venerdì 13 febbraio 2015

Gli anni Settanta: la sconfitta di una generazione e di un movimento nel libro di Alberto Magnaghi

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Alberto Magnaghi: Un'idea di libertà, DeriveApprodi

Risvolto
Alberto Magnaghi fu tra i fondatori di Potere operaio. Dopo lo scioglimento del gruppo, nel 1973, abbandonò la militanza politica attiva e si dedicò alla ricerca e all’insegnamento universitario divenendo direttore del Dipartimento di Scienze del Territorio della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Il 21 dicembre 1979 si ritrovò inaspettatamente arrestato nel quadro dell’inchiesta giudiziaria cosiddetta «7 aprile» contro l’Autonomia operaia. Scontò così tre anni di carcerazione preventiva. E fu durante quella carcerazione che scrisse questo libro: Un’idea di libertà.
Un diario della sua esperienza quotidiana dello spazio-tempo coatto del carcere. Ma – come sottolinearono lo scrittore Antonio Porta e il critico Mario Spinella – questo testo è soprattutto un’opera di straordinaria levatura letteraria. E, proprio per questo, capace di trascendere il tempo e il contesto in cui è stata scritta. In ciò risiede la sua straordinaria attualità di critica della supposta funzione sociale di rieducazione e risocializzazione dell’istituzione carceraria. I racconti apparentemente «minimali» di Magnaghi (ad esempio, l’autocostruzione di un tavolino con lattine di birra vuote, di mensole con pacchetti di cartone della pasta o di un aliante con materiali vari di riuso) sono esemplificazioni delle strategie di resistenza che il prigioniero mette in atto contro l’annientamento psicofisico del biopotere carcerario, descritto con sintetica lucidità nelle sue funzioni di macchina che alterna ottusità brutale e violenta a raffinatezza del controllo scientifico sui corpi.


Anni Settanta, un decennio ancora da scoprire 
Novecento. Oggi presentazione a Milano del libro di Alberto Magnaghi "Un'idea di libertà". Un testo che assieme a un recente saggio di Giovanni Palombarini invita a sviluppare una storia degli anni Settanta che vada oltre il memorialismo

Sergio Bologna, il Manifesto 13.2.2015 

Comin­cia con il rac­conto sur­reale di un bri­co­lage. Un tavolo fatto di lat­tine, con­ce­pito come arredo di una cella di San Vit­tore a Milano. Ma quando si parla di car­cere il sor­riso spa­ri­sce pre­sto dalle lab­bra. È l’avvio del libro di Alberto Magna­ghi Un’idea di libertà (Deri­veAp­prodi; del libro ha già par­lato Michele Spanò il 15 gen­naio. Oggi, la pre­sen­ta­zione a Milano. Appun­ta­mento alla Libre­ria Uto­pia, via Mar­sala 2, alle ore 19). L’autore viene messo in galera dopo aver messo in piedi, alla facoltà di Archi­tet­tura di Milano, uno dei cen­tri di ricerca e pro­get­ta­zione più inno­va­tivi sullo spa­zio civile ed eco­no­mico, agri­colo e urbano, sul ter­ri­to­rio. Rin­chiuso tra quat­tro mura è costretto a con­ti­nuare l’indagine sullo spa­zio ed osserva giorno dopo giorno come la costri­zione dello spa­zio fisico sia capace di scon­vol­gere lo spa­zio inte­riore, di alte­rare la facoltà per­cet­tiva, d’inaridire la dimen­sione emo­tiva, di con­di­zio­nare la memo­ria, il desi­de­rio.
La pecu­lia­rità dello spa­zio car­ce­ra­rio, costri­zione fisica den­tro un affol­la­mento, soli­tu­dine den­tro una costante vio­la­zione dell’intimità, assenza di suoni e sequela di rumori, è quella di saper ridurre il dete­nuto alla pas­si­vità. Si forma così pian piano una seconda pri­gione, forse più ango­sciosa della prima, per­ché è una pri­gione inte­riore. L’unico modo di sfug­gire, di eva­dere da que­sta pri­gione inte­riore, è la soli­da­rietà con altri dete­nuti. Facile a dirsi ma non per un dete­nuto poli­tico, non per uno che è stato di Potere Ope­raio un paio d’anni ma poi ha river­sato tutta la sua pas­sione civile nella ricerca e pro­get­ta­zione di un habi­tat sostenibile. 

