sabato 7 febbraio 2015

Filosofia, arte e fondazione politica nel libro di Franco Rella

Franco Rella: Forme del sapere. L’Eros, la morte, la violenza, Bompiani. 

Risvolto
Sia Adorno che Foucault hanno affermato la necessità di "un lavoro critico del pensiero su se stesso", o addirittura "contro se stesso", per dislocare la filosofia al di fuori del suo habitat, in esilio dalle sue pratiche abituali, per ritrovare la domanda profonda che l'ha generata, quella domanda che originariamente ha messo in campo, con Platone, l'amore e la morte. In un'epoca che sembra aver ceduto al dominio del "neutro", a una volontà neutralizzante, questo lavoro critico assume una stringente importanza sia sul piano conoscitivo che sul piano politico. La sua genealogia si colloca all'incrocio tra arte e filosofia. È in questo spazio che si genera un pensiero critico che non rimuove fratture e lacerazioni, ma proprio in esse, nella loro tensione, cerca di avvicinarsi alla verità e a quella vocazione che la filosofia sembra oggi per certi versi avere smarrito.
 
Il vagabondaggio della scrittura 

Filosofia. «Forme del sapere. L’Eros, la morte, la violenza» di Franco Rella, pubblicato da Studi Bompiani. Un'indagine sui percorsi del pensiero, le identità e le inquietudini di ogni individuo

