domenica 15 febbraio 2015

Il buffone di guerra e nessuno che abbia il coraggio di andare a vedere le carte


Ormai soltanto un Silvio ci può salvare, purtroppo  [SGA].


Renzi pressa l’Onu: “Pronti a guidare un’operazione militare”
di Alberto D’Argenio Repubblica 15.2.15

ROMA I CONTATTI con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono già partiti. L’Italia a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna ha detto di essere pronta a guidare un’azione militare in Libia. Ovviamente sotto l’egida dell’Onu. Ma il tempo stringe e se al momento, almeno per il governo, la situazione sul terreno con l’avanzata dell’Is fino a Sirte non sembra del tutto compromessa, Roma vorrebbe agire al più presto. Magari entro la fine di febbraio, anche se i tempi al Palazzo di Vetro sembrano ben più lunghi.
Il premier Matteo Renzi ha lanciato l’offensiva libica in prima persona giovedì notte al Consiglio europeo di Bruxelles. «È una crisi importante e drammatica come quella ucraina», è stata la tesi del presidente del Consiglio, più sensibile dei partner nordeuropei allo scacchiere nordafricano, per spronare i colleghi a non perdere altro tempo per contrastare il caos libico. Uno scenario di guerra a poche miglia dalle coste europee, la possibilità di uno Stato islamico di fronte a casa, la totale perdita di controllo sui flussi di immigrati con conseguente tragedia umanitaria nel Canale di Sicilia. E il premier di fronte ai partner dell’Unione ha formalizzato la disponibilità italiana «a intervenire in Libia in presenza di un mandato delle Nazioni Unite».
Il governo italiano chiede il via libera del Palazzo di Vetro innanzitutto a quello che il premier definisce «un mandato diplomatico ». Significa prendere la leadership dei negoziati con le diverse tribù e fazioni libiche che si contendono il controllo di Tripoli finora guidati dallo spagnolo Bernardino León, inviato speciale delle Nazioni Unite i cui sforzi — peraltro appoggiati da Roma e da Lady Pesc Federica Mogherini — non sembrano in grado di sbloccare la situazione. Ma l’Italia, ha spiegato Renzi agli interlocutori internazionali, è più che disponibile a fare di più: «Siamo pronti anche a ricevere un mandato più concreto», ossia militare. Già, Roma per arginare il caos libico è pronta anche a guidare, mettendoci uomini e mezzi, una missione di interposizione tra le diverse parti in causa in Libia sul modello di Unifil in Libano. Ma le condizioni devono permetterlo, per un’azione di peacekeeping serve un difficile accordo preliminare tra i combattenti sul campo e un governo di unità nazionale, che al momento sembra lontano dal poter arrivare. Ecco la ragione per cui Roma vorrebbe prendere in mano i negoziati. Senza un accordo sul campo, invece, il governo avrebbe difficoltà a trovare il via libera del Consiglio di sicurezza ad un’azione di peace-enforcing, un’operazione di combattimento pura per ristabilire la pace che probabilmente non è nemmeno pronto a mettere in piedi. Ad ogni modo, guardando al più classico peacekeeping, «in tutti i contatti — racconta Renzi ai collaboratori con in quali esamina lo scacchiere libico — i partner internazionali dicono che l’Italia guiderà l’operazione dell’Onu ». L’Italia d’altra parte ha una presenza unica a Tripoli, la nostra è la sola ambasciata ancora aperta nella capitale libica e poi c’è la storica presenza di Eni sul terreno. E il governo è già al lavoro con contatti sul campo, visto che il piano di Renzi e Gentiloni in caso di missione Onu è quello «di coinvolgere i libici», o almeno alcune fazioni.
Ma il timore è che la risoluzione delle Nazioni Unite non arrivi entro la fine del mese di febbraio, mentre Roma ha fretta di mettere fine all’anarchia libica. Tuttavia l’analisi del governo non è ancora drammatica, non è da punto di non ritorno visto che per gli esperti del premier «nonostante l’avanzata dell’Is il quadro non è peggiorato in modo drammatico, la situazione è ancora relativamente stabile». Così come, per quanto sul fronte della sicurezza ci sia preoccupazione, da Palazzo Chigi e dal Viminale dopo le minacce dell’Is al ministro Paolo Gentiloni e al Paese l’allerta nelle ultime ore non è cresciuta: «Le cose — spiegano — non sono cambiate, per quanto la situazione sia delicata, il livello di allarme in questo momento non è aumentato».
Dunque lo scoglio, dal punto di vista del governo, ora è quello di accelerare i lavori al Palazzo di Vetro per avere quella risoluzione che l’Italia sta sollecitando dall’esterno del Consiglio di Sicurezza. Già, rassicurava i partner politici Renzi, «perché senza un mandato Onu non possiamo fare alcun passo». Sarebbe vietato dalla Costituzione e comunque al primo incidente sul terreno in patria si verificherebbe un vero e proprio uragano politico.