Un desi­de­rio collettivo
Per un dete­nuto poli­tico la soli­da­rietà è anche con­di­vi­sione di scelte, di orien­ta­menti poli­tici, non può essere solo soli­da­rietà umana. E poi soli­da­rietà non è solo la parola buona, il pac­chetto di siga­rette, il gesto di ami­ci­zia, è tro­vare il gesto che inter­preta un desi­de­rio col­let­tivo. Magna­ghi si trova in mezzo a dete­nuti poli­tici che inten­dono que­sto gesto solo come gesto di guerra, lui il desi­de­rio col­let­tivo lo coglie nella cella dipinta di aran­cione, che tutti cor­rono a vedere, nel tavolo di lat­tine, rac­colte in una col­letta spon­ta­nea, nell’aliante, che vola oltre il cor­tile e fini­sce su una tet­toia, dove non puoi andarlo a recu­pe­rare altri­menti le guar­die ti sparano. Poi la scena cam­bia di colpo. È nel brac­cio d’isolamento di Rebib­bia, il G8. Niente rumori, niente più grida, niente sporco o tracce di san­gue alle pareti, tutto ordi­nato. Non sei più un dete­nuto, sei un sor­ve­gliato spe­ciale, non ti deb­bono distrug­gere, ti deb­bono osser­vare. Anche i muri sono i loro infor­ma­tori, anche la lam­pa­dina sem­pre accesa. San Vit­tore, descritto fino a quel momento luogo di distru­zione e di degrado, diventa «umano», diventa fami­liare, diventa quasi un ricordo nostal­gico, l’affollamento viene ricor­dato come ele­mento vitale, l’ora d’aria come con­vi­vio. E ini­zia qui una seconda inda­gine sullo spa­zio, il car­cere diventa plu­rale, ce ne sono tanti. Dal G8 si passa al G7, sezione spe­ciale, dal G7 al G12, sezione nor­male. Si torna in mezzo alla gente, c’è aria di bor­gata. Dopo un anno e con la pro­spet­tiva di restarci assai il dete­nuto cam­bia, non è più il trauma del cam­bia­mento, è la ricerca dell’adattamento la molla che lo fa soprav­vi­vere. A segnare le sue gior­nate non è più la sen­sa­zione ango­sciosa che la pro­pria strut­tura inte­riore viene scon­volta ma l’accettazione della meta­mor­fosi, il «gal­leg­gia­mento nel vuoto», come scrive l’autore, la ras­se­gna­zione a un destino che si è com­piuto. È il secondo sta­dio della deten­zione. Il terzo è quello del riscatto, è quando nella mente s’insinua il mirag­gio dell’evasione, è il biso­gno di libertà. Ma per averla occorre pos­se­dere un’idea, ma per rag­giun­gerla occorre pra­ti­carla, a pic­coli passi, se si scarta l’idea della libertà con­qui­stata manu mili­tari o con il tun­nel sca­vato sotto il cor­tile. Un giorno a Rebib­bia manca l’acqua e fuori sono 40 gradi all’ombra. «Un flusso di comu­ni­ca­zione oriz­zon­tale ha per­corso, come un fre­mito, cia­scuno…. assem­blee di rag­gio, col­let­tivi, dele­gati, una rot­tura della cappa di piombo…». L’uomo torna ad essere una persona.
È un libro straor­di­na­rio che si chiude con l’immagine degli alianti, di cui Magna­ghi è esperto costrut­tore. Il loro volo silen­zioso rap­pre­senta splen­di­da­mente il desi­de­rio, l’idea, di libertà.
Ma la domanda che si fa chi prende in mano que­sto testo è: «Per­ché ripub­bli­carlo adesso? Trent’anni dopo la prima edi­zione!» Cos’è, archeo­lo­gia, redu­ci­smo? No, per­ché parla di un’epoca e di cir­co­stanze sulle quali ancora oggi qual­cuno costrui­sce delle nar­ra­zioni infami. Alle quali, per pigri­zia, per con­fu­sione men­tale, per indif­fe­renza, non diamo la giu­sta rispo­sta. Trent’anni dopo gli avve­ni­menti di cui parla il libro di Magna­ghi, un magi­strato, che ha avuto in quella vicenda giu­di­zia­ria un ruolo non secon­da­rio, ha sen­tito il biso­gno di tor­narci sopra: Gio­vanni Palom­ba­rini, ll pro­cesso 7 aprile nei ricordi del giu­dice istrut­tore (Il Poli­grafo, pp. 152). Si parla del pro­cesso all’Autonomia Ope­raia, del caso «7 aprile», nel quale molti degli impu­tati furono tenuti in galera per anni con accuse spe­ciose, che i pro­cessi smon­ta­rono in gran parte, elar­gendo molte asso­lu­zioni. Il libro di Palom­ba­rini mette a nudo la bar­ba­rie della deten­zione pre­ven­tiva. Fa onore ad uno che fa il suo mestiere aver rico­no­sciuto que­sti com­por­ta­menti inci­vili della giu­sti­zia ita­liana, ma il suo libro non affronta il vero pro­blema di quella vicenda, la vera ver­go­gna, che era l’impianto accu­sa­to­rio, l’impianto chia­mato «il teo­rema Calo­gero». Va beh, dirà qual­cuno, il pro­blema è stato supe­rato, le stesse sen­tenze dei pro­cessi hanno demo­lito quel teo­rema. Ed è qui che non ci capiamo. 