Lea Melandri, 7.2.2015 

Che cosa c’è di più «poli­tico» del pen­siero, dal momento che l’atto fon­da­tivo della polis, come ci inse­gna Bacho­fen e tutta la cul­tura greco-romano cri­stiana rimanda al «trionfo del prin­ci­pio paterno», «potenza incor­po­rea che si eleva al di sopra della vita mate­riale» e della «fem­mina», rima­sta a rap­pre­sen­tare la terra, cioè la mate­ria di cui siamo fatti? Per­ché stu­pirci se, dopo aver can­cel­lato la sua matrice bio­lo­gica e averla inglo­bata nella sua «crea­zione», la ragione vin­cente le si fa incon­tro come «una forza che agi­sce dall’esterno, senza darsi a vedere»? Una volta fatta pro­pria la visione maschile del mondo, era ine­vi­ta­bile che la «ten­ta­zione del neu­tro» non rispar­miasse nep­pure le donne. 
Il dua­li­smo — corpo/pensiero, natura/cultura, individuo/società, etc. — attra­versa ugual­mente la vita di uomini e donne, ma non è la stessa cosa por­tare le cica­trici di una scis­sione così vio­lenta nella pro­pria indi­vi­dua­lità e nella sto­ria del pro­prio sesso, e avervi dato pro­iet­ti­va­mente corpo e figura, come è invece il caso della donna, messa a rap­pre­sen­tare il «nulla», «la mate­ria», «la ses­sua­lità», o l’Io migliore dell’uomo. Quando è il corpo a essere guar­dato, con tutto il carico di iden­tità, ruoli, atti­tu­dini che gli sono state attri­buite per «natura», la dif­fe­renza tra i sessi salta agli occhi imme­dia­ta­mente. Mag­giori resi­stenze si incon­trano quando è il pen­siero a ripie­garsi su se stesso, anche se lo fa cri­ti­ca­mente e con par­ti­co­lare radi­ca­lità, come nell’ultimo libro di Franco Rella, Forme del sapere. L’Eros, la morte, la vio­lenza (Studi Bom­piani, pp, 205, euro 20).
Sogni e incubi
In com­pa­gnia e «dia­logo con­ti­nuo» con gli autori che ha amato e che lo hanno «intro­dotto al pen­siero», Rella torna – quasi «una sorta di rie­pi­logo» — sui temi che hanno occu­pato la sua ricerca, in una vici­nanza così stretta con la vita da poter essere letti come un pro­filo auto­bio­gra­fico. A essere inter­ro­gate, infatti, con l’andamento ellit­tico di tutti i suoi libri – «riper­cor­rendo tratti già per­corsi, per poi dila­tarsi pro­gres­si­va­mente allar­gando il suo oriz­zonte o per strin­gersi a foca­liz­zare un punto pre­ciso» — non sono solo le «forme del sapere» che gli sono più fami­gliari — la filo­so­fia, la let­te­ra­tura, l’arte -, ma la scrit­tura stessa, l’ osses­sione e il pathos che la muove, quasi fosse, come è stato per Kafka, l’unica pos­si­bi­lità di vivere, di entrare in rap­porto col mondo esterno e il mondo interno, con i fan­ta­smi e le voci che abi­tano den­tro di noi. «Uno scrit­tore scrive. Ma cosa e per­ché scrive? (…) Men­tre avanzo nella scrit­tura di que­sto testo, che sta diven­tando un libro, mi rendo conto che que­sto tema, la scrit­tura, l’ossessione della scrit­tura e il suo pathos, sta fin dall’inizio sullo sfondo di ciò che sto cer­cando di sdipanare». 
Pene­trare il «segreto dell’ossessione che muove il filo­sofo e il poeta o il nar­ra­tore a impe­gnarsi in un este­nuato, tal­volta ter­ri­bile e peri­co­loso, con­fronto con il lin­guag­gio», è stato — dice Rella — il fine sot­to­stante al suo vaga­bon­dare tra filo­so­fia e let­te­ra­tura, ma è in que­sto ultimo libro che il tema si allarga fino a inclu­dere altri ed essen­ziali inter­ro­ga­tivi: il rap­porto della scrit­tura con l’Eros, la morte, il potere, la forza, la vio­lenza, e in ultima ana­lisi la poli­tica. L’attenzione è, come sem­pre, ai poli oppo­sti del dua­li­smo e al pen­siero che li ha visti di volta in volta intrec­ciarsi, con­fon­dersi o farsi la guerra, «attra­ver­sando» per­ciò sia l’Eros che la morte, l’amore come sogno di ricom­po­si­zione armo­niosa e la can­cel­la­zione vio­lenta di una inquie­tante, ango­sciosa radice mor­tale.
Se la vio­lenza e l’esercizio di un potere che ha pre­teso di impa­dro­nirsi del mondo «rige­ne­ran­dolo», al di fuori dei suoi vin­coli bio­lo­gici, sono già pre­senti nel distacco che la coscienza, il lin­guag­gio, la cul­tura, le isti­tu­zioni hanno pro­dotto rispetto all’animalità — come «luogo della cadu­cità e della morte», dell’«orrida casua­lità» — che cosa dif­fe­ren­zia l’arte, la let­te­ra­tura e la filo­so­fia dalle logi­che del dominio? 
Oggi – scrive Rella — anche nelle pra­ti­che arti­sti­che e nella filo­so­fia sem­bra domi­nare «una volontà neu­tra­liz­zante», il che por­te­rebbe a pen­sare che il Levia­tano si annida anche nei luo­ghi più inso­spet­ta­bili. Que­sto si può dire delle filo­so­fie che hanno sacri­fi­cato il corpo e l’individuo nella sua inte­rezza per innal­zare un Io iden­ti­fi­cato astrat­ta­mente con l’Umanità in gene­rale, e che così facendo si sono rese soste­gno e com­plici della potere poli­tico. Altra è la moda­lità con cui la forza, il potere e la vio­lenza abi­tano lo spa­zio este­tico, le grandi opere della let­te­ra­tura, dell’arte e la filo­so­fica cri­tica che se ne occupa.
«Le opere d’arte sono ciò che resi­ste a que­sta omo­lo­ga­zione, a que­sta neu­tra­liz­za­zione (…) La poe­sia apre al pos­si­bile met­tendo in que­stione il reale, apre all’impossibile met­tendo in que­stione il pos­si­bile (…) una testi­mo­nianza che viene dai ter­ri­tori dell’esilio». 

