Alfio Caruso: Quando la Sicilia fece guerra all’Italia, Longanesi
Risvolto
C'è una guerra
non dichiarata (e semisconosciuta) che si è combattuta in Sicilia fra il
1943 e il 1950, tra lo sbarco degli anglo-americani e l'uccisione del
bandito Salvatore Giuliano. Il numero finale dei caduti, nonostante
manchi una contabilità ufficiale, oscilla tra i 1500 e i 2000: soldati,
carabinieri, poliziotti, mafiosi, banditi, indipendentisti, fascisti,
comunisti, sindacalisti, gente comune. Di volta in volta cambiarono i
pupi e gli scenari, mentre il puparo rimase sempre il Partito unico
siciliano, il Pus (massoni, imprenditori, boss di Cosa Nostra, politici
di ogni colore, giudici). E suoi alla fine furono i guadagni. Furono
sette anni di anarchia e terrore con lo Stato ospite indesiderato.
Cominciarono gl'indipendentisti. Proseguirono gli agitatori fascisti per
sabotare la leva obbligatoria in favore dell'esercito della nuova
Italia. Poi avvennero le rivolte contro la politica dell'ammasso, la
guerriglia per il pane, la ribellione di Catania, di Comiso, di Piana
degli Albanesi, di cento altri comuni. A intorbidare ancora di più le
acque provvidero la congiura per instaurare a Palermo una monarchia con i
Savoia e l'arruolamento della banda di Salvatore Giuliano nell'Esercito
dei volontari per l'indipendenza siciliana. Nell'ombra tramavano i boss
della mafia...
Sette anni di anarchia in Sicilia
Dal 1943 al 1950 le trame di un «partito unico» contro lo Stato
di Aldo Cazzullo Corriere 7.2.15
La
Sicilia è «terra incognita» per il resto d’Italia. Considerata un
altrove, e come tale fucina di miti letterari, vista come esotico
enigma, come inestricabile labirinto di miseria e nobiltà, di sangue e
fascinazione, ci accade spesso di perderla di vista, di rinunciare
magari non ad amarla, ma a capirla. La vocazione nazionale all’oblio ha
fatto il resto. Il risultato è che il libro di Alfio Caruso su fatti
accaduti nella più vasta regione d’Italia appena due generazioni fa si
legge oggi come una trama misteriosa e sbalorditiva, dipanatasi in
epoche oscure e in terre su cui nelle mappe mentali è scritto: «Hic sunt
leones».
Va detto che lo sbalordimento non è solo effetto del nostro
oblio, ma anche della grande bravura dell’autore. Caruso in questi anni
ha raccontato ai suoi lettori pagine drammatiche della storia italiana
ed europea, in particolare della Seconda guerra mondiale, restituendo
l’onore ai combattenti dimenticati di El Alamein, di Cefalonia, di
Nikolajevka, senza concedere nulla al revanscismo nostalgico, anzi
documentando gli errori e gli orrori del regime.
Ora con Quando la
Sicilia fece guerra all’Italia (Longanesi) torna a occuparsi di quel
periodo, in particolare dei sette anni che vanno dallo sbarco del luglio
1943 alla morte di Salvatore Giuliano (5 luglio 1950). E approfondisce
la storia della sua terra (Caruso è esponente della grande scuola
giornalistica catanese, che ha dato al «Corriere» tra gli altri Nino
Milazzo, Francesco Merlo, Maria Grazia Cutuli, Paolo Valentino con
incursioni di Giampiero Mughini e Pietrangelo Buttafuoco).
È
impossibile restituire in poche righe un intreccio fitto di personaggi,
episodi, dettagli; scoperte che fanno luce su misteri antichi, enigmi
destinati a rimanere insoluti. È possibile tentare una sintesi. E
descrivere almeno la scena su cui si apre il sipario.
Siamo nel 1942.
