali più importanti, ma è il Paese nel quale un partito della destra radicale e anti-euro, il Front National di Marine Le Pen, è stabilmente in testa nei sondaggi dalla scorsa primavera.
Davvero può accadere? Davvero Podemos può riuscire a conquistare il governo in Spagna? Il movimento che ha raccolto la rabbia degli indignados sparsa nelle piazze spagnole può davvero replicare il trionfo di Syriza in Grecia? I sondaggi di oggi dicono che i numeri ci sono, che Podemos, dopo aver conquistato a sorpresa l’8% alle elezioni europee, è diventato la prima forza del Paese con oltre il 28% delle intenzioni di voto. Conservatori e socialisti seguono staccati, con poco più del 20 per cento: dopo trent’anni di alternanza alla Moncloa, rischiano di essere travolti dalla protesta anti-casta, dalla voglia di rinnovamento, dalle rivendicazioni democratiche di cittadini stremati dalla crisi economica e frustrati dalle conseguenti, odiatissime misure di austerity introdotte dal governo del popolare Mariano Rajoy e ancora prima da quello di José Lusi Zapatero.
«Più persone e meno banche, la rivoluzione è già iniziata. La vittoria di Syriza in Grecia - dice Pablo Igleias, 36 anni, leader di Podemos - è un messaggio molto chiaro per il governo di Rajoy : tic-tac, tic-tac, è iniziato il conto alla rovescia, presto conquisteremo il governo».
A fine marzo si voterà in Andalusia, la più grande regione del Sud, da sempre guidata da giunte di sinistra: lì si giocherà il futuro dei socialisti di Pedro Sanchez, il nuovo segretario, 42 anni, una sorta di Renzi di Spagna, meno gigione ma non meno deciso nel mandare a casa la vecchia guardia del suo partito, o di quello che del Psoe era rimasto.
Il 27 settembre le urne si apriranno in Catalogna per una consultazione che avrà tutto il sapore e il senso politico di un nuovo referendum per l’indipendenza della comunità autonoma più ricca del Paese. Sarà uno scontro - anche personale, quasi fisico, probabilmente decisivo - tra il governatore catalano, Artur Mas e il premier Rajoy. E lì si decideranno in un solo colpo le sorti della Catalogna e il futuro stesso dei popolari, almeno come partito di governo.
Le amministrative di due regioni chiave come Andalusia e Catalogna, daranno molte indicazioni nella lunga campagna elettorale che porterà alle elezioni di novembre per rinnovare il Parlamento nazionale. La Spagna che a metà del 2012 si è salvata dal default grazie soprattutto alla stabilità del proprio sistema di governo, oltre che al prestito di 41 miliardi dell’Unione europea, deve ora affrontare una nuova, se possibile, più turbolenta stagione politica.
Per popolari e socialisti l’avversario da battere è Podemos. E questa già è una mezza vittoria per gli indignati. «Le false promesse non possono risolvere i problemi del Paese, finiscono per generare nuove tensioni sociali», spiega Rajoy parlando di Syriza perché Podemos intenda. «Siamo noi la vera alternativa a Rajoy. Cambiare tanto per cambiare è spesso dannoso», ripete il socilista Sanchez marcando le differenza tra la Grecia e la Spagna.
Nel governo di Madrid, dopo anni difficilissimi, cresce la sensazione che sarà qualcun altro a godere dei benefici del «lavoro sporco che qualcuno però doveva fare», come dice un influente advisor del governo. «È strano constatare - dice lo stesso consigliere, vicino a Rajoy - come questi movimenti di protesta contro i partiti tradizionali e contro il nostro governo che trovano la loro origine nelle difficoltà che la gente ha dovuto affrontare nella lunga crisi economica e si nutrono di promesse e populismo, stiano montando porpio ora che i fatti ci danno ragione, ora che la ripresa nel Paese si sta rafforzando più che in ogni altra economia europea».