Ten­sioni da con­ser­vare
L’opera d’arte «disgrega e rior­ga­nizza la vita», ma per non rical­care le forme note del potere poli­tico ed eco­no­mico, non deve lasciarsi ten­tare da una «falsa aber­rante tota­lità», e nep­pure dal desi­de­rio di tra­sfor­mare «una scia di immon­di­zie» — gli orrori, i mali del mondo — in «pochi segni per­fet­ta­mente puri». Ciò che impe­di­sce all’arte e alla scrit­tura cri­tica di farsi com­plice dei valori domi­nanti – scrive Rella — è man­te­nere la ten­sione tra Eros e morte, la dimen­sione «tra­gica» della vita e del pen­siero, inten­dendo la morte sia come «l’impronunciabile degra­dare dell’organismo di fronte alla pro­pria distru­zione», sia come can­cel­la­zione del corpo e delle pas­sioni che lo attra­ver­sano. Per dare parola alla verità «impre­sen­ta­bile» e «indi­ci­bile» che vive nell’ombra dei saperi dati — il «pae­sag­gio pre­i­sto­rico» che abita in ognuno di noi — occorre una scrit­tura capace di scen­dere negli inter­stizi dell’opera, osare scheg­gia­ture, silenzi, inter­ru­zioni, fino al fram­mento e al bal­bet­tio. Una scrit­tura – per citare Kafka — che entri nella nostra vita come una «cata­strofe», una forza d’urto con­tro i luo­ghi comuni e i valori domi­nanti. Lo stesso vale per il sag­gio, la scrit­tura cri­tica che a sua volta disgrega e rior­ga­nizza il senso dell’opera, modi­fi­can­dola e modi­fi­can­dosi.
Il pathos pre­sente in ogni pagina di que­sto ultimo libro di Rella lo avvi­cina, più dei pre­ce­denti, alla «nudità» del vis­suto che la scrit­tura — sua e degli autori amati — va osses­si­va­mente cer­cando, facen­done quasi una malat­tia o una reli­gione. Par­ti­co­lar­mente dram­ma­tica è la ten­sione tra ciò che si agita nell’«ombra» del pen­siero — «l’aculeo vele­noso della morte», «il verme del niente», «la palude del nulla» — e il sen­ti­mento con­trad­dit­to­rio di sof­fe­renza e gioia entro cui nasce la scrit­tura anche quando narra l’orrore e la morte. Lo stesso si può dire degli inter­ro­ga­tivi inquie­tanti che riguar­dano l’«io che rac­conta».
«In tutto que­sto c’è feli­cità, comun­que e di qual­siasi cosa si scriva, anche dell’orrore e del male e del nulla. C’è feli­cità ma anche inquie­tu­dine. L’ombra ritorna. Ho spento il com­pu­ter. Lo schermo si rab­buia, e io divento opaco. L’opacità è pros­sima all’angoscia (…). Scri­vere è in primo luogo un atto egoi­stico (…). Pos­si­bile che que­sta soli­tu­dine, que­sto egoi­stico chiu­dersi in se stessi nell’inseguimento dei pro­pri fan­ta­smi non generi nel soli­ta­rio un senso di colpa?».
Del let­tore si dice nel libro che riper­corre e tra­duce den­tro di sé la «trama» che l’altro gli ha steso davanti. Che si tratti di un’opera d’arte o di un sag­gio, il movi­mento è sem­pre lo stesso: scom­bi­nare, ridurre a fram­menti e ricom­porre creando nuovi intrecci, nuovi signi­fi­cati. Da let­trice che segue da anni con grande inte­resse il pen­siero di Rella, mi ver­rebbe da dire che que­sto è il suo scritto più «per­so­nale e poli­tico»: sia per i tratti più o meno espli­ci­ta­mente auto­bio­gra­fici, riguar­danti il pen­siero e la scrit­tura, sia per il con­fronto tra le forme del sapere diven­tate parte della sua vita, o la sua vita stessa, e la politica. 
Quello che non viene detto – o rimosso — è che la «ten­ta­zione del neu­tro» non riguarda solo la poli­tica, l’economia, le scienze o il pla­to­ni­smo per­si­stente in gran parte della filo­so­fia. La neu­tra­liz­za­zione, come idea gene­ra­liz­zata dell’Umano, non can­cella solo il corpo e l’individuo, ma anche la loro appar­te­nenza a un sesso o all’altro, e il diverso destino che la sto­ria vi ha costruito sopra. Par­tendo da que­sta con­sa­pe­vo­lezza, por­tata allo sco­perto dal fem­mi­ni­smo, anche l’interrogativo su quale potere e vio­lenza pas­sino attra­verso lo spa­zio este­tico si fa più radi­cale e più critico. 

