Il
prossimo 6 febbraio ricorre il quinto centenario della morte di Aldo
Manuzio, uno dei più grandi editori di tutti i tempi. Alla sua grandezza
contribuisce già la cronologia. Quando, infatti, sul finire del
Quattrocento, Aldo comincia a mandar fuori libri, la stampa è ancora
invenzione fresca. Ma, se il tempismo può essere un’abilità, non è di
per sé un merito. Il merito di Aldo è stato questo: darsi un programma
educativo e perseguirlo attraverso la produzione di libri, con fede,
fiuto e abilità artistica, mettendoci dentro tutto se stesso e tutte le
sue risorse. Cercò professatamente di innalzare l’umanità. Creò un
mercato di lettori colti.
Era nato a Bassiano (nell’odierna provincia
di Latina), nel 1449. Si educò negli ambienti romani, istruì il
principe di Carpi, suo ideale uomo di cultura e continuo punto di
riferimento, ed elesse Venezia a sede della sua impresa. Lì stesso
concluse la sua vita. Formatosi come maestro o, secondo Carlo
Dionisotti, «professore di scuola media» (e non, si badi, come
professore universitario), arrivò all’editoria già adulto. Tra le sue
pubblicazioni più rappresentative non a caso compaiono una grammatica
latina e una greca, opere di Aldo stesso; gli Erotemata di Lascaris,
altro testo grammaticale; e anche un trattato linguistico come l’
Orthographia di Giovanni Tortelli, il creatore della Biblioteca
Vaticana.
Nell’arco di un ventennio Aldo produsse un centinaio di
edizioni, molte delle quali rimangono capisaldi nella storia della
filologia e della stampa. Era partito con l’idea di diffondere, in
un’Italia dominata dal latino, la conoscenza della letteratura greca,
che del latino era la fonte. Ecco, dunque, per cominciare, il
monumentale Aristotele, ecco l’Aristofane. Ma ecco anche, nel 1499,
uscire come nel giro di una notte un’isola dalle profondità dell’oceano
l’Hypnetomachia Poliphili, ovvero un testo «volgare», con l’edizione del
quale Aldo non solo offre a un largo pubblico uno straordinario,
meraviglioso libro (un protoromanzo architettonico linguisticamente
spericolato, che non è troppo oggi considerare una summa dell’umanesimo
italiano), ma anche dà trionfale avvio alla tradizione del libro
illustrato. Nella vetrina celebrativa che la Bodleian Library
dell’Università di Oxford, dove sto scrivendo, ha allestito in questi
giorni l’edizione dell’Hypnerotomachia ovviamente fa la parte del leone:
la pagina su cui è aperto il volume mostra un elefantino che poggia su
un basamento e sorregge sul dorso un obelisco. Un’immagine di
altrettanto splendida foggia – il ritratto dell’autrice – distingue
anche l’edizione di poco successiva di un’altra opera volgare, le
epistole di santa Caterina da Siena, pure loro in bella mostra nella
vetrina oxoniense, con alcuni altri gioielli minori, trascelti tra le
decine di esemplari che la Bodleian Library acquisì in specie nel corso
dell’Ottocento.
A un certo punto compaiono nel catalogo di Aldo anche
Petrarca e Dante, due presenze tutt’altro che scontate, visti i
presupposti iniziali; e pure i tanto evitati latini: Virgilio, Catullo e
diversi altri, tra i quali giganteggia lo scomodo – dato il
cristianesimo di Aldo – ma ineludibile Lucrezio. I greci, però, restano
la passione di Aldo. Da non dimenticare, oltre all’Aristotele, il
Platone. Ma anche la storia è rappresentata, con Tucidide. Compare, sì,
pure qualche storico latino, Cesare, per esempio, ma non Livio, non
Tacito. E si aggiungono anche le cose migliori del momento: le opere del
rimpiantissimo Poliziano, l’Arcadia di Sannazaro, i carmi latini di
Pontano, gli Asolani di Bembo. E gli Adagia di Erasmo!