La guerra è ancora in bilico. Ma Andrea Finocchiaro Aprile, notabile
della Sicilia prefascista, in contatto con la massoneria e i servizi
segreti britannici, spiega ai suoi interlocutori le ragioni per cui gli
Alleati la vinceranno. E comincia a preparare il terreno per lo sbarco
angloamericano. Finocchiaro Aprile non è un oppositore del regime. Ha
tentato di ingraziarsi il Duce con una lettera ignobile in cui si
candidava a prendere il posto di Giuseppe Dell’Oro, direttore generale
del Banco di Sicilia, «per il caso che il governo fascista, in
attuazione delle provvide norme sulla difesa della razza, credesse di
doverlo dispensare dal servizio». Mussolini non ha neppure risposto. Ora
Finocchiaro Aprile si candida a capeggiare di fatto quello che Caruso
chiama il Pus, Partito unico siciliano. E vagheggia di separare l’isola
dall’Italia, magari per farne l’avamposto europeo degli Stati Uniti.
Del
partito unico fanno parte innanzitutto i latifondisti, disposti a tutto
pur di non perdere i privilegi che neppure il fascismo — visto come «un
movimento del Nord» — ha intaccato, limitandosi a espropriare gli eredi
di Nelson, eroe della nemica Inghilterra. Poi ci sono imprenditori,
politici, massoni, qualche magistrato. Ma soprattutto ci sono i mafiosi.
C’è, insomma, l’establishment siciliano, che tenta di reggere il ritmo
accelerato della storia e magari di anticiparlo, vagheggia di offrire il
trono di Sicilia ai Savoia spodestati, arruola volontari per
l’indipendenza, si avvale di Salvatore Giuliano come capo dei bravi,
arma la mano che a Portella della Ginestra fa strage di braccianti
(memorabile la telefonata di rivendicazione del bandito ai carabinieri
di Partinico: «Poiché ci siamo assunti il compito di combattere i
comunisti, preghiamo i carabinieri reali di cercare di non combatterci
perché a noi dispiacerebbe molto usare le nostre armi contro le forze
devote al nostro re…». È il 2 giugno 1947, primo anniversario della
Repubblica italiana).
Negli anni in cui la Sicilia si ribella allo
Stato si combatte una sorta di guerra civile a intensità neppure troppo
bassa, che costa duemila morti e si conclude con la grande
normalizzazione democristiana. Decisiva è la lunga battaglia
(ricostruita dall’autore nei dettagli) di Giuliano contro lo Stato,
rappresentato da un altro siciliano: Mario Scelba. Sullo sfondo,
emergono altri personaggi da romanzo: come Maria Lamby Karintelka,
svedese, spia per conto degli americani, che avvicina il bandito come
giornalista e passa giorni interi con lui, fino a guadagnarsi il
soprannome di «Pompadour di Montelepre». Ci sono Tommaso Besozzi che
rivelerà la vera fine di Giuliano, lo studente catanese (di origine
irpina) Antonio Pallante che spara a Togliatti, e gli otto carabinieri
caduti a Feudo Nobile, altra strage rimasta impunita. E c’è un
palermitano, Antonio Canepa: antifascista, attenta alla vita di
Mussolini, progetta di impossessarsi della stazione radio di San Marino
per lanciare appelli contro il regime, sfugge all’Ovra, si ricrea una
verginità politica ottenendo all’università di Catania la cattedra di
cultura e dottrina del fascismo, diventa un agente inglese, scrive un
pamphlet indipendentista, si iscrive al Pci e viene ucciso in un agguato
rimasto misterioso. Tutto pare accaduto in un’altra epoca su un altro
pianeta. Invece è la nostra storia.
La «guerra civile» in Sicilia ingaggiata e vinta dalla mafia
26 mar 2015 Libero ROBERTO COALOA
Quando la Sicilia fece guerra all’Italia ( Longanesi, pp. 318, euro
17,60) di Alfio Caruso è uno dei libri fondamentali per capire la
recente storia d’Italia e i suoi problemi più attuali. La guerra in
questione, lunga, intensa e atroce, costata circa duemila morti, quasi
tutti poveri cristi, inizia nel mezzo del Secondo conflitto mondiale e
finisce con l’uccisione di Salvatore Giuliano nel 1950: «Ucciso
Giuliano, non ci sono più banditi da perseguire nell’isola. I mafiosi?
