giovedì 5 febbraio 2015

Iconologia dell'Orlando furioso

Lina Bolzoni (a cura di): L’Orlando Furioso nello specchio delle immagini, Treccani

Ariosto nel metròUn monumentale volume Treccani racconta l’Orlando furioso: fenomenologia di un bestseller dalle letture erudite ai fumetti, dalla radio al kindledi Stefano Bartezzaghi Repubblica 5.2.15
L’ORLANDO Furioso si trovava fra le offerte di ebook gratuiti su Amazon, in un’edizione che contiene solo testo e indice, e così ho cliccato sul pulsante senza star tanto a pensarci sopra: primo titolo scaricato sul Kindle, anni fa. Soltanto in seguito ho capito quanto quella scelta sbadata fosse invece significativa. Ne ho avuta la piena certezza quando ho incominciato a navigare in quell’oceanica opera editoriale che Lina Bolzoni ha appena curato per la Treccani: L’Orlando Furioso nello specchio delle immagini . Altro che ebook! Ottocento pagine di buona grammatura, 515 immagini riprodotte come meglio non si potrebbe, venti saggi di studiosi, che coprono l’orizzonte che va dalla prima edizione del 1516 a Luca Ronconi, al gioco da tavola disegnato e prodotto da Guido Crepax, alle illustrazioni di Grazia Nidasio per l’edizione antologica di Italo Calvino e alle opere ariostesche di Mimmo Paladino.
Un’opera editoriale, dicevo: ma di quell’editoria che confina con l’edilizia: cofanetto, trenta centimetri e oltre di altezza e larghezza, più di sette chili di peso (senza indicazioni di prezzo). Ora volume e Kindle sono vicini sul tavolo e il loro confronto dice molte. Una delle prime conseguenze della comparsa dell’ebook è stata che ora nessuno può ignorare che un conto è il libro, un conto è il testo. L’ebook, almeno nella sua spartana forma originaria, è testo nudo. Le note sono possibili, ma anche scomode da consultare. A volte non c’è praticamente impaginazione. Non c’è tridimensionalità, ma solo un flusso di righe immateriali. Peraltro leggere l’ Orlando Furioso in metropolitana o in autobus, qualche ottava per tratta, ha una sua sorprendente congruità. Eruditi e specialisti a parte, è ovvio che non tutti i vocaboli e i passaggi si capiscano, mentre la scomodità dello sfoglio disincentiva i ritorni sulle pagine già lette per riallacciare nella memoria i fili delle diverse vicende che Ariosto riprende e sospende in continuazione. Ma poco importa. Nei termini della semiotica di Umberto Eco non si mira ad avvicinarsi al «Lettore Modello» del Furioso: se ne dà una lettura che è non interpretazione ma uso pulsionale. In parole più povere, si torna bambini, e bambini lettori di fumetti. I bambini che leggono un fumetto magari destinato a ragazzini appena più grandi di loro, immaginano, saltano le parti che non capiscono, seguono la vicenda o si soffermano sulla vignetta che fa ridere. Così io, in metro, con l’Ariosto: se non capisco, passo all’ottava seting guente, mi godo una sorta di «stanza narrativa» senza volermi fare un quadro generale. È uno dei testi che meglio lo consente. Ecco per esempio il duello di Mandricardo e Rodomonte. Se le stanno dando sode, da formidabili guerrieri come sono entrambi: «Fra mille colpi il Tartaro una volta / Colse a duo mani in fronte il Re d’Algiere / Che gli fece veder girare in volta / Quante mai furonfiacole e lumiere». Un coltissimo amico mi ha fatto notare una volta che l’idea figurativa che uno sganassone da fabbro ferraio faccia vedere punti luminosi e stelle è la medesima praticata dai fumettisti e dai cartoonist: da Mandricardo a Wile E. Coyote.
