«Ma Tsipras ha solo perso tempo I nostri debiti sono ancora lì»
Chiuse ospedali, introdusse il ticket e soprattutto limitò l’accesso alla Sanità pubblica solo a chi aveva un lavoro o una pensione e versava i contributi. Per gli altri nullaintervista di Andrea Nicastro Corriere 21.2.15
«Macché successo. Abbiamo solo perso un mese. Gli obblighi per la Grecia come i debiti sono ancora tutti lì, scritti nero su bianco. Nel frattempo però l’economia reale si è fermata. Abbiamo perso entrate fiscali, ritardato contratti, spaventato gli investitori internazionali, affossato la Borsa, fatto fuggire capitali. Proprio un bell’inizio». Adonis Georgiadis è stato ministro e portavoce nel governo di centrodestra che firmò i memorandum con la troika che il nuovo esecutivo di Alexis Tsipras avrebbe voluto cancellare. Non solo. Georgiadis era ministro della Sanità quando l’Europa chiese un taglio delle spese mediche greche tra il 30 e il 60 per cento. Georgiadis chiuse ospedali, introdusse il ticket e soprattutto limitò l’accesso alla Sanità pubblica solo a chi aveva un lavoro o una pensione e versava i contributi. Per gli altri nulla. Eppure è stato uno dei pochi a metterci la faccia, ha avuto sempre la coerenza di sostenere che quei sacrifici erano indispensabili, non solo per il totem della Finanza, ma per smuovere il Paese dalla sua ragnatela di assistenzialismo. Ieri sera, guardando in tv le dichiarazioni dei nuovi protagonisti a Bruxelles, non poteva che pensare «avevo ragione io».
Vede qualche miglioramento per la Grecia da questo accordo?
«Bisognerà studiare bene gli allegati, ma i cambi com’era prevedibile appaiono minuscoli rispetto all’impianto di risparmi e impegni presi in precedenza. D’altra parte è stato lo stesso ministro delle Finanze Yanis Varoufakis a dire che Atene ha fatto i 4/5 della strada».
Nessuna differenza quindi?
«L’accordo è la riproposizione del memorandum. Il vocabolario può essere un po’ diverso ma è il nostro memorandum. Tsipras e i suoi paiono ossessionati dalla semantica. Non gli piace chiamarli “troika” però trattano con il trio di Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Ue. Non gli piace “memorandum” e lo intitolano “accordo”. Che belle conquiste».
Tempo perso?
«Non per il premier Tsipras. Lui aveva la necessità di mettere delle settimane tra la sbornia di promesse elettorali e la firma di un documento in cui accetta di mantenere chiusi i cordoni della borsa. Solo così la memoria della gente sarebbe stata meno fresca».
Qualcuno ha notato un’antipatia personale tra il tedesco Wolfgang Schäuble e il greco Varoufakis, il «comunista con la sciarpetta Burberry». Può aver ostacolato il negoziato?
«Non è uno scontro di personalità. I soldi non guardano se hai o meno la cravatta. E’ una scelta di spregiudicatezza politica per mantenere alto il consenso interno. La stessa dilazione di 4 mesi risponde a questo scopo».
Tsipras vuole che gli elettori dimentichino.
«Ne sono convinto. La drammatizzazione dei negoziati serve a questo. A mostrare ai greci che il governo lotta come un leone e ottiene il massimo. Peccato che lo faccia a spese del Paese. L’economia non ha tempo da perdere, deve riprendere a correre».
di Carlo Bastasin Il Sole 21.2.15
La sovranità democratica nazionale non è la vittima del negoziato tra Atene e Bruxelles. La dura alternativa imposta al governo greco – e in futuro potenzialmente ad altri paesi - tra uscire dall’euro o tradire le promesse elettorali, ha solo reso espliciti i limiti della sovranità di un paese ad alto debito.
Un paese la cui retorica elettorale proiettava sull’Europa il ruolo di antagonista anziché di partner. Tuttavia un negoziato tanto acrimonioso, che poco si è occupato di obiettivi condivisi di crescita e molto di rapporti di forza, resta politicamente debole e getta una grave ombra sul futuro rispetto di qualsiasi accordo.
