I rapporti fra maestri e allievi non sono mai lineari, e la gestione di un’eredità intellettuale è spesso materia molto delicata: si espone all’appropriazione come alla celebrazione univoca — in entrambi i casi un tradimento delle intenzioni originarie. Proprio per questa ragione di recupero «attivo» e non banale di pensatori del passato recente Feltrinelli ha lanciato una nuova collana dal titolo «Eredi», a cura di Massimo Recalcati: che Carlo Sini inaugura con un breve e intenso ritratto del suo maestro, uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento — Enzo Paci.
sabato 21 febbraio 2015
Carlo Sini ricorda Enzo Paci
Risvolto
Come si definisce l’eredità nel campo del pensiero e della filosofia?
Qual è il lascito ideale di uno dei più importanti filosofi italiani del
secolo scorso come Enzo Paci? Il rapporto tra maestro e allievo rivive
nel ricordo dell’erede Carlo Sini, per il quale Enzo Paci (1911-1976) è
stato uno dei più significativi e originali filosofi italiani della
seconda metà del Novecento. Allievo di Antonio Banfi, ha insegnato nelle
Università di Pavia e di Milano. Già nei primi anni quaranta si
segnalò, con Luigi Pareyson e Nicola Abbagnano, come protagonista
dell’esistenzialismo italiano. Seguì la fase del “relazionismo” con la
fondazione della rivista “aut aut” nella quale la filosofia dialogava a
tutto campo con l’arte, la letteratura, l’architettura, la scienza,
l’economia. Fu allora che Paci ripropose la fenomenologia husserliana
come filosofia guida del nostro tempo, coniugandola negli anni sessanta
con il marxismo umanistico, in collaborazione con Jean-Paul Sartre e
Maurice Merleau-Ponty. In questa fase, culminata con la pubblicazione
del capolavoro di Paci (Funzione delle scienze e significato dell’uomo,
del 1963), si colloca la collaborazione di Carlo Sini, allievo e
assistente di Paci alla Statale di Milano e poi suo successore dal 1976.
Sini in questo libro ripercorre, sul filo della memoria, il suo
rapporto con il maestro e con l’eredità culturale e umana che ne è
derivata.
Il nulla ci distrugge, non arrendiamoci alla crisi
L’allievo Sini racconta il padre della fenomenologia italiana dall’esistenzialismo al Marx “corretto” con Husserl
Giorgio Fontana Tuttolibri 21 2 2015
I rapporti fra maestri e allievi non sono mai lineari, e la gestione di un’eredità intellettuale è spesso materia molto delicata: si espone all’appropriazione come alla celebrazione univoca — in entrambi i casi un tradimento delle intenzioni originarie. Proprio per questa ragione di recupero «attivo» e non banale di pensatori del passato recente Feltrinelli ha lanciato una nuova collana dal titolo «Eredi», a cura di Massimo Recalcati: che Carlo Sini inaugura con un breve e intenso ritratto del suo maestro, uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento — Enzo Paci.
I rapporti fra maestri e allievi non sono mai lineari, e la gestione di un’eredità intellettuale è spesso materia molto delicata: si espone all’appropriazione come alla celebrazione univoca — in entrambi i casi un tradimento delle intenzioni originarie. Proprio per questa ragione di recupero «attivo» e non banale di pensatori del passato recente Feltrinelli ha lanciato una nuova collana dal titolo «Eredi», a cura di Massimo Recalcati: che Carlo Sini inaugura con un breve e intenso ritratto del suo maestro, uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento — Enzo Paci.
Sini conobbe Paci dal 1957, in occasione della sua tesi di laurea. Da allora non si lasciarono più, a parte un distacco negli ultimi anni di vita del maestro. Sfilano così davanti ai nostri occhi gli esordi di Paci e il suo contatto con l’esistenzialismo, il rapporto con Benedetto Croce, l’amicizia con Sartre e con Ricoeur (che aveva conosciuto, dettaglio che pochi ricordano, durante la prigionia nel campo nazista di Wietzendorf). Sfila la straordinaria avventura intellettuale della rivista Aut Aut, fondata nel 1951 con l’intento di riportare la filosofia al suo antico ruolo di sapere «aperto e sintetico, critico e discutivo», verso una «reale democrazia del sapere». (Ad Aut Aut contribuirono nomi come Carlo Bo, Gillo Dorfles, Eugenio Garin, André Gide, Massimo Mila, Elio Vittorini, Mario dal Pra e tanti altri). Sfila la collaborazione con il Saggiatore, la casa editrice fondata da Alberto Mondadori, e l’impegno per la diffusione del pensiero fenomenologico — che ormai era divenuto «di moda» nei circoli borghesi di Milano, non senza destare critiche e perplessità nell’ambiente accademico.