I nuovi tamburi di guerra e i tagli alle spese militari

di Danilo Taino Corriere 15.2.15

La settimana scorsa, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tra i presidenti, i ministri, i diplomatici e gli esperti di relazioni internazionali presenti, nessuno ha messo in dubbio il concetto al cuore della riunione: l’ordine geopolitico internazionale sta crollando. E l’Europa è uno dei maggiori punti critici di questo collasso: il conflitto in Ucraina dice che l’idea di una pace garantita e fuori discussione, nata con la fine della Guerra Fredda, 25 anni dopo si sta sbriciolando. Come ha sostenuto poco tempo fa l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, «dopo decenni in cui troppe persone hanno dato la pace per garantita, ora è il potere delle armi che sta dettando la forza nell’immediato vicinato europeo». 
Già, le armi. Sotto l’influenza di questa idea e sotto la pressione di ridurre le spese, tra la metà degli anni Novanta e oggi il numero delle piattaforme di Difesa in Europa si è ridotto sostanzialmente. Secondo l’International institute of strategic studies (Iiss), nel 1995 i veicoli da combattimento armati della fanteria erano 11.203 , oggi sono 7.460 . L’artiglieria, sempre nello stesso periodo, è passata da 39.556 pezzi a 22.441 . I sottomarini da 141 a 78 . Le portaerei da 17 nel 1995 a 21 nel 2005 per poi scendere a 18 oggi. L’aviazione tattica si è ridotta, nei vent’anni, da 5.418 aerei a 2.486 . Il numero dei carri armati da combattimento è addirittura crollato del 69% , da 22.049 a 6.924 : in Italia, per dire, da 1.077 a 160 ; in Germania da 2.695 a 410 ; in Francia da 1.016 a 200 . In parallelo, anche la presenza americana in Europa è crollata: da 326.400 militari di tutte le forze nel 1989 a 66.200 oggi; da dieci a zero brigate pesanti, da 28 a sei squadroni tattici d’aviazione, da cinquemila a 29 carri armati, da 279 a 48 elicotteri d’attacco e via dicendo. 
Tra il 2010 e il 2014 — si è detto ancora alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, uno degli appuntamenti annuali più importanti del mondo sul tema — le spese per la Difesa sono calate del 18,4% nell’Europa del Sud, del 2,6% in quella centrale mentre sono aumentate del 4% nell’Europa del Nord. 
In un’epoca di pace garantita, le riduzioni oltre che ovvie sarebbero benvenute, da festeggiare. In un’epoca in cui si tornano a sentire i rumori di guerra, tutto andrà rivisto. Nel 2013 , uno studio della McKinsey calcolava che mettendo in comune anche solo gli appalti l’Europa risparmierebbe 13 miliardi all’anno, utilizzabili per rafforzarsi: un primo passo in un mondo più pericoloso