Alexis Tsipras ha vinto le elezioni sulla promessa unilaterale di revisione degli accordi in atto con le istituzioni europee. Nel pieno del duro scontro con i partner, il primo ministro greco ha ribadito che il suo governo terrà fede alle promesse elettorali. Già in queste ore, il Parlamento di Atene sta votando misure che derogano agli impegni presi. Il contrasto con le condizioni poste dai partner, attraverso l’Eurogruppo, è enorme: Atene era chiamata a non revocare le riforme; a concordare ogni nuova misura senza ampliare il deficit; ad assicurare che ripagherà i debiti; a cooperare con la Troika (anche dovesse cambiare nome, Trinità?); e a portare a compimento il programma concordato.
In molti casi durante la crisi, le democrazie nazionali hanno dovuto fare i conti con le compatibilità europee: referendum (in Irlanda e in Grecia), elezioni (in Spagna e in Italia), sentenze delle corti costituzionali (in Germania e in Portogallo) sono stati oggetto di un tiro alla fune con Bruxelles. L’Italia lo sa meglio di altri: nell’ottobre 2011 arrivarono a Roma una ventina di tecnici della Commissione europea e della Bce. Al successivo vertice di Cannes, il governo accettò l’invio degli esperti del Fondo monetario. Anche noi, come oggi i greci, abbiamo taciuto il nome della “Troika”. Ma l’Italia ha poi reagito, bene o male, con le proprie forze e con tre anni di severi sacrifici e graduali riforme. La fine della sovranità è un alibi: nei paesi dell’euro, il 50% del Pil resta intermediato dagli stati; i divari nei livelli di tassazione sono molto ampi. Ci sono i margini fiscali per realizzare politiche nazionali che assecondino le preferenze dei cittadini. Il vero discrimine è tra politiche – nazionali ed europee - favorevoli alla crescita e politiche, in tal senso, inefficienti a fronte di debiti eccessivi.
Tra minacce e inesperienza, la strategia negoziale di Atene aveva dei limiti fondamentali. Nella trattativa Atene ha utilizzato due leve: la prima era il punto di principio di agire in base a un mandato sancito da elezioni democratiche; la seconda, che l’uscita della Grecia dall’unione monetaria avrebbero aperto la strada alla reversibilità dell’euro per altri paesi. Una posizione negoziale basata su questi due cardini era impervia: il 70% dei greci si dichiara contrario a lasciare l’euro. Il mandato democratico non giustificava quindi l’unica opzione che rendeva temibile la posizione negoziale greca. Il potenziale della minaccia inoltre era ridotto dalla stabilità dell’euro-area assicurata dalla Bce e dall’adesione ai programmi di aggiustamento da parte di paesi contrari a deroghe per altri stati. Tagliare un debito su cui Atene paga pochi oneri, infine, avrebbe comportato pochi benefici ai greci, ma elevati e immediati costi politici per gli altri governi.
Ma anche se la maggioranza dei greci preferisse abbandonare l’euro piuttosto che accettare accordi che, comprensibilmente, ritiene ingiusti e squilibrati, si potrebbe parlare di una battaglia per la difesa della democrazia dalla tecnocrazia europea? In fondo la posizione di Atene si fonda sulla promessa elettorale di far pagare cittadini di altri paesi. La sostanza democratica di una simile promessa, effettuata unilateralmente senza consultare gli interlocutori che ne pagherebbero l’onere, è dubbia.
Il negoziato ha messo in luce però il punto nodale di un’unione monetaria in cui alcuni requisiti democratici sono visibili nel quadro nazionale e sfuggenti in quello europeo. L’Eurogruppo è una sede in cui si dovrebbero comporre interessi di governi, tutti legittimati da elezioni democratiche, a cui però non è chiesto individualmente di perseguire l’interesse comune, se non forse quello del minor danno. L’interesse comune poteva essere rappresentato invece dalla Commissione europea, che però non è un interlocutore negoziale. La contraddizione è tale che nel vertice di lunedì un documento attribuito alla Commissione è stato diffuso maliziosamente da Atene come se fosse un pre-accordo, ma è stato subito accantonato dopo la diffusione di un documento molto più severo espresso dall’Eurogruppo.
