Risvolto
L’analisi di Agamben sui conflitti intestini dall’antichità a oggi
Quei legami pericolosi tra “polis” e guerra civileLa “stasis” greca rappresenta la tensione irrisolta tra due appartenenze: alla famiglia e alla città Per Platone “chi combattendo uccide un fratello va giudicato puro come chi ammazza un nemico”di Giorgio Agamben Repubblica 5.2.15
CHE una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi. Roman Schnur, che già negli anni Ottanta formulava questa diagnosi, aggiungeva tuttavia che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. A trent’anni di distanza, l’osservazione non ha perso nulla della sua attualità: mentre sembra oggi venuta meno la stessa possibilità di distinguere guerra fra Stati e guerra intestina, gli studiosi competenti continuano a evitare con cura ogni accenno a una teoria della guerra civile.
Èveroc he negli ultimi anni, di fronte alla recrudescenza di guerre che non si potevano definire internazionali, si sono moltiplicate, soprattutto negli Stati Uniti, le pubblicazioni concernenti le cosiddette inter nal wars; ma, anche in questi casi, l’analisi non era orientata all’interpretazione del fenomeno, ma, secondo una prassi sempre più diffusa, alle condizioni che rendevano possibile un intervento internazionale. Il paradigma del consenso, che domina oggi tanto la prassi che la teoria politica, non sembra compatibile con la seria indagine di un fenomeno che è almeno altrettanto antico quanto la democrazia occidentale.
Un’analisi del problema della guerra civile — o stasis — nella Grecia classica non può non esordire con gli studi di Nicole Loraux, che ha dedicato alla stasis una serie di articoli e saggi, raccolti nel 1997 nel volume La Cité divisée. La novità nell’approccio di Loraux è che essa situa immediatamente il problema nel suo locus specifico, cioè nella relazione fra l’oikos, la “famiglia” o “casa”, e la polis, la “città”. All’inizio della Politica, Aristotele distingue così con cura l’oikonomos, il “capo di un’impresa”, e il despotes, il “capofamiglia”, che si occupano della riproduzione e della conservazione della vita, dal politico, e critica aspramente coloro che ritengono che la differenza che li divide sia di quantità e non, piuttosto, di qualità.
Dove “sta” la stasis, qual è il suo luogo proprio? Innanzitutto una citazione dalle Leggi di Platone: «Il fratello [adelphos, il fratello consanguineo] che, in una guerra civile, uccide in combattimento il fratello, sarà considerato puro [catharos], come se avesse ucciso un nemico [polemios]; lo stesso avverrà per il cittadino che, nelle stesse condizioni, uccide un altro cittadino e per lo straniero che uccide uno straniero ». Ma ciò che risulta dal testo della legge proposta dall’Ateniese nel dialogo platonico non è tanto la connessione fra stasis e oikos, quanto il fatto che la guerra civile assimila e rende indecidibili il fratello e il nemico, il dentro e il fuori, la casa e la città. Nella stasis, l’uccisione di ciò che è più intimo non si distingue da quella di ciò che è più estraneo. Ciò significa, però, che la stasis non ha il suo luogo all’interno della casa, ma costituisce piuttosto una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza. La stasis — questa è la nostra ipotesi — non ha luogo né nell’oikos né nella polis, né nella famiglia né nella città: essa costituisce una zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città. Trasgredendo questa soglia, l’oikos si politicizza e, inversamente, la polis si “economizza”, cioè si riduce a oikos. Ciò significa che, nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città e la città si depoliticizza in famiglia.