Sini ricorda poi il rapporto di Paci con il ’68, il suo sostegno alla contestazione giovanile — comprensivo di presenze ad assemblee e manifestazioni — perché «non si può insegnare per anni la necessità di una profonda rivoluzione storico-politica della società e poi tirarsi indietro quando gli studenti ti dicono: Bene, ci hai convinto, ma adesso che si fa?» Molte pagine, in tal senso, sono dedicate all’opera paciana su Carlo Cattaneo e al suo tentativo di fondere fenomenologia e filosofia comunista, «correggendo» Marx con Husserl. (Uno dei pregi del libro è che non si perde in tecnicismi: l’esposizione del pensiero di Paci è sempre fruibile, anche se comprensibilmente essenziale).
Molto interessanti, specie per il lettore più giovane, anche le rievocazioni del sistema universitario dell’epoca; la distanza «massima e minima» insieme che si misurava tra docente e alunni. Massima, perché il professore godeva di un alone di autorità assoluta: eppure anche minima, vista la bassa affluenza di matricole (appena una decina all’anno!) e la possibilità di avere spesso dei contatti o entrare a far parte di veri e propri cenacoli intellettuali. Si può obiettare a Sini un’eccessiva indulgenza per anni che certamente furono straordinari per lo sviluppo del pensiero, ma che ancora restavano legati a rapporti molto rigidi. In ogni caso, questi cenni nostalgici non inquinano la compostezza del testo.
Nel complesso, l’autore dipinge il «suo» Paci attraverso le lenti affettuose ma non adoranti del discepolo, sottolineandone la grande disponibilità ma soprattutto l’assoluta dedizione alla ricerca e la passione per un pensiero problematico, in eterno divenire: rimase fino alla fine «un uomo che avrebbe continuato a fare filosofia anche all’inferno ,se ci fosse transitato».
E allora forse un buon modo — il più propositivo, il meno retorico — per ricordare Enzo Paci è rileggere alcune righe della sua tesi di laurea, trascritte dallo stesso Sini. Il ventisettenne Paci, alle prese con il Parmenide di Platone, fa uno scarto rispetto alla pura materia tecnica e propone a una considerazione estremamente attuale: «il nulla, il non essere, l’opposizione distruggitrice di tutti gli aspetti della vita e del pensiero, hanno invaso e stanno invadendo la filosofia europea. Non chiudiamo gli occhi, ma cerchiamo di “vivere” questa crisi, oltrepassandola, rendendola positiva e creatrice. Sarà ciò che di più grande potremo fare se riusciremo, e sarà, in un certo senso, la missione della nostra epoca».
Enzo Paci, il caldo romanzo di una prassi teorica
«Una volta il bidello interruppe il professore a metà lezione: fatto eccezionale e anzi unico. Porse un telegramma. Paci, preoccupato, disse: “Scusate” e lo aprì. Uno sguardo e una gran risata. “È del ministro”, ci confidò sollevando le spalle e guardandoci di sottecchi, mente lo riponeva nella borsa. Era la convocazione per un concorso di cui Paci era commissario. Tutta l’aula 111 rise con lui. La lezione riprese come se nulla fosse avvenuto. Io ricordo di aver amato paci in quel momento come forse mai più. Sentivo o immaginavo di avere, davanti agli occhi, l’incarnazione perfetta di che cosa è un filosofo e di che cosa è l’università, questo luogo di libertà e di indipendenza assolute, un esempio eloquente di quali sono le cose serie e importanti rispetto al potere, alle istituzioni, al mondo esterno, rispetto al diavolo e al buon dio». Tante sono state le biografie dei filosofi, ed ognuna ha rivelato l’impossibilità di restituire «la complessità indescrivibile e incircoscrivibile della vita reale». Specie se, come in questo caso (Carlo Sini, Enzo Paci, Feltrinelli, pp. 143, 14 euro), subentra imperioso anche il ricordo personale, l’ammirazione, la riconoscenza e l’affetto per un «maestro» che ha plasmato come pochi altri il nostro vissuto. Tanto quello interiore quanto quello esteriore. Carlo Sini confessa subito il suo punto di vista inevitabilmente parziale e soggettivo, quasi imbarazzato di fronte all’incommensurabilità di ciò che si è proposto di raccontare: una vita umana. Quella del proprio maestro, Enzo Paci, tra le figure più eminenti della filosofia del XX secolo. Di fronte a un compito così immane, in cui le questioni filosofiche si intrecciano con quelle affettive per confondere sapientemente l’animo di chi scrive, a Sini è tornato in mente il suo amato Peirce, che affermava che il significato di una vita (anche la propria) è affidato all’interpretazione degli altri, cioè «alla fatale e inevitabile parzialità e ingiustizia del loro ricordo, alla limitazione strutturale di un punto di vista sempre esclusivamente soggettivo».
