L’Iraq rappresenta la prova della fallimentare strategia americana nel mondo arabo e islamico dopo il 1989. Se Osama bin Laden è stato il risultato della reazione americana all’invasione russa dell’Afghanistan, il Califfo è la conseguenza diretta dell’appoggio dei neo-cons a chiunque combattesse i cosiddetti «stati canaglia», ovvero l’Iraq e la Siria. Le fotografie del senatore Mc Cain accanto ai ribelli siriani, con cui ha avuto diversi incontri, spiegano meglio di qualsiasi analisi una specialità della politica americana: allearsi con i propri nemici. D’altronde, è noto che i pilastri del sistema di alleanze degli Usa, l’Arabia Saudita e il Pakistan, hanno sempre fatto il doppio gioco. I sauditi finanziano in tutto il mondo i salafiti e i servizi segreti pachistani appoggiano da sempre i talebani afghani in funzione anti-Kabul. In ultimo, al fronte dei filo-fondamentalisti alleati degli Usa si è aggiunto Erdogan, che ha fatto di tutto per sabotare la resistenza curda nella Siria del nord, mentre gli americani bombardavano l’Isis.
Una specie di franchising
La cecità strategica degli Usa è figlia di diversi fattori: un’interminabile ossessione anti-russa, che si è inasprita dopo l’era Eltsin, e l’ostilità verso l’Iran (russi e iraniani hanno sempre appoggiato Assad), l’alleanza storica con l’Arabia Saudita, gendarme del petrolio nel golfo persico, lo spostamento dell’asse globale verso il Pacifico e soprattutto un’assenza di visione generale che si è tradotta in una politica ondivaga e contraddittoria. Poco prima di accorgersi che l’Isis è la principale minaccia nell’area, Gli stati Uniti si preparavano a bombardare Assad, insieme a inglesi e francesi, reduci dall’intervento in Libia, probabilmente l’iniziativa più stupida e auto-lesionistica di cui gli stati occidentali si siano resi responsabili negli ultimi decenni.
Tutto ciò contribuisce a spiegare l’ascesa apparentemente irresistibile dell’Isis, lo Stato islamico della Siria e dell’Iraq, che ora si è spinto fino alle coste della Libia e cerca alleanze, in regime di franchising, in mezzo mondo, dal Ciad alla Nigeria di Boko Haram, dal sud della Tunisia e dell’Algeria al Sinai e allo Yemen. Come spiega molto bene Patrick Cockburn in L’ascesa dello stato islamico. Il ritorno del Jihadismo (Stampa alternativa, febbraio 2014), il dilagare dello jihadismo sarebbe incomprensibile senza il ruolo trentennale dell’occidente nei sussulti di un mondo che va da Tangeri alla Cina. Più di altri saggi che stanno uscendo in queste settimane (Domenico Quirico, Il grande califfato, Neri Pozza, e Maurizio Molinari, Il Califfo del terrore, Rizzoli), Cockburn insiste sull’implicazione di fattori micro e macro nel «sorprendente» successo del Califfo.
Se l’Isis si nutre di una concezione medievale dell’Islam (peraltro identica a quella dei sauditi) ed è capace di amministrare bene, come sostiene Molinari, cioè di imporre l’ordine assoluto nel territori conquistati, è anche vero che le armi e i denari necessari alla conquista provengono dalla Turchia, dal Qatar e dall’Arabia Saudita (e indirettamente dall’occidente). Non c’è alcuna meraviglia nel fatto che iracheni e siriani, stremati da guerre civili interminabili, preferiscano alla morte quotidiana l’ordine cupo ma stabile del Califfo. Lo stesso era successo in Afghanistan con i talebani prima dell’11 settembre 2001. Ma quello che conta è che il petrolio iracheno e siriano, e i tank e gli Humvee destinati all’esercito di Baghdad, finiscono nelle mani del Califfo.