La vaghezza del documento della Commissione, privo delle condizioni indispensabili per il consenso degli altri governi, ha rafforzato l’intransigenza dell’Eurogruppo e, malauguratamente, ha fatto sembrare inefficace la mediazione comunitaria rispetto a quella basata su rapporti di potere tra governi forti e governi deboli. Il braccio di ferro sotterraneo tra Bruxelles e Berlino ha visto quindi Merkel prevalere, nonostante la maggiore legittimazione europea della nuova Commissione.
La questione della legittimità d’altronde è resa complessa dal fatto che l’accordo è sottoposto ad approvazione di vari Parlamenti, a cominciare da quello finlandese che ha programmato due sedute straordinarie per il 9 e 14 marzo. Inoltre, la richiesta greca di modificare la sostanza degli accordi in atto avrebbe richiesto una nuova base giuridica da sottoporre anche al parlamento tedesco. La strategia di Tsipras avrebbe quindi dovuto tener conto dei diritti di tutti.
Atene ha risposto chiedendo un accordo ponte che desse al nuovo governo l’ampio respiro – 4-6 mesi - per formulare con i tempi della politica un proprio piano di riforme che evidentemente non era stato dettagliato durante la campagna elettorale. Da un lato l’impreparazione di Atene ha svuotato la sostanza del mandato elettorale che vantava. Dall’altro, l’intento unilaterale di cambiare le regole ha riportato in primo piano il tema della sfiducia che proprio la falsificazione dei bilanci greci aveva catapultato al centro della crisi. Come se non bastasse, una trattativa intergovernativa è di per sé poco trasparente. Documenti riservati sono stati fatti circolare da Atene per influenzare la trattativa, mentre le istituzioni europee informavano i media con propri background, e i governi offrivano briefing mirati alle opinioni pubbliche interne. Berlino infine ha polarizzato la trattativa con dichiarazioni unilaterali. Una cacofonia che ha gravitato perfino su zone orarie diverse tra Dublino e Atene.
Il negoziato rappresenta certamente un monito per i partiti euro-critici che aspirano a governare e per i paesi non soggetti a programma che in futuro faticheranno a rispettare l’ortodossia delle riforme. Ma sottolinea soprattutto il vuoto di vera unione politica europea. Questo vuoto offre così tanti alibi all’opportunismo nazionale da rendere del tutto ingannevole la denuncia della fine della sovranità democratica.
In patria la partita più difficile “Il governo spieghi perché saltano stipendi minimi e tagli a bollette”di Ettore Livini Repubblica 21.2.15
ATENE «Il difficile viene adesso. E la partita più complicata sarà quella che giocheremo in casa». L’Eurogruppo si è chiuso da pochi minuti. La delegazione greca si prepara a un breve spuntino prima di continuare a lavorare nella notte per preparare il piano di riforme da presentare lunedì. Ma l’ostacolo più alto per Alexis Tsipras, come spiega la confidenza di uno degli sherpa al tavolo, è quello che ora troverà ad Atene. «Per noi il bicchiere è mezzo pieno», dice il negoziatore ellenico. Ok, c’è da mandare giù il congelamento alle misure umanitarie («ma una parte vorremmo inserirle nell’accordo di lunedì») e l’impegno a non cancellare quelle imposte dalla Troika. «Ma abbiamo quattro mesi di tempo per convincere l’Europa della bontà della nostra linea, rispettando l’impegno con gli elettori», dicono le fonti vicine alle trattative.
Il problema è che in patria, a giudicare dalle prime reazioni, in molti vedono il bicchiere mezzo vuoto. «Aveva promesso l’addio all’austerity e alla Troika. Non mi sembra abbia ottenuto né l’uno né l’altro» dice a caldo Pakis Dendrinou, portiere d’albergo incollato al video a seguire la conferenza stampa finale dell’Eurogruppo, Il suo parere conta poco. Molto più importante è invece il giudizio che darà all’accordo il partito del presidente del Consiglio. In particolare la minoranza di “Piattaforma di sinistra” che controlla il 30% circa del Comitato centrale. Finora l’ala più radicale di Syriza si è allineata alla linea del premier, grazie anche al manuale Cencelli che (sacrificando la componente femminile) le ha riservato un po’ di posizioni chiave al governo.
