sabato 21 febbraio 2015

Isis, figlia e strumento del Mondo Libero

L'ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismoPatrick Cockburn: L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, Stampa Alternativa

Risvolto

Una nuova minaccia è nata dopo le vicende fallimentari dell'Iraq e dell'Afghanistan, delle Primavere arabe e della Siria. Nuovi movimenti jihadisti e, in particolare, l'ISIS, sono emersi. Nel corso delle operazioni militari condotte nel giugno 2014 queste nuove organizzazioni si sono dimostrate di gran lunga più efficaci di quanto al-Qaeda sia mai stata, conquistando territori da una parte e dall'altra del confine iracheno, compreso quello della città di Mossul e occupando un territorio grande geograficamente come quello della Gran Bretagna. I resoconti della loro capacità di coordinamento militare e della loro brutalità sono agghiaccianti. Mentre si chiede a gran voce l'instaurazione di un grande Califfato, l'Occidente diventa ancora una volta un obiettivo da colpire, come gli avvenimenti delle ultime settimane si sono affrettati a dimostrare. Com'è possibile che le cose siano andate così male? Patrick Cockburn, direttamente dal terreno dello scontro, ricostruisce le ragioni di questa grande débàcle della politica estera degli Usa e dell'Occidente e l'impatto che esercita su un Medio Oriente instabile e lacerato dalla guerra. 


L’ordine cupo del Califfato 
Stato islamico. Patrick Cockburn, nel suo «L’ascesa dello stato islamico», sfata il mito sull’arcaismo dell’Isis, insistendo sull’uso sapiente dei social network. Lo jihadismo sarebbe incomprensibile senza il ruolo trentennale dell’occidente, da Tangeri alla Cina 

Alessandro Dal Lago, il Manifesto 21.2.2015 

Tutto è comin­ciato con la guerra che Sad­dam Hus­sein, in nome e con i soldi dell’occidente, sca­tenò con­tro l’Iran nel 1981. L’esito del con­flitto, ter­mi­nato nel 1988, non fu solo il raf­for­za­mento dei mul­lah al potere a Tehe­ran, ma la crisi finan­zia­ria dell’Iraq, che, nel 1990 invase il Kuwait, il prin­ci­pale paese cre­di­tore. La guerra del 1991, le san­zioni, l’invasione anglo-americana del 2003, la guer­ri­glia e il con­flitto tra sun­niti e sciiti hanno finito per distrug­gere lo stato ira­cheno, spia­nando la strada all’estremismo sun­nita, ad Al-Qaeda e all’Isis.
L’Iraq rap­pre­senta la prova della fal­li­men­tare stra­te­gia ame­ri­cana nel mondo arabo e isla­mico dopo il 1989. Se Osama bin Laden è stato il risul­tato della rea­zione ame­ri­cana all’invasione russa dell’Afghanistan, il Califfo è la con­se­guenza diretta dell’appoggio dei neo-cons a chiun­que com­bat­tesse i cosid­detti «stati cana­glia», ovvero l’Iraq e la Siria. Le foto­gra­fie del sena­tore Mc Cain accanto ai ribelli siriani, con cui ha avuto diversi incon­tri, spie­gano meglio di qual­siasi ana­lisi una spe­cia­lità della poli­tica ame­ri­cana: allearsi con i pro­pri nemici. D’altronde, è noto che i pila­stri del sistema di alleanze degli Usa, l’Arabia Sau­dita e il Paki­stan, hanno sem­pre fatto il dop­pio gioco. I sau­diti finan­ziano in tutto il mondo i sala­fiti e i ser­vizi segreti pachi­stani appog­giano da sem­pre i tale­bani afghani in fun­zione anti-Kabul. In ultimo, al fronte dei filo-fondamentalisti alleati degli Usa si è aggiunto Erdo­gan, che ha fatto di tutto per sabo­tare la resi­stenza curda nella Siria del nord, men­tre gli ame­ri­cani bom­bar­da­vano l’Isis. 