Lo storico Del Boca Non perdonerò mai Napolitano per aver avallato quella guerra”
intervista di Giampiero Gramaglia il Fatto 15.2.15
“È pazzesco pensare che si possa intervenire in Libia, sia pure nell’ambito di una missione dell’Onu”, che, comunque, nessuno ha ancora deciso, ammesso che lo sia mai. “È un’idea terribile, anche se non mi meraviglia, visto che Renzi e Gentiloni sono personaggi di quinto livello che non sanno nulla... Laggiù, ci sono tante armi da distruggere il Paese, Gheddafi aveva costituito arsenali immensi e micidiali”. Angelo del Boca, scrittore, giornalista, storico, è il maggiore conoscitore italiano della Libia: denunciò per primo le atrocità italiane durante la conquista e la colonizzazione, come pure in Etiopia, anche con i bombardamenti su centri abitati e l’uso dei gas, campi di concentramento e deportazioni. Partigiano non ancora ventenne, sta per pubblicare E la notte ci guidano le stelle, sulla guerra alla macchia contro i nazisti. Le sortite interventiste sulla Libia del premier e del ministro degli esteri, “persone – dice – che non hanno una cultura sufficiente”, lo lasciano sbalordito. “La Libia è allo sbando, che almeno 140 gruppi se ne contendono il territorio, si sono divisi il potere e i depositi di petrolio... L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato il tribalismo, sono scomparsi i confini amministrativi, si è tornati indietro di due secoli, a prima dell’Impero Ottomano”.

Allora, contribuire al rovesciamento di Gheddafi fu un errore?
Io conoscevo Gheddafi, come prima avevo conosciuto re Idris…. Certo, era un dittatore, ma lo abbiamo deposto partecipando a una guerra che serviva soltanto alla Francia, anzi a Sarkozy... E farlo cadere così, senza alternative, è stato un errore, perché lui almeno faceva da cintura contro l’estremismo. Mi ha sempre colpito, e non glielo perdonerò mai, che l’ex presidente Napolitano abbia avallato quell’intervento armato, infrangendo la Costituzione”.
È possibile che la Libia torni a essere un’entità statale?
Non si può riportare la Libia allo stato di prima: le armi sono ovunque e finiscono nelle mani di chiunque, hanno alimentato i conflitti nel Mali e nel Ciad… Ci vorrebbe un intervento di pace insieme dell’Onu e dell’Unione africana, con l’accordo dei due attuali parlamenti, cioè quello integralista di Tripoli e quello elettivo di Tobruk.
L’irrompere sulla scena degli jihadisti può favorire il dialogo fra i due parlamenti, che, per ora, si parlano solo per interposta persona, l’inviato Onu Bernardino Leon
È difficile dirlo: è vero che c’è un terzo ingombro che s’affaccia, ma è anche vero che la situazione è un disastro. E Leon non ha poteri, è un po’ come Federica Mogherini nell’Ue, che dice che l’Europa è pronta a impegnarsi, ma non sa che cosa fare. In questo momento, non si può fare nulla: o scendi in campo sapendo che ci saranno decine di migliaia di morti o non fai nulla.

Lo storico Angelo Del Boca “Torneremo nel paese ma dobbiamo lavorare per la ricostruzione”
Da ex potenza coloniale abbiamo precisi doveri. Già fatti troppi danniintervista di Giampaolo Cadalanu Repubblica 15.2.15

