sabato 21 febbraio 2015

Blow jobs act: l'Imbroglione Giovane e la sinistra PD hanno fatto il lavoro sporco

Risultati immagini per dito medioLo schiaffo alla sinistra PdDemocrack. Smentiti i pontieri dem. «Parlamento ignorato, c’è solo la fine dell’art.18» Il premier snobba tutti. Fassina: diritti da anni 50, la Troika ringrazia
di Daniela Preziosi il manifesto 21.2.15


Una scelta che riporta il governo al centro
Jobs act Il plauso del Nuovo centrodestra, che riconosce nel testo una propria vittoria, e di Confindustria, e il gelo del sindacato e della sinistra del Pd

di Massimo Franco Corriere 21.2.15

La soddisfazione del governo è comprensibile. L’approvazione della riforma del lavoro segna la caduta di un tabù culturale, prima ancora che politico. E permette a Matteo Renzi di sottolineare come ad un anno dall’inizio della sua esperienza come premier, un simile risultato fosse pressoché impensabile. Il plauso del Nuovo centrodestra, che riconosce nel testo una propria vittoria, e di Confindustria, e il gelo del sindacato e della sinistra del Pd, trasmettono tuttavia una fotografia bifronte. Il presidente del Consiglio considera il provvedimento la fine degli alibi per le imprese che non vogliono assumere. E già intravede duecentomila nuovi posti di lavoro. Si tratta di una sfida, più che di una certezza. Renzi la lancia, ed è deciso a considerarla vincente, anche perché scommette su una ripresa favorita dal calo del prezzo del petrolio e dagli aiuti della Banca centrale europea. In qualche misura, la evoca e quasi la anticipa, conscio che il giudizio della Commissione Ue sul suo governo dipenderà dalla sua capacità di non fermarsi sulle riforme. Ma sa bene che gli effetti non possono essere immediati. La stessa enfasi con la quale viene data per archiviata la precarietà dovrà sottoporsi alla dura verifica dei prossimi mesi. Politicamente, le decisioni prese ieri sono una manovra di «ricentraggio» del suo governo. Dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale e la rottura del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, a sinistra erano spuntate molte aspettative. Si pensava ad un Renzi pronto a spostare in quella direzione l’asse della maggioranza; e a concedere di più sui temi sociali ai settori del Pd vicini alla Cgil.
Il Consiglio dei ministri, invece, ha ignorato gli orientamenti delle commissioni parlamentari in cui queste componenti avevano detto «no» ai licenziamenti collettivi. Ed ha mantenuto invece l’impostazione voluta dal gruppo di Alleanza popolare (Ncd più Udc) di Angelino Alfano. Il risultato è di puntellare l’alleanza di governo; e di tenere alta la tensione con il Movimento 5 stelle e la sinistra del suo partito, che lo accusa di avere ubbidito alla cosiddetta «troika» FMI-Bce-Commissione Ue. Ma è un prezzo che Renzi paga volentieri, se questo permette di acquistare credito internazionale. D’altronde, il fronte interno sembra fargli meno paura. La frattura dentro FI è profonda, e le ombre processuali che continuano a proiettarsi su Berlusconi lo rendono sempre meno influente.
Questo potrebbe avere conseguenze anche sullo scontro con le opposizioni sulle riforme costituzionali. Sulla scelta di abbandonare l’aula della Camera in segno di protesta contro l’«arroganza» del governo non si vede più la compattezza di qualche giorno fa. Quanto al Jobs act , è vero che in sé è un’incognita, né potrebbe essere altrimenti. Gli scettici ci vedono come minimo una legge confusa e fonte di confusione; e soprattutto un favore alle imprese per licenziare con meno vincoli. Ma molto dipende dalle prospettive economiche. Per funzionare, la riforma ha bisogno di segnali tali da consentire nuova occupazione. Il vero tabù da far crollare sarà questo. 






La rivoluzione figlia della crisi
23 marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi

di Massimo Riva Repubblica 21.2.15

VENTITRÉ marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi. Venti febbraio 2015: il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi approva i decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act.
CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.
Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.
Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.
Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.
Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.
Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.
La dura realtà economica del presente conduce così a un inevitabile paradosso: i più interessati a un successo dei decreti attuativi del Jobs Act soprattutto in termini occupazionali diventano quei sindacati che ne dissentono apertamente. Perché, allo stato, solo nella riuscita della scommessa renziana potrebbero ritrovare il potere perduto.





