lunedì 12 gennaio 2015

Tradotto il libro postumo di Arthur Danto sull'arte


Arthur Danto: Che cos’è l’arte?, Johan & Levi, pp. 126, euro 16,00

Risvolto

In questo suo ultimo volume, uscito pochi mesi prima della sua scomparsa, il famoso critico Arthur C. Danto risponde alla fondamentale e complessa domanda “Che cos’è l’arte?”. Monografia filosofica e riflessione biografica allo stesso tempo, la raccolta di saggi che compongono il volume vuole confutare la diffusa interpretazione di arte come “concetto indefinibile” per individuarne invece le proprietà e i significati universali. Rifacendosi al pensiero filosofico di Descartes, Kant e Hegel, Danto supera il concetto estetico e conclude che l’opera d’arte è sempre definita da due elementi fondamentali, il significato e la sua rappresentazione materica, a cui si aggiunge il contributo dello spettatore, l’interpretazione. Le argomentazioni di Danto, quanto mai attuali nello scenario artistico internazionale dei giorni nostri, spaziano tra generi ed epoche – Michelangelo, Poussin, Duchamp e Warhol – in un’estesa disamina della produzione artistica: partendo dalla definizione di arte che Platone fornisce nella Repubblica, il critico si addentra nell’evoluzione artistica vista come una serie di scoperte che includono la prospettiva, il chiaroscuro e la fisiognomica, per giungere all’affascinante trattazione delle famose scatole di Andy Warhol, visivamente indistinguibili dagli oggetti quotidiani che rappresentavano.

Danto, cercasi occhio capace di distinguere corpi semantici
«Che cos'è l'arte», l'ultimo scritto teorico di Arthur Danto, tradotto da Johan & Levi. In una sorta di testamento spirituale, il filosofo americano detta le condizioni necessarie perché l’arte non resti muta