Ritroviamo il bambino che guarda i fumetti senza capirli e si inventa una storia sua nella lezione di Italo Calvino sulla «visibilità », laddove lo scrittore ricorda le «letture» del Corrierino fatte prima di avere imparato a leggere e le considera come l’imprin- ricevuto per la sua futura attività di narratore. I suoi racconti, dice, sono tutti incominciati da un’immagine mentale: il ragazzino che sta su un albero, il cavaliere che consiste nella sua sola armatura esteriore... Oltre a curare il celebre Ariosto radiofonico (selezionando ottave e narrando con parole proprie gli snodi intermedi), Calvino si è rifatto ad Ariosto anche quando Franco Maria Ricci gli chiese un testo a commento del mazzo dei tarocchi viscontei. A uno dei primi seminari estivi di linguistica e semiotica di Urbino (si tengono ancora oggi), Calvino aveva ascoltato Paolo Fabbri parlare dell’uso dei tarocchi nella divinazione. Dalla relazione del semiologo, ma anche dalle sue fantasie infantili sui fumetti, a Calvino venne da considerare ogni tarocco come la sintesi figurativa di una storia possibile, da estrarre componendo sequenze di carte. Nacquero così i segmenti di quel cruciverba narrativo che è il Castello dei destini incrociati : storie di donne, cavallier, arme e amori dichiaratamente ispirate ad Ariosto.
Un gioco, certo: un gioco che per alcuni è stato contemporaneamente troppo frivolo e troppo cerebrale, assommando gli opposti vizi dell’oziosità e dell’astruseria, rompicapo per scapati. Sarà, ma certo Calvino non fu il primo, se Emanuele Tesauro già nel Seicento parlava di un Labirinto dell’Ariosto, vero e proprio gioco dell’oca in cui i concorrenti si muovevano a colpo di dado tra scene tratte dal Furioso. Come ben spiega Lina Bolzoni introducendo il volume da lei curato, l’esplosione crossmediale del poe- ma non si limitò alle illustrazioni che quasi subito lo accompagnarono. Personaggi e scene ispirarono presto pittura, teatro, musica, persino ceramistica, fino alle arti più popolari delle figurine, dei fumetti, del cinema e della tv. Giochi come quello di cui parla il Tesauro richiedono ai giocatori di ricordare passaggi dell’opera e ne costituiscono così una sorta di teatro di memoria. Ma il Furioso è un teatro di memoria esso stesso: poema-enciclopedia che propone e offre alla conversazione solidi topoi su ogni tema, a partire dalla cortesia in guerra e in amore. Proprio nei termini della calviniana «visibilità», la scrittura ariostesca dà già corpo a ciò che evoca, contiene le proprie figure, così come contiene il teatro, il gioco, la magia, la musica.
Autore di un vero e proprio sequel , Ariosto aveva dunque presagito qualcosa che ritroviamo nei nostri ipertesti e nella nostra crossmedialità. Come sottolinea Lina Bolzoni, il poema non fa che invitare il lettore a un viaggio cognitivo: uscire dalla propria realtà, rivedere i propri parametri di verosimiglianza e di credulità e porsi il problema dell’ontologia dell’ippogrifo o quello dei canoni di un’esplorazione lunare. Il saggio dell’accademica della Normale di Pisa si apre con Ludovico Ariosto in arrivo a Mantova, con le copie della prima edizione del suo poema da offrire a corte, ma anche da vendere. Già Matteo Maria Boiardo aveva alluso al «guadagno dello stampatore », in relazione alla lunghezza e alla struttura dell’ Orlando Innamorato (o L’innamoramento de Orlando). Fra l’ Innamorato e il Furioso si interpone la data fatidica dell’anno 1500, lo spartiacque fra incunaboli e libri a stampa. Nel volgere di pochi decenni, Ariosto è già cosciente di rivolgersi non più a dame e gentiluomini di corte, ma a un’entità molto più indifferenziata, che in tutto il mezzo millennio successivo si sarebbe chiamata «pubblico». Non ci si può immaginare Dante Alighieri che si preoccupa delle vendite della Commedia. Ariosto lo fa già al momento della stesura del testo. Dalle analisi di Lina Bolzoni e degli studiosi che ha radunato, Ariosto appare chiaramente consapevole della relazione fra testo e lettori. Anzi la incorpora direttamente nel testo e ne fa un tema della sua opera, a volte allegorico ma a tratti anche esplicito. Sia letteratura sia gioco incominciano a funzionare quando attirano persone nel proprio gorgo, le interpellano, pretendono una loro risposta, sospendendo il flusso del tempo e immergendole in un tempo a sé. L’ Orlando furioso ne è un esempio superbo. Dopo è stato arduo evitare di tener conto della messa in gioco, cioè della in-lusio, in cui la letteratura consiste. È per questo che può essere proclamato il «primo bestseller». Ed è per questo che averlo (anche) nel Kindle è significativo, negli anni in cui ci chiediamo se l’ebook sia parte della prima vera rivoluzione culturale dopo Gutenberg. Se cioè i new media non stiano sovvertendo quei rapporti fra autore, testo e lettore e quei canoni di produzione e distribuzione che la cultura occidentale ha stabilito proprio dai tempi dell’Ariosto.


