sabato 7 febbraio 2015

La Sicilia come laboratorio atlantico tra il 1943 e il 1950

Quando la Sicilia fece guerra all'Italia
Alfio Caruso: Quando la Sicilia fece guerra all’Italia, Longanesi

Risvolto
C'è una guerra non dichiarata (e semisconosciuta) che si è combattuta in Sicilia fra il 1943 e il 1950, tra lo sbarco degli anglo-americani e l'uccisione del bandito Salvatore Giuliano. Il numero finale dei caduti, nonostante manchi una contabilità ufficiale, oscilla tra i 1500 e i 2000: soldati, carabinieri, poliziotti, mafiosi, banditi, indipendentisti, fascisti, comunisti, sindacalisti, gente comune. Di volta in volta cambiarono i pupi e gli scenari, mentre il puparo rimase sempre il Partito unico siciliano, il Pus (massoni, imprenditori, boss di Cosa Nostra, politici di ogni colore, giudici). E suoi alla fine furono i guadagni. Furono sette anni di anarchia e terrore con lo Stato ospite indesiderato. Cominciarono gl'indipendentisti. Proseguirono gli agitatori fascisti per sabotare la leva obbligatoria in favore dell'esercito della nuova Italia. Poi avvennero le rivolte contro la politica dell'ammasso, la guerriglia per il pane, la ribellione di Catania, di Comiso, di Piana degli Albanesi, di cento altri comuni. A intorbidare ancora di più le acque provvidero la congiura per instaurare a Palermo una monarchia con i Savoia e l'arruolamento della banda di Salvatore Giuliano nell'Esercito dei volontari per l'indipendenza siciliana. Nell'ombra tramavano i boss della mafia... 

Sette anni di anarchia in Sicilia
Dal 1943 al 1950 le trame di un «partito unico» contro lo Stato

di Aldo Cazzullo Corriere 7.2.15
La Sicilia è «terra incognita» per il resto d’Italia. Considerata un altrove, e come tale fucina di miti letterari, vista come esotico enigma, come inestricabile labirinto di miseria e nobiltà, di sangue e fascinazione, ci accade spesso di perderla di vista, di rinunciare magari non ad amarla, ma a capirla. La vocazione nazionale all’oblio ha fatto il resto. Il risultato è che il libro di Alfio Caruso su fatti accaduti nella più vasta regione d’Italia appena due generazioni fa si legge oggi come una trama misteriosa e sbalorditiva, dipanatasi in epoche oscure e in terre su cui nelle mappe mentali è scritto: «Hic sunt leones».