Duplice esi­lio
Iden­ti­fi­cata col corpo, a cui l’uomo ha dato nomi e forme, esal­tata imma­gi­na­ti­va­mente e, al mede­simo tempo, con­se­gnata all’insignificanza come sog­getto della sto­ria, la donna ha cono­sciuto un duplice «esi­lio»: dal suo corpo, in quanto tale, e dal corpo «fem­mi­nile» creato dall’immaginario dell’altro sesso.
L’Eros che si accom­pa­gna alla morte nel pro­cesso di dif­fe­ren­zia­zione del pen­siero dalla sua radice cor­po­rea, ha den­tro la vio­lenza invi­si­bile – e per que­sto più insi­diosa — della parola che ha pre­teso di ripor­tare su di sé i due poli ancora indi­stinti della dua­lità, attra­verso una sorta di «rige­ne­ra­zione» o di «nomi­na­zione creaturale». 
Scrive Anto­nio Prete in Chi­ro­gra­fie (edi­zioni di Bar­ba­blu, 1984): «Mia madre rac­con­tava, nelle sere di luna, di sua nonna che da ragazza aveva bal­lato, morsa dalla taran­tola, il ballo di San Paolo. Un pas­sag­gio di vento por­tava le sue parole tra le foglie degli ulivi. Ma la voce si posava sulle pal­pe­bre del mio ascolto, sulle pagine dei miei libri: rigo imma­gi­na­rio a par­tire dal quale sale e discende l’intonazione dei versi, bianco silen­zio che accer­chia la parola e ne misura il tempo». Affin­ché il sogno di armo­nia trovi «nuovo vigore» nel verso, è neces­sa­rio che «avvenga la con­sun­zione dell’oggetto nella luce della parola». La donna, madre o amante, ispi­ra­trice dell’opera poe­tica è un «Tu privo di volto» eppure «causa di affanno amo­roso, privo di lin­gua, eppure ragione della lin­gua». Il rap­porto che il poeta intrat­tiene è con que­sta «figura can­cel­lata» e con il suo «impos­si­bile ritorno».
Se da un lato si dice che il poeta deve abban­do­narsi a «sen­sa­zioni vive», disporsi in modo tale da lasciar par­lare la natura den­tro di sé, dall’altro sem­bra che que­sto corpo sen­ziente debba eclis­sarsi per dar modo alla parola poe­tica di diven­tare essa stessa «il corpo del poeta, la sua voce, il suo sguardo, il prin­ci­pio della sua identità». 
Mi chiedo se non venga da que­sta «morte» sim­bo­lica – e pur­troppo spesso anche mate­riale — che un sesso ha inflitto all’altro, il sen­ti­mento ango­scioso con cui il pen­siero ha guar­dato finora al suo «altrove», veden­dolo come «il nulla», «la palude», «la soli­tu­dine», «il silen­zio», «il senso di colpa».
La poli­tica, inu­tile dirlo, è lon­tana anche da que­ste pro­fonde, sen­si­bili contraddizioni.

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