Rajoy e i suoi hanno introdotto riforme profonde come quella del mercato del lavoro, hanno dovuto ristrutturare il sistema bancario, risanare il bilancio pubblico. Ora, in questo anno elettorale si aggrappano ai dati economici, alla ripresa che è finalmente arrivata e si fa sentire anche nell’occupazione, nella vita delle famiglie. Dopo essere cresciuta dell’1,7% nel 2014 la Spagna potrebbe andare anche meglio nel 2015. «Per quest’anno abbiamo previsto un aumento del Pil del 2% ma se petrolio e cambi rimangono a questi livelli, avremo una crescita aggiuntiva di 0,5 punti. È una stima prudente, potremmo arrivare al 2,5 per cento», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia, Luis de Guindos. Per il lavoro il 2014 è stato di certo l’anno della svolta: si è chiuso con quasi mezzo milione di disoccupati in meno e un tasso di disoccupazione del 23,7%, ancora altissimo ma oltre due punti percentuali più basso rispetto ai picchi della crisi. Perfino dal settore immobiliare, che con lo scoppio della bolla speculativa è stato una delle principali cause del travaglio spagnolo, arrivano segnali incoraggianti: riprendono i lavori, gli investimenti e si torna a cercare manodopera: 40mila i nuovi addetti nel 2014 dopo sette anni di tagli agli organici.
La Spagna non è la Grecia - sono tutti d’accordo su questo, popolari, socialisti e anche Podemos - ma sono ancora quasi cinque milioni e mezzo gli spagnoli senza lavoro. La ripresa c’è ma le conseguenze della recessione sono ancora più forti, più evidenti. I socialisti potrebbero essere già stati superati nel processo di rinnovamento. Mentre i popolari di Rajoy - sempre fedeli alla linea dettata da Bruxelles su indicazione di Angela Merkel - temono di essere puniti in nome dell’Europa, la loro migliore alleata negli ultimi anni, dalla quale avevano accettato anche un salvataggio soft, una presenza continua ma discreta della troika. Quell’Europa «delle banche e senza democrazia» - secondo la definizione di Iglesias - che molti spagnoli, come molti greci, vogliono cambiare. E giorno dopo giorno Podemos sta alimentando la speranza che «sì, si può fare». Resta da stabilire come.
Bodo Ramelow della Linke “Cambiamo l’Ue senza cedere al populismo”
intervista di Andrea Tarquini Repubblica 27.1.15
BERLINO «Il voto greco mostra che nella Ue è anche possibile un’inversione di tendenza rispetto allo svuotamento della democrazia da parte dei poteri finanziari e delle politiche d’austerità». Lo dice Bodo Ramelow, astro nascente della Linke, che in Turingia è il primo governatore postcomunista della Germania unita.
A caldo cosa dice del voto greco?
«Sono felicissimo del successo di Syriza: è l’inizio di un processo che porta a formulare posizioni chiare dal punto di vista del popolo, della gente, del Paese reale».
Ma adesso quali spazi di negoziato ha Tsipras, è possibile un compromesso con la Troika o no?
«Io sono prima di tutto ottimista perché in Grecia vince una politica orientata prima di tutto secondo le necessità primarie della gente greca. Dobbiamo pensare a un’altra architettura dei piani di risanamento. Finora abbiamo risanato solo le grandi banche europee, ora persino la Bce pompa liquidità per le banche, non in Grecia: è un errore capitale, salvare i titoli sovrani e le banche senza programmi di calo del debito».
Berlino sembra reagire duramente, che significa?
«Le minacce tedesche non hanno impedito a Syriza di vincere le elezioni. Spero che Tsipras presenti al più presto posizioni negoziali chiare. Impegnandosi certo anche a scovare i ricchi evasori ellenici».
Possibile, senza benevolenza di Berlino e Bruxelles?
«Ha vinto le elezioni, formulerà le sue posizioni negoziali, e devono smetterla di sparargli cannonate mentre tacciono sull’autocrate Orbàn».
La vittoria di Tsipras è una svolta per l’Europa?
«Stanno per votare in Spagna, Podemos ha grandi speranze. Questi movimenti liberal di sinistra non settari hanno adesso una nuova chance: non neutralizzare la voglia di cambiamento come invece ha fatto Grillo. I nuovi movimenti devono vincere sottolineando differenze costitutive dalla destra populista: Tsipras si batte per tutti, migranti compresi, Marine Le Pen e Salvini vogliono spaccare le società. Tsipras dà coraggio dicendo che nessun giovane può essere disoccupato e nessun bimbo può avere fame. Gli Stati nazionali devono rafforzarsi a fronte di politiche asociali, l’Europa deve fornire solo i minimi standard comuni».
di Marcello Sorgi La Stampa 28.1.15
C’è una contraddizione apparente tra la decisione di Berlusconi di votare a favore della legge elettorale approvata ieri in Senato, che può mettere in difficoltà il centrodestra, e quella di marcare la propria assenza, nelle stesse ore, alle consultazioni sul Quirinale che hanno tenuto il premier impegnato per l’intera giornata nella sede del Pd con le delegazioni di tutti i partiti, tranne il Movimento 5 stelle.