Una spe­cie di franchising
La cecità stra­te­gica degli Usa è figlia di diversi fat­tori: un’interminabile osses­sione anti-russa, che si è ina­sprita dopo l’era Eltsin, e l’ostilità verso l’Iran (russi e ira­niani hanno sem­pre appog­giato Assad), l’alleanza sto­rica con l’Arabia Sau­dita, gen­darme del petro­lio nel golfo per­sico, lo spo­sta­mento dell’asse glo­bale verso il Paci­fico e soprat­tutto un’assenza di visione gene­rale che si è tra­dotta in una poli­tica ondi­vaga e con­trad­dit­to­ria. Poco prima di accor­gersi che l’Isis è la prin­ci­pale minac­cia nell’area, Gli stati Uniti si pre­pa­ra­vano a bom­bar­dare Assad, insieme a inglesi e fran­cesi, reduci dall’intervento in Libia, pro­ba­bil­mente l’iniziativa più stu­pida e auto-lesionistica di cui gli stati occi­den­tali si siano resi respon­sa­bili negli ultimi decenni.
Tutto ciò con­tri­bui­sce a spie­gare l’ascesa appa­ren­te­mente irre­si­sti­bile dell’Isis, lo Stato isla­mico della Siria e dell’Iraq, che ora si è spinto fino alle coste della Libia e cerca alleanze, in regime di fran­chi­sing, in mezzo mondo, dal Ciad alla Nige­ria di Boko Haram, dal sud della Tuni­sia e dell’Algeria al Sinai e allo Yemen. Come spiega molto bene Patrick Coc­k­burn in L’ascesa dello stato isla­mico. Il ritorno del Jiha­di­smo (Stampa alter­na­tiva, feb­braio 2014), il dila­gare dello jiha­di­smo sarebbe incom­pren­si­bile senza il ruolo tren­ten­nale dell’occidente nei sus­sulti di un mondo che va da Tan­geri alla Cina. Più di altri saggi che stanno uscendo in que­ste set­ti­mane (Dome­nico Qui­rico, Il grande calif­fato, Neri Pozza, e Mau­ri­zio Moli­nari, Il Califfo del ter­rore, Riz­zoli), Coc­k­burn insi­ste sull’implicazione di fat­tori micro e macro nel «sor­pren­dente» suc­cesso del Califfo.
Se l’Isis si nutre di una con­ce­zione medie­vale dell’Islam (peral­tro iden­tica a quella dei sau­diti) ed è capace di ammi­ni­strare bene, come sostiene Moli­nari, cioè di imporre l’ordine asso­luto nel ter­ri­tori con­qui­stati, è anche vero che le armi e i denari neces­sari alla con­qui­sta pro­ven­gono dalla Tur­chia, dal Qatar e dall’Arabia Sau­dita (e indi­ret­ta­mente dall’occidente). Non c’è alcuna mera­vi­glia nel fatto che ira­cheni e siriani, stre­mati da guerre civili inter­mi­na­bili, pre­fe­ri­scano alla morte quo­ti­diana l’ordine cupo ma sta­bile del Califfo. Lo stesso era suc­cesso in Afgha­ni­stan con i tale­bani prima dell’11 set­tem­bre 2001. Ma quello che conta è che il petro­lio ira­cheno e siriano, e i tank e gli Hum­vee desti­nati all’esercito di Bagh­dad, fini­scono nelle mani del Califfo. 