NO, non è un addio. Torneremo, prima o poi. Angelo Del Boca non è ottimista sul futuro della Libia, ma crede che la partenza degli italiani sia solo provvisoria. A meno di quattro mesi dal suo novantesimo compleanno, il massimo storico del colonialismo nostrano può vantare uno sguardo fra i più lucidi sulle regioni teatro delle avventure imperiali fasciste.
Professore, con la partenza degli ultimi italiani dalla Libia, è la fine di una fase storica?
«Ma no, è solo una misura di sicurezza obbligata. Credo che chiuderà anche l’ambasciata, non c’è più la garanzia di una protezione».
Lei non vede un valore evocativo in questo esodo?
«Guardi, in Libia gli italiani rimasti erano pochissimi. Non ci sono più i grandi lavori, le imprese hanno sgomberato da tempo».
Che dice, torneremo?
«È già successo, più di una volta».
Ma torneremo con le uniformi militari?
«Spero proprio di no, guai se fosse così».
L’Italia può avere un ruolo reale nel cercare una soluzione?
«Nei giorni scorsi ho firmato assieme ad Alex Zanotelli un appello perché l’impegno dell’Italia, come ex potenza coloniale, non sia quello di preparare un intervento militare — da quelle parti, fra l’altro, abbiamo sempre fatto una pessima figura — ma di portare i libici al tavolo di pace, con le altre nazioni europee, con l’Unione africana e con le Nazioni Unite. La popolazione ha già sofferto abbastanza per poter affrontare un’altra guerra».
E questo obiettivo diplomatico è alla portata del nostro Paese?
«Ci vorrebbe una classe politica con la capacità di vedere e capire gli ultimi anni della nostra Storia. Una classe politica all’altezza, diversa da quella che abbiamo».
Finirà che rimpiangeremo i tempi di Gheddafi?
«Qualcuno pensa di sì. S’intende che stiamo parlando del Gheddafi uomo politico che aveva tante qualità, non il dittatore che fino agli anni Settanta e Ottanta inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della morte. Dopo il bombardamento di Tripoli aveva cambiato le sue strategie. Aveva fatto un lavoro intelligente, realizzando una specie di cintura di protezione attorno alla Libia e all’Africa settentrionale, proprio pensando all’integralismo islamico. Personalmente, non ho mai avuto stima di Berlusconi, ma credo che il famoso patto che lui firmò con Gheddafi fosse una buona idea. Era un accordo politico e militare che noi abbiamo bistrattato, anche grazie all’assenso del presidente Napolitano, che ha permesso la guerra ignorando la Costituzione. Probabilmente anche oggi avrebbe bloccato gli integralisti, e non sarebbe stata la prima volta. Ovviamente avrebbe riempito le carceri, avrebbe usato il pugno di ferro, come la volta che per domare la rivolta di Bengasi coinvolse Esercito, Marina e Aviazione. D’altronde in Occidente dava fastidio la sua idea di raccogliere diversi Stati africani in una federazione, perché potessero trattare alla pari con le potenze mondiali».
Come vede la situazione libica in questi giorni?
«È molto grave: ai due governi che si contendono il paese, quello di Tripoli e quello di Tobruk, adesso si è aggiunto il Califfato, che rende tutto più complicato. Non credo che nemmeno il generale Khalifa Haftar possa riuscire a mettere ordine».
Lei conosce bene la cultura libica: crede che sia compatibile con il rigore e il fanatismo del Califfato di Al Baghdadi?
«Non direi. I libici sono persone tranquille, Gheddafi gli dava tutto e gratis, vivevano bene. Ora quasi la metà della popolazione è scappata via, si parla di sei-settecentomila libici rifugiati in Tunisia, un milione in Egitto».


Il travaglio della minoranza pd che si divide sulla linea dura
Bersani ferma chi vuole lasciare l’Aula al voto finale: no a altre miccedi Andrea Garibaldi Corriere 15.2.15