Nar­ra­zioni in prima persona
Quell’impianto accu­sa­to­rio non è rima­sto un fatto giu­di­zia­rio cir­co­scritto alla vicenda pro­ces­suale, è diven­tato nel corso degli anni un’ipotesi sto­rio­gra­fica, uno schema logico sul quale si con­ti­nua, oggi — oggi non ieri — a costruire memo­ria e nar­ra­zione. Si è tra­sfor­mato, come dire, in una sostanza tos­sica a lento rila­scio che inquina dei ter­ri­tori, sia pur peri­fe­rici, dell’indagine sto­rica. Non solo ad opera di auten­tici pro­vo­ca­tori ma anche ad opera di per­so­naggi che occu­pano cat­te­dre nell’Università ita­liana e per­sino di sto­rici stra­nieri (è uscito di recente in Ger­ma­nia un pon­de­roso volume di una stu­diosa che, affron­tando un’analisi com­pa­rata dei movi­menti di lotta negli anni Set­tanta in Ita­lia e Ger­ma­nia, riper­corre certi sen­tieri inter­pre­ta­tivi trac­ciati da quella sta­gione giu­di­zia­ria). Da parte nostra c’è stata finora debole rispo­sta e dob­biamo far­cene colpa soprat­tutto noi che abbiamo scelto allora il ter­reno della sto­rio­gra­fia come ter­reno di azione. Ci siamo troppo attar­dati nella memo­ria­li­stica, esa­spe­rando un certo sog­get­ti­vi­smo. Invece è pro­prio il momento di ripren­dere il respiro dello sto­rico e guar­dare di nuovo quel decen­nio dall’osservatorio del pre­sente, per­ché solo oggi si può valu­tare come la mise­ria dell’Italia in cui viviamo sia opera di quelli stessi che hanno infie­rito con­tro l’Autonomia Ope­raia ed i movi­menti di lotta e libe­ra­zione di allora.

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