Ho accennato
all’introduzione delle immagini. Non vanno passate sotto silenzio altre
due fondamentali scoperte tecniche di Aldo: il carattere corsivo, ideato
dall’orefice Cesare Griffo (con il quale, poi, sarebbe nata una disputa
sulla proprietà dell’idea) e – fisiologica derivazione di quello – il
libro tascabile, il «libellus portatilis», come lo chiamava Aldo con
termine latino non certo ciceroniano, ispirato da certi manoscritti
della biblioteca di Bernardo Bembo, e utilizzato dapprincipio per la
poesia e poi esteso anche alla prosa. In verità, ci sarebbe da ricordare
e celebrare almeno un altro carattere, il «bembo», pure questo messo a
punto dal portentoso Griffo (inventore anche di caratteri greci),
cosiddetto perché introdotto per l’edizione del poemetto latino De Aetna
del giovane Pietro Bembo: un carattere che avrà tanta fortuna nel corso
dei secoli, anche attraverso le imitazioni, e che continua, specie in
America, a simboleggiare eleganza e poesia.
Le bellezze dell’editoria
aldina non si finirebbero di elencare, a cominciare dal suo marchio, un
delfino avvolto intorno a un’ancora, desunto da una moneta romana.
Nell’occasione di questo cinquecentenario, però, ritengo che occorra
soprattutto riflettere sull’esempio intellettuale di Aldo: un esempio
illustre che in tempi così tenebrosi per l’editoria come i nostri (e
penso in particolare alla situazione italiana) insegna che non esiste
editoria felice, neanche commercialmente, se l’editore non ha un piano
pedagogico da perseguire. Aldo lo aveva, e lo portava avanti per mezzo
di collaboratori eccellenti, una vera e propria accademia spirituale
(non universitaria, torno a mettere la negazione davanti a
quell’aggettivo), pubblicando ciò che secondo lui serviva, con
l’evidente volontà di allargare la cerchia dei lettori, ma senza la
disperata vocazione di consegnare i suoi sogni a un’indefinita
maggioranza. E non si dica, per favore, che quelli erano tempi migliori,
che quello era il Rinascimento e tutto si poteva. L’opera di Aldo è
intrisa di malinconia e di ansia, come le sue prefazioni dichiarano (chi
le volesse leggere tutte insieme si rivolga alla spettacolare raccolta
del Polifilo, Aldo Manuzio editore). Concorrenti e nemici personali a
parte, che non poco amareggiano in qualunque stagione, Aldo sapeva che
l’Italia, la stessa Venezia, stavano andando in pezzi, che la libertà e
la pace erano minacciate e rimedio non ci sarebbe stato: che qualcosa,
davvero, stava finendo per la malvagità degli uomini. Si veda in
particolare la prefazione al Lascaris, del 1495: un augurio che è un
epicedio. Per questo, perché il
Il bel carattere Dal Rinascimento al mondo digitaleCinquecento
anni fa moriva a Venezia Aldo Manuzio il tipografo che usò le
rivoluzionarie lettere in corsivo e inventò l’antenato del libro
tascabiledi Marco Belpoliti La Stampa 12.5.15
Cinquecento anni fa moriva a Venezia Aldo Manuzio, l’uomo che ha
decretato con il suo genio tipografico e commerciale lo stile delle
parole che ancora leggiamo ogni giorno. Come racconta, S. H. Steinberg
nel suo classico Cinque secoli di stampa (Einaudi), Manuzio fu prima di
tutto abile e fortunato nello scegliere il punzonista che incise i suoi
caratteri, il bolognese Francesco Griffo, che gli fornì una nuova serie
basata sulla scrittura cancelleresca corsiva in uso nella cancelleria
papale, adottata dagli umanisti per i loro scritti non ufficiali. Quella
che oggi conosciamo come «corsivo» funzionò perfettamente quale
complemento ideale del tondo ufficiale.
Griffo incise anche varie serie in tondo, a prima fu usata per il De
Aetna di Pietro Bembo nel 1495, la terza per la Hypnerotomachia
Poliphili, quattro anni dopo, uno dei più bei libri di tutti i tempi.
Manuzio, da uomo pratico qual era, non fu attratto solo dalla bellezza
del carattere di Griffo per le sue collane popolari – inventò i libri
tascabili –, ma dal fatto che essendo stretto e condensato permetteva un
utilizzo più economico della zona destinata alla stampa: perfetto per i
suoi fini commerciali. Dietro alla competenza di Griffo c’era la sua
esperienza di calligrafo e anche la conoscenza dei caratteri del tempo;
per il disegno della maiuscole romane s’ispirò all’Alberti e al Pacioli.