Quelli sono amici da tenersi cari».
La guerra deflagra il 9 luglio 1943, con lo sbarco delle truppe
americane e inglesi (in codice «Operazione Husky») lungo la costa
sud-occidentale, tra Siracusa e Licata, in un’isola già devastata e
mortificata. L’invasione dal mare, diretta dai generali Patton,
Montgomery e Alexander, era stata preparata da tempo, con metodi poco
ortodossi. Caruso non tace il fil rouge che univa la mafia locale con
quella americana, racconta i personaggi incredibili che diressero le
operazioni sui civili, come Charles Poletti, e quelli che crearono delle
strategie, come Finocchiaro Aprile.
Poletti era tenente colonnello, capo degli Affari Civili della VII
Armata americana. Per l’amministrazione militare alleata, guidata
dall’inglese Francis Rennell of Rodd, fu il responsabile civile della
Sicilia, dal luglio 1943 al febbraio 1944, di Napoli, poi di Roma e
infine di Milano, dove il 30 aprile 1945 assume la carica di governatore
della Lombardia. A Napoli ebbe quale aiutante e interprete ufficiale
Vito Genovese, aiutante di Lucky Luciano, mentre in Sicilia aveva come
spalla un nipote di Vizzini, Damiano Lumia detto Dam. Poletti, in
sintesi, era sostenuto dall’avanguardia affaristica di Cosa Nostra.
Le forze contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato
che la Sesta Armata italiana del generale Alfredo Guzzoni poteva contare
su circa 220.000 uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti.
Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa e al comando del
generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio dal
generale Hans-Valentin Hube).
Gli Alleati, grazie a una fitta rete di collaboratori (se gli
americani legarono con la mafia, gli inglesi avevano consolidato nei
secoli una stretta alleanza con la nobiltà siciliana), ebbero la meglio
con i loro 160.000 soldati, 600 carri armati, le navi lungo la costa e
gli aerei volteggianti nell’aria come uccelli da preda.
Caruso narra le delusioni dei siciliani durante il fascismo, le
opere incompiute, gli errori di comunicazione del generale Roatta: tutti
fattore che resero l’isola terreno fertile per gli Alleati, «i nuovi
padroni», considerati necessari per realizzare i sogni dell’élite. È la
Sicilia eterna del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi». Quindi cambiarono gli uomini, i teatrini, ma
il grande «puparo» restò sempre il Partito unico siciliano (massoni,
imprenditori, “galantuomi”, boss), a cui andarono tutti i guadagni.
Dal 1943 al 1950, lo Stato fu ospite indesiderato in Sicilia. I
grandi proprietari si accanirono nella conservazione di ogni centimetro
di latifondo. Fu una pestilenza di dimensioni bibliche, con rivolte per
il pane e con un esercito costretto, per ristabilire l’ordine, all’uso
di cannonate, come nell’Ottocento… In quella pazza guerra morirono
personaggi dimenticati dalla storia. Caruso, a esempio, tratteggia la
figura del professore Antonio Canepa, acerrimo nemico di Mussolini e
guida dello spionaggio inglese. Fu un’epoca di congiure, come quella per
restaurare il trono sabaudo a Palermo, e di stragi, come quella di
Portella della Ginestra, il 1º maggio 1947, a opera della banda di
Giuliano. La prima strage di Stato dell’Italia repubblicana, ma non la
sola, visto che Caruso ne ricorda altre, meno note, sulle quali tuttora
proseguono depistaggi.
La Sicilia descritta da Caruso è il regno della mafia, che aveva
individuato in Giuliano lo strumento perfetto per il proprio disegno,
usato per contrattare con le istituzioni. Per questo il bandito non
sarebbe potuto arrivare mai vivo in tribunale.