di Tiziana Andina, il Manifesto 11.1.2015 

Nel gen­naio del 2012 Arthur Danto mi inviò il mano­scritto di What Art Is, ora tra­dotto con il titolo Che cos’è l’arte? (Johan & Levi, pp. 126, euro 16,00) scri­ven­domi che sarebbe stato pub­bli­cato nell’autunno di quello stesso anno da Yale Uni­ver­sity Press, e pre­gan­domi di non farlo cir­co­lare, per­ché di certo avrebbe cam­biato qual­cosa sulla base dei sug­ge­ri­menti dell’editor e delle let­ture degli amici. In realtà, nel corso dell’ultimo anno e mezzo di vita Danto ebbe pro­blemi di salute che ne limi­ta­rono for­te­mente la pos­si­bi­lità di lavoro, e ral­len­ta­rono la pub­bli­ca­zione del libro. Seb­bene Che cos’è l’arte? non aggiunga molte novità al cor­pus teo­rico della filo­so­fia di Arthur Danto, va inteso, tut­ta­via, come una sorta di testa­mento spi­ri­tuale, e andrebbe letto insieme a un altro testo, pub­bli­cato qual­che mese più tardi, che ne è una sorta di natu­rale com­pen­dio: Intel­lec­tual Auto­bio­gra­phy of Arthur C. Danto, che costi­tui­sce l’introduzione, per mano dell’autore stesso, all’ampia rac­colta di saggi cri­tici inclusi nel volume The Phi­lo­so­phy of Arthur C. Danto (Open Court, 2013), pub­bli­cato nella col­lana The Library of Living Phi­lo­so­phers.
Letti insieme, i due testi con­sen­tono di trac­ciare il pro­filo umano e scien­ti­fico del filo­sofo ame­ri­cano, la sua visione del mondo, della filo­so­fia e dell’arte che costi­tui­scono un cor­pus unico: «Come quasi tutto ciò che ho scritto, e di sicuro il meglio di quanto ho scritto, mi è venuto fuori da qual­cosa che ho vis­suto. Que­sto è, del resto, il modo in cui ho sem­pre pen­sato che la filo­so­fia dovesse com­por­tarsi, e mi ritengo enor­me­mente for­tu­nato per avere vis­suto una vita che ha tro­vato una simile incar­na­zione filo­so­fica». Tanto nella Auto­bio­gra­fia dalla quale sono tratte que­ste parole, che in Che cosa è l’arte? Danto chia­ri­sce che si è sem­pre con­si­de­rato un filo­sofo ana­li­tico, ma è indub­bio – come ha notato Jür­gen Haber­mas – che dalla filo­so­fia con­ti­nen­tale ha tratto sia la sua voca­zione siste­ma­tica, sia la pas­sione per temi di ricerca gene­ral­mente poco esplo­rati dalla filo­so­fia ana­li­tica.
Prima di diven­tare un filo­sofo e prima ancora di for­marsi a que­sta disci­plina alla quale è giunto un po’ per caso, Danto è stato un arti­sta: l’arte è stata non solo la sua pas­sione ori­gi­na­ria, ma anche il campo nel quale ha ini­zial­mente cre­duto di costruire la pro­pria car­riera. Ed è pro­prio la crea­ti­vità dell’artista che vediamo in opera nella sua filo­so­fia, ciò che gli con­sente di vedere nessi là dove gli stu­diosi prima di lui non hanno visto alcun­ché.
Non furono né il Moder­ni­smo, né l’Espressionismo Astratto o le Avan­guar­die ad appas­sio­narlo: come mostrano i suoi lavori, rac­colti nella col­le­zione dal titolo Remai­ning Spi­rit, con­ser­vati alla Wayne State Uni­ver­sity e con­sul­ta­bili on line, Danto era un arti­sta tra­di­zio­nale, e tut­ta­via, da filo­sofo, furono pro­prio le domande poste dall’Espressionismo Astratto e dalle Avan­guar­die a indurlo a for­mu­lare le linee gene­rali per una nuova onto­lo­gia dell’arte. Le si trova riba­dite e rias­sunte in Che cos’è l’arte ?, un lavoro che ha il pre­gio di indi­vi­duare alcuni punti fermi del pen­siero di Danto, sot­traen­doli a ogni for­za­tura erme­neu­tica.
Pro­verò a illu­strarli, par­tendo dalla for­mu­la­zione del pro­blema filo­so­fico: «Que­sto pen­siero mi venne all’improvviso un giorno in cui avevo un appun­ta­mento con un gruppo di stu­denti per un semi­na­rio infor­male a Ber­ke­ley. Entrando nell’edificio, pas­sai accanto a una grande aula con degli imbian­chini al lavoro; c’erano scale, stracci, sec­chi di ver­nice e acqua ragia, pen­nelli e rulli. Pen­sai subito: e se si trat­tasse di una instal­la­zione dal titolo Imbian­care? La cop­pia di arti­sti elve­tici Fischli e Weiss rea­liz­za­rono in effetti una instal­la­zione nella vetrina di un nego­zio, al cen­tro di una città sviz­zera, forse Zurigo, fatta pro­prio di scale, bidoni di ver­nice, stracci mac­chiati di colore e simili. Chi cono­sceva gli arti­sti andò a vedere la vetrina come pro­dotto cul­tu­rale; ma che inte­resse avrebbe avuto per gli amanti dell’arte se fosse stata, invece che arte, un sem­plice lavoro di imbian­ca­tura?»
Come distin­guere le mere cose dalle opere d’arte, posto che, in alcuni casi, le opere d’arte esi­bi­scono le mede­sime pro­prietà – almeno dal punto di vista per­cet­tivo – delle mere cose?
Oppure, come distin­guere opere d’arte iden­ti­che sotto il pro­filo per­cet­tivo, ma diverse dal punto di vista arti­stico? Que­ste domande, che Danto tra­duce teo­ri­ca­mente nella que­stione dell’identità degli indi­scer­ni­bili, lo con­vin­cono a porre il pro­blema della defi­ni­zione del con­cetto di arte. Da epi­ste­mo­logo, aveva già ragio­nato sulla que­stione in un testo del 1973, Ana­ly­ti­cal Phi­lo­so­phy of Action e ancora, nel 1990, in Con­nec­tions to the World, dove a incu­rio­sirlo era stata una cop­pia di indi­scer­ni­bili indi­vi­duati da Descar­tes: la veglia e il sogno che, non a caso, ritor­nano nel capi­tolo ini­ziale di Cosa è arte.