Coreo­gra­fia del terrore
Un altro aspetto deci­sivo dell’analisi di Coc­k­burn è sfa­tare la leg­genda del «pri­mi­ti­vi­smo» dell’Isis. Il fana­ti­smo, le ese­cu­zioni dei pri­gio­nieri, le deca­pi­ta­zioni degli ostaggi, l’applicazione sel­vag­gia della sha­ria sono del tutto com­pa­ti­bili con un uso sapiente dei mezzi di comu­ni­ca­zione, dei video e soprat­tutto dei social net­work. Se i video rac­ca­pric­cianti, imme­dia­ta­mente dif­fusi in tutto il mondo, hanno l’effetto di ter­ro­riz­zare e demo­ti­vare i sol­dati gover­na­tivi e nemici, ira­cheni, siriani e oggi libici, Twit­ter e Face­book sono piat­ta­forme ideali per la pro­pa­ganda e il reclu­ta­mento. I mes­saggi che spin­gono ceceni, tuni­sini, libici e sun­niti di ogni ori­gine (ma anche fran­cesi, inglesi, ame­ri­cani) ad arruo­larsi nell’Isis saranno sem­pli­ci­stici (il sacri­fi­cio di sé in nome di Dio, l’odio per la cor­ru­zione occi­den­tale e per l’erotismo e così via), ma potenti e soprat­tutto effi­caci. Così, con un para­dosso appa­rente, l’occidente offre ai suoi nemici l’impiego della stessa tec­no­lo­gia e degli stessi mezzi di comu­ni­ca­zione. E que­sto vale anche per l’estetica e la coreografia.
Le file di uomini in nero, masche­rati e ano­nimi, che con­du­cono al macello le vit­time a capo chino vestite d’arancione, o le ban­diere nere che gar­ri­scono in cima a una col­lina o sul tetto degli edi­fici, sono uno straor­di­na­rio richiamo per chiun­que cer­chi un’esperienza limite, la trance dell’uccidere e dell’essere uccisi, sia che com­batta nella steppe siriane e ira­chene, sia che s’illuda di farlo nelle strade di una metro­poli europea.
A que­sta capa­cità comu­ni­ca­tiva e visio­na­ria dell’Isis cor­ri­spon­dono in occi­dente la disin­for­ma­zione e la con­fu­sione di desi­deri e realtà. Per mesi, ame­ri­cani ed euro­pei hanno igno­rato ciò che avve­niva tra Siria e Iraq (in sin­tesi, l’unificazione sotto l’Isis di una vasta zona di con­fine). E soprat­tutto hanno cre­duto a quello che desi­de­ra­vano cre­dere, e cioè l’esistenza di un’opposizione siriana laica e filo-occidentale. Que­sta è stata attiva nei primi mesi della rivolta, ma, com­po­sta com’era da intel­let­tuali e ceto medio urbano, non ha mai avuto alcun peso mili­tare. Come ha rico­no­sciuto cini­ca­mente un lea­der Usa, «in mezzo, tra Assad e l’Isis ci sono solo i bot­te­gai». La realtà è che, men­tre in occi­dente si faceva il tifo per un’opposizione che non c’era, l’Isis eli­mi­nava la con­cor­renza, come il Free Syrian Army, e fago­ci­tava al-Nusra e altri gruppi filo-qaedisti.
La sven­ta­tezza delle due coo­pe­ranti ita­liane Greta e Vanessa è ben poca cosa rispetto a quella delle can­cel­le­rie e dell’opinione pub­blica occi­den­tali. Come dice Coc­k­burn, «inten­den­dosi di pro­pa­ganda, hanno ben com­preso che con­ve­niva loro pre­sen­tare le rivolte come sol­le­va­zioni inno­cue, ‘rivo­lu­zioni di vel­luto’ gui­date da un’avanguardia di blog­ger e utenti di twit­ter, anglo­foni e bene­du­cati, per con­vin­cere i cit­ta­dini dei paesi occi­den­tali che i rivo­lu­zio­nari medio­rien­tali fos­sero per­sone in tutto e per tutto simili a loro e che quanto stava acca­dendo nel 2011 fosse un feno­meno simile alle rivolte anti­co­mu­ni­ste e filoc­ci­den­tali esplose nell’Europa orien­tale a par­tire dal 1989». Lo stesso si può dire della Libia. Nel 2011 mi è capi­tato spesso di discu­tere con col­le­ghi e cono­scenti di sini­stra che sper­giu­ra­vano sulla vit­to­ria delle rivo­lu­zio­nai arabe, senza porsi il pro­blema di chi le finan­ziava e soprat­tutto dei rap­porti di forza inter­na­zio­nali. Ho ancora in mente repor­tage di inviati improv­vi­sati ine­briati dall’avanzata dei gio­vani rivol­tosi su Tri­poli, ma che non si chie­de­vano chi avesse for­nito loro blin­dati e mitra­glia­trici pesanti. 

L’antidoto ai vaneggiamenti 
Anche la stampa main­stream ha ali­men­tato ogni tipo di leg­genda, attri­buendo alle truppe di Ghed­dafi orrori che non ave­vano com­messo e tacendo poi pudi­ca­mente sulla spa­ven­tosa fine del dit­ta­tore. Per non par­lare di chi inci­tava alla guerra sulle prime pagine dei quo­ti­diani e oggi tace non avendo alcun­ché da dire sugli svi­luppi recenti, se non ripro­porre le solite gia­cu­la­to­rie sulla rimo­zione della guerra in occi­dente. Il libro di Coc­k­burn fa giu­sti­zia della bolla di disin­for­ma­zione, pre­giu­dizi ideo­lo­gici e dilet­tan­ti­smo che ha avvolto da noi la cono­scenza delle guerre in Libia e in Siria, non­ché l’ascesa dell’Isis.
L’autore, già cor­ri­spon­dente del Finan­cial Times e poi di The Inde­pen­dent, dimo­stra che si può fare ottimo gior­na­li­smo senza ricor­rere al facile colore del san­gue e del maca­bro, che pure abbon­dano in que­sta vicenda, e senza con­for­marsi all’opinione domi­nante. La let­tura del suo libro è un anti­doto alle scioc­chezze che si sono lette in que­sti ultimi anni. Invece di vaneg­giare su guerre da com­bat­tere in Libia, i nostri mini­stri fareb­bero bene a dar­gli un’occhiata.

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