Va detto che lo sbalordimento non è solo effetto del nostro oblio, ma anche della grande bravura dell’autore. Caruso in questi anni ha raccontato ai suoi lettori pagine drammatiche della storia italiana ed europea, in particolare della Seconda guerra mondiale, restituendo l’onore ai combattenti dimenticati di El Alamein, di Cefalonia, di Nikolajevka, senza concedere nulla al revanscismo nostalgico, anzi documentando gli errori e gli orrori del regime.
Ora con Quando la Sicilia fece guerra all’Italia (Longanesi) torna a occuparsi di quel periodo, in particolare dei sette anni che vanno dallo sbarco del luglio 1943 alla morte di Salvatore Giuliano (5 luglio 1950). E approfondisce la storia della sua terra (Caruso è esponente della grande scuola giornalistica catanese, che ha dato al «Corriere» tra gli altri Nino Milazzo, Francesco Merlo, Maria Grazia Cutuli, Paolo Valentino con incursioni di Giampiero Mughini e Pietrangelo Buttafuoco).
È impossibile restituire in poche righe un intreccio fitto di personaggi, episodi, dettagli; scoperte che fanno luce su misteri antichi, enigmi destinati a rimanere insoluti. È possibile tentare una sintesi. E descrivere almeno la scena su cui si apre il sipario.
Siamo nel 1942. La guerra è ancora in bilico. Ma Andrea Finocchiaro Aprile, notabile della Sicilia prefascista, in contatto con la massoneria e i servizi segreti britannici, spiega ai suoi interlocutori le ragioni per cui gli Alleati la vinceranno. E comincia a preparare il terreno per lo sbarco angloamericano. Finocchiaro Aprile non è un oppositore del regime. Ha tentato di ingraziarsi il Duce con una lettera ignobile in cui si candidava a prendere il posto di Giuseppe Dell’Oro, direttore generale del Banco di Sicilia, «per il caso che il governo fascista, in attuazione delle provvide norme sulla difesa della razza, credesse di doverlo dispensare dal servizio». Mussolini non ha neppure risposto. Ora Finocchiaro Aprile si candida a capeggiare di fatto quello che Caruso chiama il Pus, Partito unico siciliano. E vagheggia di separare l’isola dall’Italia, magari per farne l’avamposto europeo degli Stati Uniti.
Del partito unico fanno parte innanzitutto i latifondisti, disposti a tutto pur di non perdere i privilegi che neppure il fascismo — visto come «un movimento del Nord» — ha intaccato, limitandosi a espropriare gli eredi di Nelson, eroe della nemica Inghilterra. Poi ci sono imprenditori, politici, massoni, qualche magistrato. Ma soprattutto ci sono i mafiosi. C’è, insomma, l’establishment siciliano, che tenta di reggere il ritmo accelerato della storia e magari di anticiparlo, vagheggia di offrire il trono di Sicilia ai Savoia spodestati, arruola volontari per l’indipendenza, si avvale di Salvatore Giuliano come capo dei bravi, arma la mano che a Portella della Ginestra fa strage di braccianti (memorabile la telefonata di rivendicazione del bandito ai carabinieri di Partinico: «Poiché ci siamo assunti il compito di combattere i comunisti, preghiamo i carabinieri reali di cercare di non combatterci perché a noi dispiacerebbe molto usare le nostre armi contro le forze devote al nostro re…». È il 2 giugno 1947, primo anniversario della Repubblica italiana).
Negli anni in cui la Sicilia si ribella allo Stato si combatte una sorta di guerra civile a intensità neppure troppo bassa, che costa duemila morti e si conclude con la grande normalizzazione democristiana. Decisiva è la lunga battaglia (ricostruita dall’autore nei dettagli) di Giuliano contro lo Stato, rappresentato da un altro siciliano: Mario Scelba. Sullo sfondo, emergono altri personaggi da romanzo: come Maria Lamby Karintelka, svedese, spia per conto degli americani, che avvicina il bandito come giornalista e passa giorni interi con lui, fino a guadagnarsi il soprannome di «Pompadour di Montelepre». Ci sono Tommaso Besozzi che rivelerà la vera fine di Giuliano, lo studente catanese (di origine irpina) Antonio Pallante che spara a Togliatti, e gli otto carabinieri caduti a Feudo Nobile, altra strage rimasta impunita. E c’è un palermitano, Antonio Canepa: antifascista, attenta alla vita di Mussolini, progetta di impossessarsi della stazione radio di San Marino per lanciare appelli contro il regime, sfugge all’Ovra, si ricrea una verginità politica ottenendo all’università di Catania la cattedra di cultura e dottrina del fascismo, diventa un agente inglese, scrive un pamphlet indipendentista, si iscrive al Pci e viene ucciso in un agguato rimasto misterioso. Tutto pare accaduto in un’altra epoca su un altro pianeta. Invece è la nostra storia.