Ma quanto Ariosto c’è in Harry Potter A 500 anni dall’Orlando furioso, le creature mitologiche del poeta italiano rivivono nella saga più celebre della nostra epoca. Grazie alla figura dell’ippogrifoSTEFANO JOSSA Restampa 23 4 2016
Chiunque saprebbe riconoscere un ippogrifo. Anche se non esistono, ormai questi animali sono noti a tutti: la saga di Harry Potter (sia il romanzo che la versione cinematografica) li ha resi così popolari che anche i lettori più snob ammetterebbero a denti stretti di conoscerli. Probabilmente pochi, però, sarebbero in grado di fare un collegamento tra Fierobecco, l’ippogrifo di
Harry Potter che appare per la prima volta ne Il prigioniero di Azkaban, e il suo progenitore, l’ippogrifo inventato dal poeta e commediografo ferrarese Ludovico Ariosto (1474-1533). John Granger, l’esoterico esegeta di Harry Potter, ha ammesso con riluttanza che l’ippogrifo è «la creazione di un poeta di corte italiano del Seicento di nome Ludovico Ariosto, nel suo Orlando furioso ».
Se Granger avesse letto Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, o Il professore va al congresso di David Lodge, o L’incantatrice di Firenze di Salman Rushdie, o ancora l’Angelica Lost and Found di Russell Hoban, non sarebbe stato così sorpreso di trovare Ariosto nel bagaglio culturale di J. K. Rowling. Ariosto è stato una fonte di immaginazione incredibilmente fertile per gli scrittori dei secoli successivi. Il suo poema solleva questioni di genere, identità, alterità, si interroga sulla posizione dell’individuo nel mondo con toni talmente attuali che il grande scrittore ferrarese può essere legittimamente considerato il precursore del romanzo moderno, come Walter Scott non ebbe difficoltà ad ammettere. Eppure, la Rowling non ha mai menzionato Ariosto e l’Orlando furioso.
Le cose sono meno oscure di quanto potrebbe sembrare: è noto che ai tempi in cui studiava all’Università di Exeter Rowling era un’appassionata lettrice di opere epiche, quindi molto probabilmente conosceva Mythology, la raccolta di leggende antiche e medievali di Thomas Bulfinch (1796-1867). Nel terzo volume della collezione i lettori di Bulfinch si imbattono nella descrizione di un ippogrifo: «Era un animale naturale, di una specie che esiste sui monti Rifei. Come un grifone, aveva la testa di un’aquila, le zampe armate di artigli e le ali ricoperte di piume, e il resto del corpo era quello di un cavallo. Questo strano animale viene chiamato ippogrifo» .