Il Rinascimento diventò così un modo di pensare attraverso la scrittura,
dal momento che le lettere modellano la nostra visione del mondo. Oggi,
quali sono gli eredi del grande stampatore veneziano? Nel 1965 è stato
introdotto un nuovo concetto rivoluzionario nella composizione, Digiset,
a opera dell’ingegnere Rudolf Hell. Le matrici, precedentemente
distribuite sul mercato con lettere incise, non esistevano più; erano
costituite da un certo numero di impulsi conservati in una memoria
elettronica, così da apparire con estrema rapidità, in qualsiasi
istante, e nella grandezza voluta, su un tubo elettronico e da lì essere
fotografate, come spiega Vilmo Rossi nel suo esaustivo Lettering
(Pazzini Editore). Nel 1975 è apparso Demos il carattere disegnato da
Gerard Unger, graphic designer olandese nato nel 1943, uno dei primi
della nuova generazione digitale, realizzato appositamente per Digiset.
Demos ha le forme robuste, un chiaroscuro assai ridotto, e si
differenzia poco tra parti spesse e parti sottili, con gli angoli
arrotondati, così da renderlo leggibile e sottile. Dato che la scrittura
si stava spostando sempre più verso i visori dei computer, Matthew
Carter studiò per la Microsoft Georgia e Verdana dietro suggerimento di
Tom Rickner, esperto di software per caratteri, «erede» del punzonatore
Griffo. La famiglia dei caratteri Verdana ha una struttura diversa dai
caratteri per la stampa tipografica e quelli tracciati a mano: sono
strutturati attraverso griglie di pixel. Oggi al posto dello stampatore
veneziano ci sono multinazionali come Adobe System, che ha sede in
California, la nuova patria dei software di lettura.
Nata nel 1982 con lo scopo di sviluppare il linguaggio PostScript, Adobe
è nei nostri computer. Carol Twolbly, calligrafa americana e type
designer, nata nel 1959, ha lavorato per Adobe: un «punzonatore» donna
finalmente, in un mestiere, la tipografia, dominato per secoli dagli
uomini. Lei ha disegnato Myriad, «uno dei più versatili e famosi San
Serif odierni». Ora si parla di «pacchetto di caratteri». Un esempio è
Lucida del 1985 opera di Charles Bigelow e Kris Holmes, capostipite dei
caratteri destinati alle stampanti laser. Da Venezia e dall’Italia la
tipografia elettronica si è spostata in America.
Sarebbe piaciuta ad Aldo Manuzio Emigre, la società di distribuzione di
caratteri fondata negli anni Ottanta a Berkeley? Penso di sì, se non
altro per la loro forza d’innovazione. Rudy VanderLans e Zuzana Licko, i
due creatori del marchio, hanno aperto una delle prime fonderie
indipendenti e si sono concentrati sui caratteri digitali. La loro
rivista, Emigre Magazine, che ha avuto una grande influenza sulla
grafica degli anni Novanta, luogo di sperimentazione dei giovani type
designer, fucina di grafica innovativa per 69 numeri. Il computer ha
permesso alla grafica di prosperare e di diventare un elemento
importante nella trasformazione del mondo visivo. Forse non ha reso
ricchi i disegnatori di caratteri, ma certamente ha collegato il mondo
del computer alla cultura visiva del passato, rimettendo in circolazione
immagini di lettere e disegni di forme, ibridando il mondo dell’arte
contemporanea con quello dell’arte classica, romana in particolare.
Il digitale ha riciclato tutto quello che meticolosi punzonatori e type
designer rinascimentali avevano inventato e sperimentato nelle loro
botteghe. Tra tutti gli strumenti nelle mani dei giovani ex studenti
californiani quello che si è rivelato il più adatto al cambiamento è
stato il Mac. Nel 1984 VandeLans, nato a L’Aia, neolaureato in
fotografia al College of Environmental Design, e Licko, di Bratislava,
studentessa a Berkeley, acquistano insieme il loro primo computer della
Apple, e cominciato la loro avventura. Nuovo Mondo e Vecchio Mondo
insieme, tutti a guardare vecchie aldine, a sbirciare antiche lapidi
romane o a fissare a testa in su la Colonna che dal 113 dopo Cristo in
Roma ci trasmette silenziosa la forma elegante delle lettere.
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