Ma appunto, si tratta solo di apparenza. Berlusconi s’è irritato quando ha capito che Renzi, con le consultazioni, intendeva diluire l’importanza del patto del Nazareno alla vigilia delle votazioni per eleggere il successore di Napolitano. Se al Nazareno ci vanno tutti, avrà pensato l’ex Cavaliere, che fino a due giorni fa deteneva l’esclusiva del «soccorso azzurro» al governo, la mia presenza di fronte all’amico Matteo non è più essenziale. Di qui la richiesta di un chiarimento, che potrebbe avvenire già oggi o domani, o nel peggiore dei casi non esserci e sancire la rottura.
Va detto subito che a quest’ultima possibilità al momento non crede nessuno. A differenza delle consultazioni di ieri, convocate a uso esclusivo delle telecamere, il patto tra il premier e l’ex premier, stipulato un anno fa, s’è dimostrato solido e ha influito sulla realtà, funzionando come un orologio e condizionando concretamente la politica italiana. L’appoggio di Forza Italia al governo non si è manifestato solo in occasioni strategiche, come il Jobs Act e la legge elettorale, in cui la minoranza interna del Pd era in grado di mettere Renzi in serie difficoltà. Ma anche nel giorno per giorno di un percorso istituzionale in cui il governo, in metà del Parlamento, non avrebbe avuto i numeri per governare se Berlusconi non glieli avesse garantiti, ora ordinando ai suoi senatori di votare a favore, ora di uscire dall’aula del Senato per facilitare l’approvazione dei provvedimenti con i numeri ballerini di cui il premier dispone, suo malgrado. Inoltre Berlusconi, non avvezzo, come si sa, a convivere con il dissenso, tanto da aver sopportato in passato varie scissioni, pur di non consentire un normale funzionamento democratico del suo partito, stavolta ha dovuto pagare il prezzo di un’opposizione interna ostinata e crescente, da parte di chi all’interno di Forza Italia lo accusa di essersi consegnato mani e piedi a Renzi.
Qui però l’apparenza finisce e comincia la sostanza. In cambio di cosa, infatti, l’ex Cavaliere si sarebbe convinto a una svolta così onerosa, se non in base a un tornaconto o per ricavarne un vantaggio? Ecco perché tutte le volte – e finora sono state sei – che Berlusconi ha varcato il portone di Palazzo Chigi, dopo l’incontro del 19 gennaio 2014 che segnò l’imprevedibile avvicinamento con Renzi, s’è parlato a ragion veduta di una sua riabilitazione politica. Se il premier è costretto a rivolgersi a un condannato per frode fiscale, che sta scontando la sua pena ai servizi sociali, ed è sottoposto a forti limitazioni della sua libertà personale, oltre ad aver patito la decadenza da senatore e la quasi completa esclusione dalla vita pubblica, vuol dire che riconosce di non poterne fare a meno, ma anche, implicitamente, che quel che Berlusconi ha subito è un problema da risolvere.
È ciò che l’ex Cavaliere ha pensato e la minoranza Pd non ha perso occasione di rimproverare al proprio leader. Il quale, prima ha fatto spallucce, sottolineando la forza dei risultati che il suo patto con il diavolo produceva. Poi, senza ammetterlo, deve aver cominciato a ragionare sull’eventualità che Berlusconi gli presentasse il conto, magari proprio in occasione del complicato passaggio del Quirinale. Un conto tra l’altro salato, che prevede una rilegittimazione nero su bianco del leader del centrodestra, stufo di essere a giorni alterni un reietto o un padre della patria, secondo se si allea con Renzi o torna a fare l’opposizione.