Coreografia del terrore
Un altro aspetto decisivo dell’analisi di Cockburn è sfatare la leggenda del «primitivismo» dell’Isis. Il fanatismo, le esecuzioni dei prigionieri, le decapitazioni degli ostaggi, l’applicazione selvaggia della sharia sono del tutto compatibili con un uso sapiente dei mezzi di comunicazione, dei video e soprattutto dei social network. Se i video raccapriccianti, immediatamente diffusi in tutto il mondo, hanno l’effetto di terrorizzare e demotivare i soldati governativi e nemici, iracheni, siriani e oggi libici, Twitter e Facebook sono piattaforme ideali per la propaganda e il reclutamento. I messaggi che spingono ceceni, tunisini, libici e sunniti di ogni origine (ma anche francesi, inglesi, americani) ad arruolarsi nell’Isis saranno semplicistici (il sacrificio di sé in nome di Dio, l’odio per la corruzione occidentale e per l’erotismo e così via), ma potenti e soprattutto efficaci. Così, con un paradosso apparente, l’occidente offre ai suoi nemici l’impiego della stessa tecnologia e degli stessi mezzi di comunicazione. E questo vale anche per l’estetica e la coreografia.
Le file di uomini in nero, mascherati e anonimi, che conducono al macello le vittime a capo chino vestite d’arancione, o le bandiere nere che garriscono in cima a una collina o sul tetto degli edifici, sono uno straordinario richiamo per chiunque cerchi un’esperienza limite, la trance dell’uccidere e dell’essere uccisi, sia che combatta nella steppe siriane e irachene, sia che s’illuda di farlo nelle strade di una metropoli europea.
A questa capacità comunicativa e visionaria dell’Isis corrispondono in occidente la disinformazione e la confusione di desideri e realtà. Per mesi, americani ed europei hanno ignorato ciò che avveniva tra Siria e Iraq (in sintesi, l’unificazione sotto l’Isis di una vasta zona di confine). E soprattutto hanno creduto a quello che desideravano credere, e cioè l’esistenza di un’opposizione siriana laica e filo-occidentale. Questa è stata attiva nei primi mesi della rivolta, ma, composta com’era da intellettuali e ceto medio urbano, non ha mai avuto alcun peso militare. Come ha riconosciuto cinicamente un leader Usa, «in mezzo, tra Assad e l’Isis ci sono solo i bottegai». La realtà è che, mentre in occidente si faceva il tifo per un’opposizione che non c’era, l’Isis eliminava la concorrenza, come il Free Syrian Army, e fagocitava al-Nusra e altri gruppi filo-qaedisti.
La sventatezza delle due cooperanti italiane Greta e Vanessa è ben poca cosa rispetto a quella delle cancellerie e dell’opinione pubblica occidentali. Come dice Cockburn, «intendendosi di propaganda, hanno ben compreso che conveniva loro presentare le rivolte come sollevazioni innocue, ‘rivoluzioni di velluto’ guidate da un’avanguardia di blogger e utenti di twitter, anglofoni e beneducati, per convincere i cittadini dei paesi occidentali che i rivoluzionari mediorientali fossero persone in tutto e per tutto simili a loro e che quanto stava accadendo nel 2011 fosse un fenomeno simile alle rivolte anticomuniste e filoccidentali esplose nell’Europa orientale a partire dal 1989». Lo stesso si può dire della Libia. Nel 2011 mi è capitato spesso di discutere con colleghi e conoscenti di sinistra che spergiuravano sulla vittoria delle rivoluzionai arabe, senza porsi il problema di chi le finanziava e soprattutto dei rapporti di forza internazionali. Ho ancora in mente reportage di inviati improvvisati inebriati dall’avanzata dei giovani rivoltosi su Tripoli, ma che non si chiedevano chi avesse fornito loro blindati e mitragliatrici pesanti.
L’antidoto ai vaneggiamenti
Anche la stampa mainstream ha alimentato ogni tipo di leggenda, attribuendo alle truppe di Gheddafi orrori che non avevano commesso e tacendo poi pudicamente sulla spaventosa fine del dittatore. Per non parlare di chi incitava alla guerra sulle prime pagine dei quotidiani e oggi tace non avendo alcunché da dire sugli sviluppi recenti, se non riproporre le solite giaculatorie sulla rimozione della guerra in occidente. Il libro di Cockburn fa giustizia della bolla di disinformazione, pregiudizi ideologici e dilettantismo che ha avvolto da noi la conoscenza delle guerre in Libia e in Siria, nonché l’ascesa dell’Isis.
L’autore, già corrispondente del Financial Times e poi di The Independent, dimostra che si può fare ottimo giornalismo senza ricorrere al facile colore del sangue e del macabro, che pure abbondano in questa vicenda, e senza conformarsi all’opinione dominante. La lettura del suo libro è un antidoto alle sciocchezze che si sono lette in questi ultimi anni. Invece di vaneggiare su guerre da combattere in Libia, i nostri ministri farebbero bene a dargli un’occhiata.
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