La «guerra civile» in Sicilia ingaggiata e vinta dalla mafia
26 mar 2015 Libero ROBERTO COALOA
Quando la Sicilia fece guerra all’Italia ( Longanesi, pp. 318, euro 17,60) di Alfio Caruso è uno dei libri fondamentali per capire la recente storia d’Italia e i suoi problemi più attuali. La guerra in questione, lunga, intensa e atroce, costata circa duemila morti, quasi tutti poveri cristi, inizia nel mezzo del Secondo conflitto mondiale e finisce con l’uccisione di Salvatore Giuliano nel 1950: «Ucciso Giuliano, non ci sono più banditi da perseguire nell’isola. I mafiosi? Quelli sono amici da tenersi cari».
La guerra deflagra il 9 luglio 1943, con lo sbarco delle truppe americane e inglesi (in codice «Operazione Husky») lungo la costa sud-occidentale, tra Siracusa e Licata, in un’isola già devastata e mortificata. L’invasione dal mare, diretta dai generali Patton, Montgomery e Alexander, era stata preparata da tempo, con metodi poco ortodossi. Caruso non tace il fil rouge che univa la mafia locale con quella americana, racconta i personaggi incredibili che diressero le operazioni sui civili, come Charles Poletti, e quelli che crearono delle strategie, come Finocchiaro Aprile.
Poletti era tenente colonnello, capo degli Affari Civili della VII Armata americana. Per l’amministrazione militare alleata, guidata dall’inglese Francis Rennell of Rodd, fu il responsabile civile della Sicilia, dal luglio 1943 al febbraio 1944, di Napoli, poi di Roma e infine di Milano, dove il 30 aprile 1945 assume la carica di governatore della Lombardia. A Napoli ebbe quale aiutante e interprete ufficiale Vito Genovese, aiutante di Lucky Luciano, mentre in Sicilia aveva come spalla un nipote di Vizzini, Damiano Lumia detto Dam. Poletti, in sintesi, era sostenuto dall’avanguardia affaristica di Cosa Nostra.
Le forze contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta Armata italiana del generale Alfredo Guzzoni poteva contare su circa 220.000 uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa e al comando del generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio dal generale Hans-Valentin Hube).
Gli Alleati, grazie a una fitta rete di collaboratori (se gli americani legarono con la mafia, gli inglesi avevano consolidato nei secoli una stretta alleanza con la nobiltà siciliana), ebbero la meglio con i loro 160.000 soldati, 600 carri armati, le navi lungo la costa e gli aerei volteggianti nell’aria come uccelli da preda.
Caruso narra le delusioni dei siciliani durante il fascismo, le opere incompiute, gli errori di comunicazione del generale Roatta: tutti fattore che resero l’isola terreno fertile per gli Alleati, «i nuovi padroni», considerati necessari per realizzare i sogni dell’élite. È la Sicilia eterna del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Quindi cambiarono gli uomini, i teatrini, ma il grande «puparo» restò sempre il Partito unico siciliano (massoni, imprenditori, “galantuomi”, boss), a cui andarono tutti i guadagni.
Dal 1943 al 1950, lo Stato fu ospite indesiderato in Sicilia. I grandi proprietari si accanirono nella conservazione di ogni centimetro di latifondo. Fu una pestilenza di dimensioni bibliche, con rivolte per il pane e con un esercito costretto, per ristabilire l’ordine, all’uso di cannonate, come nell’Ottocento… In quella pazza guerra morirono personaggi dimenticati dalla storia. Caruso, a esempio, tratteggia la figura del professore Antonio Canepa, acerrimo nemico di Mussolini e guida dello spionaggio inglese. Fu un’epoca di congiure, come quella per restaurare il trono sabaudo a Palermo, e di stragi, come quella di Portella della Ginestra, il 1º maggio 1947, a opera della banda di Giuliano. La prima strage di Stato dell’Italia repubblicana, ma non la sola, visto che Caruso ne ricorda altre, meno note, sulle quali tuttora proseguono depistaggi.
La Sicilia descritta da Caruso è il regno della mafia, che aveva individuato in Giuliano lo strumento perfetto per il proprio disegno, usato per contrattare con le istituzioni. Per questo il bandito non sarebbe potuto arrivare mai vivo in tribunale.

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