Ora, è da escludere che Renzi possa accontentare Berlusconi, impegnandosi, per esempio, ad abolire la legge anti-corruzione che ha segnato la sua decadenza da senatore, o addirittura convincendo il prossimo Presidente della Repubblica a nominarlo senatore a vita, come si sente di tanto in tanto dai fedelissimi dell’ex Cavaliere. Ma se non lo fa – e ci mancherebbe che lo facesse! – il patto del Nazareno si rompe. Alla fine, per non restare (o tornare) nella condizione da emarginato in cui ha vissuto per qualche mese prima della svolta renziana, e perdippiù in una scadenza delicata come quella del Quirinale, Berlusconi potrebbe decidere di votare lo stesso il candidato concordato e destinato ad essere eletto. Oppure riservargli lo stesso trattamento offerto a Napolitano al momento della prima elezione: non appoggiarlo, senza osteggiarlo. Ma è inutile nascondersi che il futuro delle riforme e del governo, dopo la rottura del patto, non sarebbe più lo stesso. E Renzi, che finora non è andato tanto per il sottile pur di realizzare i suoi obiettivi, in questo caso si accorgerebbe in ritardo di aver scherzato col fuoco.
La legge elettorale rafforza il patto con gli azzurri
Ma la vera prova dell’unità del Pd sarà ora la sfida per il Colledi Massimo Franco Corriere 28.1.15
L’approvazione della legge elettorale al Senato chiude un fronte insidioso per il governo. E consente a Matteo Renzi di presentarsi all’appuntamento del Quirinale, se non rafforzato, certo con un’incognita in meno. Il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi continua a reggere. Il problema è che resiste anche la fronda del Pd, perché ieri 24 senatori hanno votato «no» all’Italicum; e si proietta sull’elezione del capo dello Stato, offrendo al leader di FI un supplemento di potere negoziale. Renzi insiste: bisogna chiudere entro sabato. Dunque, con Berlusconi.
Palazzo Chigi lascia capire che in caso contrario potrebbe saltare la legislatura. È un monito trasversale, ma forse anche un indizio di nervosismo. La determinazione a eleggere il capo dello Stato entro il 1° febbraio sa di esorcismo contro la prospettiva di andare oltre. Renzi è consapevole che in quel caso si incrinerebbe il patto del Nazareno con Berlusconi, aprendo nuovi scenari: per questo vuole far presto. Sulla carta, i numeri ci sono. E l’abbandono del Movimento 5 Stelle da parte di 9 deputati rimpolpa le truppe di riserva della maggioranza. Eppure, il sospetto che la scelta del presidente della Repubblica possa seguire un canovaccio imprevedibile rimane corposo.
Il premier doveva vedere Berlusconi ieri insieme con la delegazione di FI. Il colloquio ci sarà solo oggi, perché deve essere in grado di offrire il nome da votare insieme, imprigionato invece nella trama dei veti incrociati su gran parte delle candidature. Il mistero viene spiegato con l’esigenza di proteggerlo. Ma oppositori come il leader leghista Matteo Salvini sostengono che Renzi tiene le carte coperte perché non ha ancora in mano la soluzione. FI e Ncd pongono condizioni: vogliono che sia un politico, non un «tecnico». In più, serpeggia un filo di irritazione per la decisione del premier di consultare gli altri partiti nella sede del Pd.
L’iniziativa è stata interpretata con malizia dagli avversari: come se Renzi ritenesse che la designazione del capo dello Stato spetta in primo luogo a lui. Ironie a parte, la procedura rischia di mettere la data-ultimatum del 1° febbraio nel mirino di chi vuole far saltare il patto del Nazareno. Per il capo del governo, quel giorno dovrebbe rappresentare l’apoteosi della sua leadership e della capacità di saldare al massimo livello l’asse con FI. Di fatto, si cancellerebbe l’immagine di un Pd diviso, lasciata in eredità dalle votazioni della primavera del 2013. Ma non sono pochi a congiurare per rovinargli la festa; almeno, per rimandarla di qualche giorno.
Ieri il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, dopo l’approvazione dell’Italicum che adesso va alla Camera, ha dichiarato soddisfatta: «Qualche mese fa sembrava impossibile». E Renzi ha sottoscritto, chiosando: «Il coraggio paga». Eppure, sa bene che la vera scommessa sulla quale si gioca il futuro del governo e quello suo personale comincia domani, col Quirinale. L’esito dipenderà dalla capacità di convincere un Parlamento frantumato e a tratti ostile; e ancora prima, di assicurarsi il «sì» della grande maggioranza di un Pd che ne è lo specchio fedele.