La luna di miele però rischia di finire presto. «Qualcuno ha già avuto difficoltà ad accettare diverse parti della lettera inviata all’Eurogruppo da Yanis Varoufakis», ammette Vassilis Primikiris, membro del massimo organo del partito. Malumori ha creato pure la scelta di Prokopis Pavlopoulos, uomo di centrodestra, come presidente della Repubblica. E il redde rationem si potrebbe consumare ora sul testo dell’accordo con l’Eurogruppo. «Il mio problema è chiaro — dice dietro anonimato uno dei parlamentari della minoranza — . Come farò a spiegare ai militanti del Pireo che, per firmare questo pezzo di carta, ho dovuto rinviare l’aumento dello stipendio minimo, la luce e la casa a prezzi popolari che avevo promesso prima delle elezioni?». Molti ad Atene pensano a un referendum per validare il nuovo piano. «Vincerebbe il sì — dice Anna Prizelis, che il 25 gennaio ha votato “controvoglia” Tsipras — . Bisogna sapersi accontentare. Che ci fossero dei compromessi da fare si sapeva. Il 75% dei greci però vuole rimanere in ogni caso nell’euro e il governo doveva tener conto anche di questo».
L’alternativa, la rottura con i creditori, sarebbe stata un salto nel buio. Come dimostra la giornata nera regalata ieri dalla “Sindrome-Cipro” al sistema bancario ellenico. Le convulse notizie in arrivo da Bruxelles, qui sotto il Partenone, hanno avuto il sapore di un inquietante déjà vu. La data: quindici marzo 2013. Il luogo: la capitale belga. Identici pure i protagonisti e il copione: un Eurogruppo con Wolfgang Schauble e la Troika infuriati per l’approssimazione del piano di salvataggio presentato da Nicosia. L’epilogo, in Grecia non l’ha di- menticato nessuno: le banche cipriote dell’isola, dopo l’incontro, sono rimaste chiuse per dodici giorni in attesa di una accordo con la Ue. E quando hanno riaperto i battenti, i risparmiatori si sono ritrovati con una brutta sorpresa: tutti i soldi oltre i 100mila euro in deposito trasformati in azioni degli istituti, praticamente carta straccia. E il resto “congelato” per diverse settimane da rigidissimi controlli sui movimenti di capitali: limite ai prelievi di 300 euro al giorno, assegni banditi, plafond per viaggi all’estero bloccati a 3mila euro.
I greci hanno fatto tesoro di quell’esperienza: da fine dicembre sono stati ritirati dagli istituti ellenici 25 miliardi di euro, quasi il 15% dei depositi. Negli ultimi due giorni la sindrome Cipro ha accelerato la fuga di capitali, arrivata secondo Reuters a 1 miliardo al giorno. E la fuga di capitali è stato uno degli elementi che ha giocato contro Tsipras al tavolo dell’Eurogruppo.
Ad Atene, assicura il Governo, non c’è mai stato un rischio di questo genere. «Il nostro sistema creditizio è solido», ha provato a tranquillizzare tutti il governatore della Banca centrale Yannis Stournaras. «Io però non voglio scottarmi le dita — dice Nikos Zografos, in coda con il bancomat in mano davanti alla Piraeus Bank di Kolonaki per ritirare i suoi 500 euro quotidiani («lo faccio da sei giorni») — Mio fratello Vassilisi aveva messo i 200mila euro ereditati da papà in banca a Nicosia e in due settimane ne ha perso la metà». La bomba liquidità, tra l’altro, non è affatto disinnescata: se per qualsiasi motivo nei prossimi l’accordo con Bruxelles traballerà, il governo potrebbe essere costretto a imporre controlli alla circolazione di denaro per evitare il crac delle banche, tenute oggi in vita dal sottilissimo filo d’ossigeno garantito dai prestiti d’emergenza della Bce. La partita per il salvataggio della Grecia, malgrado la schiarita di ieri, è ancora tutta da giocare.
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