Nel Pd arrivano anche i “renziani ortodossi”
In questa fase si sta ridisegnando la geografia interna dei Dem Dopo i catto-renziani guidati da Delrio, anche i fedelissimi del premier si sono incontrati per dar vita ad una nuova corrente capitanata da Lotti e Boschi

di Tommaso Ciriaco Repubblica 21.2.15

ROMA C’è un’altra pattuglia dem pronta a dare vita a una corrente. È quella dei renziani ortodossi, guidata dai fedelissimi del premier. La regia è affidata a Maria Elena Boschi e Luca Lotti, Francesco Bonifazi ed Ernesto Carbone. Il timone, però, è in mano a un gruppetto di giovani deputati ai quali tocca arruolare parlamentari che non siedono all’ombra del giglio magico. Come i “catto-renziani” di Graziano Delrio, anche gli “ortodossi” giocano nel perimetro della maggioranza democratica. La competizione è accesissima, ma nulla in confronto al vero obiettivo di entrambe le fazioni renziane: sfidare le componenti più strutturate del Pd. A partire dai Giovani Turchi, naturalmente, passando per le minoranze di sinistra, ma con un occhio anche ai franceschiniani di Area dem.
Cene e incontri, corteggiamenti e pressioni: molto si muove all’ombra del Nazareno. Nel campo degli ortodossi, come detto, il pallino è in mano a un manipolo di giovani dem stimati da Renzi. Tra loro Marco Donati, Edoardo Fanucci e Marco Di Maio. Tessono la tela assieme ad Alessia Morani, sondano deputati e attendono l’ultimo via libera del cerchio magico per lanciare ufficialmente l’operazione. A inizio settimana hanno riunito a cena alcuni colleghi. Parlamentari distanti dal renzismo, molti under quaranta, ex popolari e parecchi meridionali. Il ristorante prescelto è stato Pomidoro, nel quartiere San Lorennel zo, tappa abituale del cerchio magico del presidente del Consiglio. Come pure il locale Baccano, méta preferita dei fedelissimi del premier. A questo tavolo, da un po’, siede anche il vicecapogruppo Ettore Rosato, a lungo reggente della corrente di Dario Franceschini e vicinissimo al ministro delle Riforme. «Io sono amico di Lotti e Boschi — sorride — ma ceno spessissimo con Guerini». Quando gli impegni di Palazzo Chigi lo consentono, si unisce alla compagnia anche Renzi.
Il premier, a proposito. Conosce le mosse dei suoi. Osserva e lascia crescere le nuove articolazione del renzismo, non frena la competizione interna. Per dire, la corrente che fa capo a Delrio, Matteo Richetti e Angelo Rughetti, accompagnata dalla presenza discreta di Lorenzo Guerini, ha ultimato il suo documento programmatico. Il battesimo è previsto il 17-19 aprile con una convention a Frascati. La direzione è già tracciata: «È indispensabile uno forzo quotidiano di mobilitazione interna — si legge nel testo limato nelle ultime ore — fondato anche sul confronto libero e trasparente delle idee». Non a caso, i “cattorenziani” promettono «occasioni politiche, seminari programmatici e proposte concrete a livello parlamentare e territoriale». Nonostante i contatti, non aderirà al progetto Gianni Dal Moro. E il veltroniano Andrea Martella pre- cisa: «Se è una corrente, non mi interessa. Se invece è un’area di libero confronto e scambio di idee, valuterò».
Le schermaglie interne al mondo renziano non devono fare perdere di vista il quadro complessivo. Per il premier, il bersaglio più importante resta quello di ridimensionare soprattutto le componenti più “aggressive” del Pd. Non a caso, i Giovani turchi osservano con crescente preoccupazione le recenti manovre in casa renziana, così come Area riformista di Roberto Speranza, mentre Area dem di Franceschini è alla ricerca di una collocazione adeguata alla nuova fase. E i bersaniani? «Noi lavoriamo — sorride Nico Stumpo — e intanto continuiamo a vincere le nostre battaglie interne.... «. L’ultimo successo, dopo la Calabria, porterà un esponente non renziano alla guida della segreteria regionale in Abruzzo.

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