Esiste, nella tradizione del diritto greco, un documento singolare, che sembra confermare al di là di ogni dubbio la situazione della guerra civile come soglia di politicizzazione/depoliticizzazione che abbiamo appena proposto. Si tratta della legge di Solone, che puniva con l’atimia (cioè con la perdita dei diritti civili) il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti. Non prendere parte alla guerra civile equivale a essere espulso dalla polis e confinato nell’oikos, a uscire dalla cittadinanza per essere ridotto alla condizione impolitica del privato. Questo nesso essenziale fra stasis e politica è confermato da un’altra istituzione greca: l’amnistia. Nel 403, dopo la guerra civile in Atene che si concluse con la sconfitta dell’oligarchia dei Trenta, i democratici vittoriosi, guidati da Archino, si impegnarono solennemente a «non ricordare in nessun caso gli eventi passati» cioè a non punire in giudizio i delitti commessi durante la guerra civile. Commentando questa decisione — che coincide con l’invenzione dell’amnistia — Aristotele scrive che in questo modo i democratici «agirono nel modo più politico rispetto alle sciagure passate ». L’amnistia rispetto alla guerra civile è, cioè, il comportamento più conforme alla politica.
Dal punto di vista del diritto, la stasis sembra così definita da due interdetti, perfettamente coerenti fra loro: da una parte, non prendervi parte è politicamente colpevole, dall’altra, dimenticarla una volta finita è un dovere politico. In quanto costituisce un paradigma politico coessenziale alla città, che segna il diventar politico dell’impolitico (dell’oikos) e il diventar impolitico del politico (della polis), la stasis non è qualcosa che possa mai essere dimenticato o rimosso: essa è l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti. Proprio il contrario, cioè, di ciò che la guerra civile sembra essere per i moderni: cioè qualcosa che si deve cercare di rendere a tutti i costi impossibile e che deve sempre essere ricordato attraverso processi e persecuzioni legali.
Quando prevale la tensione verso l’oikos e la città sembra volersi risolvere in una famiglia (sia pure di un tipo speciale), la guerra civile funziona allora come la soglia in cui i rapporti familiari si ripoliticizzano; quando a prevalere è invece la tensione verso la polis e il vincolo familiare sembra allentarsi, allora la stasis interviene a ricodificare in termini politici i rapporti familiari. La Grecia classica è forse il luogo in cui questa tensione ha trovato per un momento un incerto, precario equilibrio. Nel corso della storia politica successiva dell’Occidente, la tendenza a depoliticizzare la città trasformandola in una casa o in una famiglia, retta da rapporti di sangue e da operazioni meramente economiche, si alternerà invece a fasi simmetricamente opposte, in cui tutto l’impolitico deve essere mobilitato e politicizzato. Secondo il prevalere dell’una o dell’altra tendenza, muterà anche la funzione, la dislocazione e la forma della guerra civile; ma è probabile che finché le parole “famiglia” e “città”, “privato” e “pubblico”, “economia” e “politica” avranno un sia pur labile senso, essa non potrà essere cancellata dalla scena politica dell’Occidente.
La forma che la guerra civile ha assunto oggi nella storia mondiale è il terrorismo. Se la diagnosi foucaultiana della politica moderna come biopolitica è corretta e se corretta è anche la genealogia che la riconduce a un paradigma teologico-oikonomico, allora il terrorismo mondiale è la forma che la guerra civile assume quando la vita come tale diventa la posta in gioco della politica. Proprio quando la polis si presenta nella figura rassicurante di un oikos — la “casa Europa”, o il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale — allora la stasis, che non può più situarsi nella soglia fra oikos e polis, diventa il paradigma di ogni conflitto ed entra nella figura del terrore. Il terrorismo è la “guerra civile mondiale” che investe di volta in volta questa o quella zona dello spazio planetario. Non è un caso che il “terrore” abbia coinciso col momento in cui la vita come tale — la nazione, cioè la nascita — diventava il principio della sovranità. La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’incondizionata esposizione alla morte, cioè la nuda vita.