L’idea di Danto non è sem­pli­ce­mente che ogni cosa può essere arte, bensì che qua­lora si diano deter­mi­nate con­di­zioni ogni cosa può essere arte. Alla filo­so­fia spetta il com­pito di indi­vi­duare tali con­di­zioni, muo­ven­dosi in una dire­zione che deve essere oppo­sta rispetto a quella per­corsa dai teo­rici dell’arte di scuola wit­te­gen­stei­niana, i quali ave­vano rite­nuto impos­si­bile defi­nire l’arte.
Per parte sua, come sot­to­li­nea chia­ra­mente in Che cosa è l’arte?, Danto è al tempo stesso con­vinto di avere indi­vi­duato alcune di que­ste con­di­zioni, ma che il lavoro filo­so­fico non sia con­cluso. È que­sta la ragione per la quale decide di non for­mu­lare una defi­ni­zione com­piuta, ovvero di non for­nire con­di­zioni neces­sa­rie e suf­fi­cienti. Quelle che Danto indi­vi­dua sono fon­da­men­tal­mente tre: (1) l’idea che l’opera d’arte sia un oggetto creato per signi­fi­care qual­cosa, (2) l’idea che il signi­fi­cato richiede un corpo, per­ciò le opere d’arte sono signi­fi­cati che pren­dono corpo. Infine, (3) l’idea che la buona let­tura di una opera richiede un cor­pus di cono­scenze sto­ri­che e teo­ri­che che per­met­tono di com­pren­derla a par­tire dal con­te­sto cul­tu­rale che l’ha resa pos­si­bile.
Men­tre lo svi­luppo delle prime due con­di­zioni è lavoro emi­nen­te­mente filo­so­fico – in par­ti­co­lare si trat­terà di svol­gere un con­cetto di rap­pre­sen­ta­zione che pre­veda una appli­ca­zione spe­ci­fica alle opere d’arte e una rifles­sione sulle carat­te­ri­sti­che dei medium arti­stici, ovvero dei corpi che incor­po­rano le rap­pre­sen­ta­zioni signi­fi­canti – la terza con­di­zione è quella che Danto ha pre­vi­sto per il lavoro della cri­tica d’arte. Per dare l’idea di quale sia la forza espli­ca­tiva di que­ste tre con­di­zioni, pos­siamo for­mu­lare un espri­mente men­tale che chia­me­remo la gal­le­ria delle Brillo Box.
Poniamo che una gal­le­ria d’arte alla moda esponga quat­tro Brillo Box, tutte indi­scer­ni­bili. La prima rea­liz­zata dal desi­gner ame­ri­cano James Har­vey, s’intitola sca­tola di deter­sivo. Il titolo è rea­li­stico: attra­verso la Brillo dise­gnata da Har­vey una azienda com­mer­cia­lizza il pro­prio deter­sivo. La seconda Brillo Box, indi­stin­gui­bile dalla prima, s’intitola Brillo Box, ed è un’opera di Andy Warhol.
Il gal­le­ri­sta che ha orga­niz­zato l’esposizione ama evi­den­ziare i legami tra l’arte e la filo­so­fia. Per que­sto, pro­prio accanto alle nume­rose Brillo Box di Warhol, impi­late quasi fos­sero sca­tole in un empo­rio, espone altre Brillo Box, indi­stin­gui­bili dalle prime due. Sono le Brill Box che l’artista Mike Bidlo ha inti­to­lato Not Warhol. Non solo le Brillo di Bidlo sono indi­scer­ni­bili da quelle di Har­vey e di Warhol, ma la stessa dispo­si­zione della sua opera è indi­stin­gui­bile da quella dell’opera di Warhol. Infine, da ultimo, abbiamo le Brillo Box com­mis­sio­nate da Pon­tus Hul­tén, diret­tore del Moderna Museet di Stoc­colma: 110 esem­plari, fir­mati «Andy Warhol» e inti­to­lati Brillo Box, che vediamo acca­ta­stati pro­prio accanto a quelli di Mike Bidlo.
La domanda è dun­que que­sta: i quat­tro esem­plari di Brillo Box indi­scer­ni­bili, sono tutti opere d’arte? E, se lo sono, sono la stessa opera d’arte? La teo­ria di Danto ci per­mette di rispon­dere che le prime tre sono opere d’arte (Har­vey, Warhol e Bidlo), men­tre la quarta, le 110 sca­tole com­mis­sio­nate da Pon­tus Hul­tén, è una mera ripro­du­zione, pur essendo iden­tica alle altre. Inol­tre, ci per­mette di osser­vare che le tre opere sono diverse, non sol­tanto per­ché sono state create da arti­sti diversi, ma per­ché i con­te­nuti seman­tici di cui sono por­ta­tori non sono gli stessi, pure essendo vei­co­lati da «corpi» che mostrano le stesse, iden­ti­che, pro­prietà este­ti­che. La Brillo dise­gnata da Har­vey dice molte cose riguardo alla forza pulente delle spu­gnette che con­tiene: è quella che defi­ni­remmo arte com­mer­ciale. Quella di Warhol dice mol­tis­sime cose a pro­po­sito della società che ha magni­fi­cato il mer­cato e il con­su­mi­smo. Le Brillo di Bidlo ci par­lano delle opere d’arte di Warhol e indi­vi­duano la potenza del pro­blema filo­so­fico che sol­le­vano. Infine, le Brillo di Pon­tus Hul­tén non sono a pro­po­sito di nulla: non c’era alcun pen­siero arti­stico all’origine della loro rea­liz­za­zione.
Senza la potenza di una teo­ria che la spie­ghi e di un occhio che sia edu­cato a coglierla – que­sto il senso della sto­ria rac­con­tata da Danto – tutta l’arte rimane muta, che è poi quanto accade a un’equazione vista da un occhio inca­pace di deci­frare la matematica.

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