È indubbio che Bulfinch attinge le sue informazioni all’Orlando furioso di Ariosto, che descrive l’ippogrifo nel quarto canto: «Non è finto il destrier, ma naturale, ch’una giumenta generò d’un Grifo: simile al padre avea la piuma e l’ale, li piedi anteriori, il capo e il grifo; in tutte l’altre membra parea quale era la madre, e chiamassi ippogrifo; che nei monti Rifei vengon, ma rari, molto di là dagli agghiacciati mari». Tanto più che Bulfinch menziona l’ippogrifo nel capitolo 8, dedicato a Bradamante e Ruggero, uno dei tre filoni principali dell’Orlando furioso, e Ariosto è nominato nel capitolo 1 fra «i principali poeti italiani che hanno cantato le avventure dei paladini di Carlo Magno».
Quello che autorizza i fan della Rowling ad affermare con una certa sicurezza che per le descrizioni dell’ippogrifo l’autrice sia ricorsa a Bulfinch piuttosto che ad Ariosto è che gli ippogrifi di Harry Potter hanno la testa d’aquila e il corpo di cavallo, mentre quello dell’Ariosto ha la testa di un grifone e il corpo di un cavallo. Probabilmente, dunque, Bulfinch è il mediatore letterario fra l’Ariosto e la Rowling, anche se non dovremmo trascurare le interpretazioni grafiche dell’ippogrifo — come quelle di Girolamo da Carpi, Louis-Édouard Rioult, Johann- Peter Krafft e Gustave Doré — e non dovremmo dimenticare nemmeno le mediazioni subliminali, come quella, probabilmente, di J.R.R. Tolkien, le cui opere hanno molto influenzato i libri della Rowling e che C. S. Lewis paragonò ad Ariosto per potenza immaginifica sulla quarta di copertina della prima edizione de La compagnia dell’anello, nel 1954.
L’appropriazione, come è noto, è un aspetto fondamentale dell’arte postmoderna. La Rowling non avrebbe fatto altro che appropriarsi di Ariosto in chiave postmoderna, seguendo le orme di scrittori precedenti che si erano già appropriati di Ariosto in vari modi, come Edmund Spencer, William Shakespeare, John Milton, Walter Scott e Byron. Ma anche Ariosto, in fondo, si è appropriato della tradizione a lui precedente. A partire dal cavallo alato della mitologia greca, Pegaso, di cui si serve Perseo per liberare Andromeda dalle grinfie di un mostro marino. Il paragone è tanto più evidente se si pensa che è proprio cavalcando un ippogrifo che Ruggero libera Angelica, anche lei abbandonata alla mercé di un mostro marino, in questo caso un’orca. Una parola simile a ippogrifi («ippogipi») era presente anche nella Storia vera dello scrittore satirico greco Luciano di Samosata (II sec. a.C.), dove sono uomini in groppa a grandi avvoltoi che usano gli uccelli al posto dei cavalli, una sorta di variante celeste dei centauri. Il fatto che appaiano sulla Luna nell’undicesimo capitolo della Storia vera rende il collegamento con Ariosto ancora più plausibile, dato che è l’ippogrifo a portare Astolfo sulla Luna. Dunque l’intertestualità rowlingiana mostra la letteratura come un tessuto, spesso inconsapevole ma inevitabile, di testi intrecciati fra loro. Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) sognava di sostituire il mondo reale con un mondo di libri, un universo dalle interconnessioni più inesauribili di quello in cui i libri vengono effettivamente scritti: i libri ci rievocherebbero e ci ricorderebbero altri libri in una catena infinita di corrispondenze dove i lettori possono trovare ogni sorta di legame fra loro. Invece di continuare ad aggrapparsi all’idea del genio creativo, un’invenzione del Romanticismo, dovremmo essere consapevoli che tutto il mondo è una ragnatela, e che sono i fili di questa ragnatela a rendere affascinanti le nostre vite. Questa è una lezione che Ariosto ha da insegnarci.
( Traduzione di Fabio Galimberti) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

* IL CONVEGNO Ariosto, the Orlando furioso and English Culture, 1516-2016 è la conferenza che si terrà alla British Academy a Londra il 27 e il 28 aprile Questo è l’estratto del testo scritto da uno degli organizzatori, studioso di Ariosto e docente di italiano alla Royal Holloway University di Londra

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