Viviamo in una guerra civile globale
Un’analisi di Giorgio Agamben che prende le mosse dall’antichità ed evoca le riflessioni di Carl Schmitt e di Thomas Hobbes La minaccia inedita. Si affaccia sulla scena una figura di combattente irregolare con il quale la radicalizzazione dello scontro non ha più limiti I nuovi conflitti hanno perso ogni legame con un territorio Il terrore avanza, come le lotte fratricide nella polis greca L’interrogativo. Se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta quale fenomeno ricorrente, come si può riuscire a pensare la pace?di Donatella Di Cesare Corriere La Lettura 22.2.15
Che guerra è quella che si combatte in Libia? In Siria? In Ucraina? E nelle numerose aree di conflitto del mondo? Sebbene in alcuni casi gli Stati nazionali svolgano
ancora un ruolo di rilievo, appare chiaro che la guerra coinvolge direttamente la popolazione civile. Questo vuol dire che civili sono non soltanto le vittime inermi, ma anche i combattenti. Basti pensare ai miliziani jihadisti, ai peshmerga curdi, agli indipendentisti filo-russi.
La guerra civile sembra essersi diffusa ovunque negli ultimi anni, persino entro i confini europei. Il che conferma una delle grandi intuizioni di Carl Schmitt, formulata in un testo pubblicato a Berlino all’inizio degli anni Sessanta e intitolato Teoria del partigiano (Adelphi). L’autore parla di un nuovo ordine mondiale in cui viene meno il reciproco riconoscimento fra gli Stati sovrani e perciò la guerra non è più né circoscritta né regolamentata. Il nuovo «nomos della terra», la nuova politica dello spazio, deve considerare questo mutamento epocale. Il duello fra gli Stati viene sostituito dalla guerra senza limiti e senza regole, una guerra che criminalizza il nemico fino a volerne l’annientamento. Nella figura del «partigiano», il combattente irregolare, Schmitt vede emergere questo mutamento. Con le sue rappresaglie, il ricorso a ogni mezzo per sopperire alla sua inferiorità militare, il partigiano piega l’esercito regolare alle proprie modalità belliche; così radicalizza la contrapposizione amico-nemico. Per Schmitt non vi è alcun dubbio: guerra e nemico sono due concetti che si sono trasformati, assumendo tratti estremi. Dopo le due grandi guerre mondiali l’«ostilità assoluta» è destinata a divenire fenomeno planetario.
Quel che ha inciso profondamente sulla guerra, sul suo carattere e sulle sue forme, è la tecnica. L’apocalisse nucleare è lo sfondo minaccioso delle tante guerre, ammantate di delega, e dissimulate con la procura, che si combattono nell’intento paradossale di prevenire all’infinito la catastrofe. Ma la tecnica ha modificato anche condizioni e modi dell’intervento militare. Si può combattere a distanza, e colpire su scala globale, senza neppure venire in contatto con il nemico. Il drone è oggi il simbolo del nuovo high tech che ha inaugurato la guerra senza volto.
Che ne è allora del partigiano di Schmitt? La tecnica ne recide il legame con la terra, ma non ne cancella la figura: il partigiano autentico, una volta sradicato, diventa il combattente che può operare ovunque e la cui irregolarità, prima mitigata dalla difesa del proprio territorio, diventa aggressività senza fine. Schmitt non poteva sapere del terrorista. Eppure intuì quel che sarebbe avvenuto di lì a poco: mentre si legittimava, anche giuridicamente, il partigiano, si affacciava sulla scena della storia un’altra figura di combattente irregolare, il terrorista, con il quale la radicalizzazione dello scontro sarebbe giunta a una guerra senza limiti.
Non si esagera dicendo che la globalizzazione è il mondo in guerra. Nell’epoca del terrore la guerra si diffonde; non ha più frontiere. Gli eventi bellici si moltiplicano, realizzandosi in spazi e tempi differenti.