L’amato e temuto maestro
Paradossalmente, su questo piano, può risultare più oggettiva la narrativa della finzione, il personaggio di un romanzo più di una persona in carne ed ossa. In fondo il primo nasce dall’immaginazione onnipotente dell’autore, mentre il secondo porta dentro di sé un mondo e con un intero mondo è destinato e entrare in una relazione straordinariamente complessa e imponderabile: «Ogni vita che finisce porta con sé un mondo, personale e irripetibile, con i suoi personaggi, le sue verità, le sue emozioni e i suoi ricordi», annota Sini. Quello dell’autore nei confronti dell’amato (e temuto) maestro è lo stesso pudore che mostrava Platone nel raccontare gli aspetti più personali di Socrate. Lasciando per esempio ad Alcibiade, nel Convito, il compito di descrivere Socrate come insensibile al freddo e alle fatiche, coraggioso, umile e padrone di sé anche quando l’esercito era allo sbando. Non è dato sapere con certezza se Platone esagerasse nel magnificare la figura dell’amato maestro. Certamente non è il caso di Sini, che con penna amorevole ma decisa non omette il carattere freddo e distante, a volte brusco di Enzo Paci (almeno con i propri allievi). Sini conobbe Paci nel 1957, quando questi iniziò le lezioni di filosofia teoretica alla statale di Milano. Questa diventa l’occasione per ricordare un mondo universitario dalla duplice facciata. Molto diverso da quello di oggi, per gli studenti, ai quali era concesso un rapporto più diretto e informato con i docenti. Identico a quello odierno per quanto riguarda questi ultimi e i loro ricercatori, in continua «aspirazione ossessiva» ad ottenere l’agognata vittoria di un concorso a cattedra. Naturalmente in seguito a guerre epocali ed equilibri di potere sapientemente gestiti dai «baroni», in un contesto di ipertrofia gerarchizzante e umiliazione del merito tipici del nostro paese e che l’autore, divenuto barone a sua volta, si guarda bene dal denunciare fra le tristi peculiarità del sistema italico. Il libro è scritto con un registro al tempo stesso rimembrante e cronachistico, semmai col limite di fornire, spesso e volentieri, l’impressione che l’autore parli più di se stesso che del suo maestro che dà il titolo all’opera. Proprio l’inusuale, e tutto sommato felice, fusione di questi due registri consente di ripercorrere in maniera originale e chiara alcune delle più significative vicende culturali del Novecento italiano. Come per esempio la nascita di «aut-aut», nel 1951, con l’idea grandiosa (e oggi sonoramente sconfitta, scrive Sini) di riscoprire la filosofia quale scientia scientiarum, ossia disciplina aperta al dialogo e allo scambio con gli ambiti più vari e fertili.
Un disastro annunciato
O anche la grande stagione della fenomenologia, di cui Paci divenne uno dei rappresentanti più significativi nel mondo, quando si trattava di integrare Marx con Husserl, ma anche, in maniera più accessoria, di combattere la già nascente epopea della filosofia come «prodotto» modaiolo e buono per alimentare le polemiche sui giornali. Fenomeno, sia detto per inciso, che oggi ha finito per trionfare, «schizofrenizzando» la filosofia tra chi la studia nelle torri eburnee e inaccessibili di un’università chiusa in se stessa, e chi la vende (o meglio svende) su giornali e siti sostanzialmente ad uso proprio. Rimane qualche spazio per una gustosa polemica contro i filosofi recensori di libri (pronti a stroncare in seguito alla mancata comparsa del proprio nome negli indici), nonché per un giudizio benevolo sul Sessantotto («ultima espressione culturale nata e cresciuta entro l’università»), la cui degenerazione e sconfitta ha prodotto il disastro della «mezza cultura» sotto gli occhi di tutti. Le ultime pagine lasciano spazio al registro struggente degli ultimi giorni di vita di Paci, che Sini ricorda con passione analitica proponendosi di tornare un’ultima volta a visitare i luoghi natali del maestro. Là dove è iniziato tutto l’inenarrabile narrato nel libro.
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