Zizek va catalogato ormai nella rubrica "Spettacolo & divertimento" [SGA].
Il fondamento delle libertà ll legame ormai rotto tra la democrazia e l’economia di mercato
Il capitalismo si è adattato facilmente a regimi autoritari e cuylture profondamente diverse da quella occidentale Dimostrandosi così ben più esportabile dei modelli politici
di Slavoj Zizék Corriere 3.2.15
Il
filosofo tedesco Peter Sloterdijk osserva che se c’è una persona a cui
faranno il monumento nei prossimi cent’anni, quella sarà Lee Quan Yew,
il leader di Singapore che ha inventato e realizzato il cosiddetto
«capitalismo dal volto asiatico». Il virus di questo capitalismo
autoritario si sta diffondendo, lento ma inesorabile, in tutto il mondo.
Deng Xiaoping, prima di avviare le sue riforme, era stato a Singapore e
lo aveva espressamente elogiato come modello di riferimento per la
Cina. Questo cambiamento ha un significato storico e mondiale: fino ad
oggi, il capitalismo sembra essere inestricabilmente associato alla
democrazia — certo, a volte si è fatto ricorso alla dittatura diretta,
ma dopo uno o due decenni, la democrazia si è imposta nuovamente (basta
ricordare i casi della Corea del Sud e del Cile). Ora, comunque, si è
rotto il legame tra democrazia e capitalismo.
Oggi si parla spesso
del fallimento della civiltà occidentale come modello di riferimento
globale, e del fallimento di quegli Stati post-coloniali che hanno
cercato di emularlo. Questa diagnosi ha tuttavia un difetto: è finito,
sì, il sogno di Fukuyama di una democrazia liberale globale, ma a
livello economico il capitalismo ha trionfato in tutto il mondo — i
Paesi del Terzo mondo che l’hanno sostenuto, oggi registrano tassi di
crescita spettacolari.
Il capitalismo globale non ha problemi ad
adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali.
Quindi, l’ironia crudele dell’anti-Eurocentrismo è che, in nome
dell’anti-colonialismo, si critica l’Occidente proprio nel momento
storico in cui il capitalismo globale non ha più bisogno dei valori
culturali occidentali per funzionare perfettamente, ed è a suo agio con
la «modernità alternativa».
Il capitalismo globale non implica
necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo. L’India, ad
esempio, ha imboccato la strada della celere modernizzazione
capitalista: ma non c’è stata rimozione universale delle tradizionali
strutture sociali, come l’anteposizione dei legami comunitari al
successo personale o il rispetto per gli anziani.
Questo non dimostra
in alcun modo che simili realtà non siano totalmente «moderne». E si
sbagliano di grosso i teorici post-coloniali «servili», che vedono nella
persistenza delle tradizioni premoderne una forma di resistenza al
capitalismo globale e al suo processo violento di modernizzazione che
distrugge i legami tradizionali. La fedeltà ai quei valori è,
paradossalmente, la vera prerogativa che permette a Paesi come Cina,
Singapore e India di seguire la strada del processo capitalista in modo
persino più radicale che nei Paesi liberali occidentali. Il riferimento
ai valori tradizionali offre una giustificazione etica a chi condivide
la logica spietata della competizione di mercato. È molto più semplice
far riferimento a valori tradizionali per poter giustificare
l’indifferenza agli altri. «Lo faccio per aiutare i miei genitori, per
guadagnare i soldi necessari a miei figli e cugini per poter
studiare...»: simili motivazioni sono molto più accettabili rispetto a
«Lo faccio per me».
Non è un caso che la libertà sia un fondamento
debole per il capitalismo nell’Occidente, perché è anche un fondamento
vuoto. La libertà sopravvive anche qui, ma in una forma stranamente
ingarbugliata. Dal momento che la libera scelta è stata elevata a valore
supremo, il controllo sociale non può più sfiorarla. Spesso, comunque,
l’accordo è solo retorico.
L’illibertà mascherata dal suo opposto si
manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza
sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore
di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a
lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni
due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e
scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra
personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli, ci
dicono che «investiamo su di noi», come un capitalista che deve
scegliere liberamente come investire le risorse possedute (o prese in
prestito): in formazione, salute, viaggi… Bombardati costantemente da
«libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per cui
generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati),
viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci
sottrae la vera scelta di cambiare.
Forse, questo paradosso ci
consente anche di gettare una nuova luce sulla nostra ossessione per
quello che sta succedendo in Ucraina, o l’ascesa dell’Isis in Iraq.
Quello che ci affascina in Occidente non è il fatto che a Kiev il popolo
abbia lottato per il miraggio di uno stile di vita europeo, ma che
(quanto meno apparentemente) abbia combattuto semplicemente per prendere
in mano le redini del proprio destino. Ha agito come un agente politico
di un cambiamento radicale che in Occidente non possiamo più scegliere
di fare. (Traduzione di Ettore C. Iannelli)
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