Ogni conflitto potrebbe dar luogo a una deflagrazione cosmica, perché si accende nel disordine planetario che non lo contiene, ma piuttosto lo asseconda. La guerra globale fa saltare i confini fra militare e civile, esterno e interno, criminale e nemico. Al punto che, sotto il profilo concettuale, diventa difficile distinguere persino tra guerra e terrorismo.
Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Bollati Boringhieri) è il titolo del libro di Giorgio Agamben uscito in questi giorni. Il volume, che fa parte dell’opera complessiva Homo sacer (II, 2), contiene i testi di due seminari tenuti all’Università di Princeton. Che cos’è la guerra civile? Per rispondere a questa domanda, Agamben risale per un verso al pensiero greco, per l’altro alla riflessione di Thomas Hobbes.
Le guerre degli ultimi anni, che non sono più conflitti internazionali, hanno indotto molti studiosi a parlare di internal wars o di uncivil wars — guerre interne o «incivili». Perché sembrano dirette non alla trasformazione del sistema politico, ma
solo a rendere più acuto e esteso il disordine. Mentre si è affermata l’esigenza di gestire i conflitti, è stata trascurata la questione della guerra civile.
Non si può dire che i filosofi non abbiano mai riflettuto su questo tema. Tuttavia manca una dottrina della guerra civile. Il che è tanto più eclatante di fronte al diffondersi della «guerra civile mondiale» — un’espressione usata sia da Schmitt sia da Hannah Arendt. Proprio Arendt, che distingue la rivoluzione dalla stasis, cioè dalla «discordia civile che tormentò la polis greca», nel suo libro Sulla rivoluzione (Einaudi) ha contribuito a mettere in ombra la guerra civile.
La stasis, nella Grecia classica, ha un suo luogo preciso: si situa tra la famiglia e la città, fra l’oikos e la polis. La «guerra familiare» — come la chiama Platone — investe tragicamente la città; non viene dall’esterno, ma nasce dai legami di parentela. Questo vuol dire che l’ordine politico della città è costantemente minacciato dall’interno, dalla discordia tra fratelli, dalla «guerra in casa».
Agamben, però, non accetta di vedere nella guerra civile un semplice segreto di famiglia. Altrimenti non sarebbe un paradigma politico. Ecco perché la sposta, ne fa la soglia tra la famiglia e la città. Quando la discordia si scatena, il fratello uccide il fratello come se fosse un nemico. La guerra civile non permette più di distinguere l’intimo e l’estraneo, il dentro e il fuori, la casa e la città, la parentela di sangue e la cittadinanza. In tal modo «il legame politico si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il vincolo familiare si estranea in fazione». La stasis non è allora guerra in famiglia. Piuttosto funziona «in modo simile allo stato di eccezione», lo stato, cioè, in cui il diritto è sospeso. Così Agamben salvaguarda la irregolarità della guerra civile.
Ciò appare chiaro anche nella lettura dei testi di Hobbes, in particolare del Leviatano. Che cos’è un popolo? A questa domanda, molto dibattuta nella filosofia contemporanea, Agamben risponde con Hobbes: una volta unito nel sovrano, o nell’assemblea democratica, il popolo resta infatti moltitudine. Non è la moltitudine disunita, che precede il patto, ma è piuttosto la «moltitudine dissolta» dal cui interno può scaturire il conflitto. Sta qui la minaccia della guerra civile, che è quindi sempre possibile.
Per Agamben la forma che la guerra civile ha assunto oggi è il terrorismo. Proprio quando la città prende le sembianze rassicuranti della famiglia, la «casa Europa» o «il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale», la guerra civile diventa il paradigma di ogni conflitto e assume la figura del terrore.
Molti sono gli interrogativi che restano aperti. Pur se accomunate dalla violenza planetaria, come differiscono le varie forme di terrorismo globale? Esiste una peculiare teologia politica della guerra civile che — come ha suggerito lo storico Dan Diner — influisce sull’islam radicale? E se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta come un fenomeno ricorrente, come può essere pensata in modo non ingenuo la pace?
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