Massimo Franco
Si avverte il profumo di un possibile contropatto anti-Renzi La mitologia del Nazareno potrebbe avvicinarsi al suo tramonto Perché il premier rischia di perdere il mantello di invincibiledi Stefano Folli Repubblica 28.1.15
FINO a ieri la soluzione del rebus Quirinale poggiava su due scenari fra loro divergenti. Secondo il primo, il filo fra Berlusconi e Renzi era d’acciaio e portava appeso il nome del prossimo presidente della Repubblica: più o meno coperto, più o meno insospettabile, ma destinato a emergere al momento giusto spiazzando i dubbiosi dei diversi schieramenti. Lo spavaldo ottimismo del premier (scheda bianca nelle prime tre votazioni e poi alla quarta elezione sicura) accreditava questa ipotesi: un «patto del Nazareno» così solido e totalizzante da rendere irrilevanti le fratture all’interno del Pd, il partito di cui Renzi è il segretario.
Il secondo scenario racconta un’altra realtà. Il patto esiste ma reca evidenti segni di logoramento. Berlusconi non si accontenta più di essere il numero due di Renzi e dopo avergli dato l’Italicum con il premio alla lista anziché alla coalizione (senza peraltro che ieri i suoi voti siano stati determinanti) non ha voglia di regalargli anche un presidente della Repubblica scelto a Palazzo Chigi. Ne deriva che saremmo alla vigilia di uno scossone destinato a cambiare la geografia delle alleanze esplicite e soprattutto implicite. Quello che sta accadendo nelle ultime ore sembra accreditare la seconda fotografia rispetto alla prima, invecchiata all’improvviso. Renzi teme — e lo dice — un’intesa alle sue spalle fra la minoranza del Pd (D’Alema e Bersani) con Berlusconi per fare blocco sul nome di Giuliano Amato. Se fosse un timore fondato, e finora non ci sono prove che lo sia, le conseguenze non sarebbero di poco conto.
In primo luogo vorrebbe dire che l’elezione del presidente della Repubblica non passa più attraverso la regìa di Palazzo Chigi, ma percorre altre strade nei meandri della Roma politica. Eventualità possibile sulla carta, ma non indolore. Il presidente del Consiglio sarebbe posto di fronte a due scelte. O accetta l’accordo sottoscritto sulla sua testa da altri, compreso il vecchio alleato «nazareno», e subisce un danno forse irreversibile alla sua «leadership »; ovvero si mette di traverso, facendo appello alla maggioranza renziana del Pd, per far saltare l’accordo. Il che significa però prendere atto che il vecchio assetto fondato sulla convergenza con Berlusconi è finito alle ortiche. Doveva costituire l’asse della legislatura e invece non ha retto al passaggio più difficile e qualificante, la successione di Giorgio Napolitano.
Ognuna delle due ipotesi comporta più rischi che vantaggi. Nel primo caso, Renzi avrebbe perso la sua aureola di invincibile e, quel che è peggio, si troverebbe al Quirinale un capo dello Stato che non gli deve nulla. Il premier sarebbe molto indebolito e non in condizione di orientare la legislatura secondo la sua volontà.
Nel secondo caso, Renzi dovrebbe in un certo senso sfidare se stesso, oltre che la sorte avversa. Dopo aver coltivato per mesi la mitologia del Nazareno, avrebbe un drammatico bisogno di voltare pagina, cercando in fretta un «piano B». In un simile contesto il nome di Sergio Mattarella potrebbe (diciamo potrebbe) essere usato per fermare la candidatura di Amato. Naturalmente questo significa per il premier gettarsi nella mischia, diventando l’uomo che accetta fino in fondo la sfida all’interno stesso del Pd, mettendo e subendo «veti» a personalità istituzionali di primo piano. Conseguenza inevitabile: se Renzi emerge vincitore dalla battaglia, il patto con Berlusconi non esiste più e bisognerà costruire una nuova cornice per le riforme. E prima o poi anche per il governo.
Se viceversa il presidente del Consiglio dovesse perdere dopo aver combattuto, è chiaro che la sconfitta sarebbe clamorosa e potrebbe obbligarlo addirittura all’uscita di scena. Naturalmente esiste ancora la possibilità di una mediazione, ma fra poco potrebbe essere tardi. Forse lo è già. Sarebbe stato meglio per Renzi cominciare a mediare quando le acque erano più tranquille.
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