ROMA Il tormento della minoranza Pd: cosa fare adesso? Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio alla Camera, amico di Enrico Letta, dichiara: «La Costituzione deve essere amata da tutti gli italiani e un’approvazione con i voti di una sola parte mina questo obiettivo. Renzi apra una mediazione offrendo anche la possibilità di modificare il testo in Senato». Poi, annuncia che se le opposizioni non partecipano all’atto finale della riforma costituzionale, «non voterò in un Aula semivuota e questa è la posizione di tanti altri». Civati approva. Il senatore Chiti giudica che sia stato fatto «uno strappo senza vittorie reali». Poi un intervento di Bersani invita alla calma. 
Anche altri sono più cauti, vogliono che in Parlamento tornino tutte le forze politiche ma, prima di decidere le contromosse, attendono sviluppi. Venerdì, nell’assemblea del gruppo pd, Bindi e Bersani si sono battuti per «il riavvio del dialogo» con le opposizioni. «E Renzi — testimonia Bindi — ha detto: “Faccio mio lo spirito degli interventi di Bindi e Bersani”. Confido che da subito il segretario si adoperi per questo». Rosy Bindi chiede «che ci siano segnali già prima del voto finale a marzo. Mi fa paura quell’aula vuota». L’ex segretario Bersani, in un tweet: «Basta accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza vuota». «Bisogna smetterla da entrambe le parti con le frasi muscolari», aggiunge davanti ai suoi collaboratori. Alfredo D’Attorre chiede «una iniziativa di Renzi nelle prossime ore, nel merito del provvedimento, una riapertura reale del confronto. Come minoranza pd, dobbiamo lavorare per riportare le opposizioni in Aula e non per uscire anche noi. Boccia parla a titolo personale». 
Minoranza del Pd, dopo l’uscita dall’Aula delle opposizioni di destra e di sinistra sulle modifiche costituzionali. Civati e Fassina non hanno votato con il loro partito. Gli altri non renziani della Camera — più di cento — hanno votato, ma adesso è un altro giorno: il capitolo conclusivo sarà prima della metà di marzo, con le dichiarazioni finali, e la minoranza chiede a Renzi «il possibile» per far tornare nell’emiciclo i nuovi «aventiniani». 
Spiega Miguel Gotor, consigliere e amico di Bersani: «Le riforme devono andare avanti, ma Renzi trovi un nuovo punto di equilibrio: unità del Pd e ricostruzione del dialogo con le opposizioni, senza esclusività e ricatti del “Patto del Nazareno”». Insiste: «Il patto con Berlusconi è stato usato come una clava nei confronti di tutti gli altri. Ora Renzi deve riconquistare autonomia da Berlusconi e passare dalla clava al fioretto». Gotor chiede anche di smettere con la retorica «niente riforme negli ultimi venti anni»: «Nel 2001 e nel 2005 se ne sono fatte due, Titolo V della Costituzione e federalismo, ma tutte e due in fretta e male». E adesso non si deve riformare la Costituzione «in un clima da saloon, non siamo Bud Spencer e Terence Hill». 
Di fronte all’annuncio di Boccia, Rosy Bindi vuole il rispetto di tutti i passaggi: «Aspettiamo le mosse del segretario e valuteremo. Dichiarare oggi che a marzo non voteremo significa non dare fiducia alle parole di Renzi. E offrire un pretesto per non riprendere il dialogo». Il dialogo ha due attori e dunque Bindi spera nella «disponibilità di tutte le opposizioni». Bersani vuole ritrovare «il filo del confronto in particolare con Sel». 
Il capogruppo Roberto Speranza, che con pazienza ha cercato di evitare la rottura, ricorda che lo spostamento della dichiarazioni di voto a marzo ha già avuto «un significato di apertura, perché avremmo potuto chiudere venerdì.Ora lavoriamo tutti per riprendere il filo». 
In serata, il presidente del partito, Orfini, lancia un velenoso tweet verso la minoranza: «Presente quelli che spiegano che fare le riforme senza le opposizioni è brutto? Sono gli stessi che se la prendevano col Patto del Nazareno». Renzi, per ora, non manifesta progetti di mediazione.



Il premier ora punta sul Pd “Berlusconi è nel caos i suoi in aula piangevano”
“È stata brutta ma il partito ha tenuto, tutti sono stati leali” E la minoranza rivendica i “miglioramenti” ottenuti sul testodi Francesco Bei Repubblica 15.2.15

ROMA Non sarà buonismo veltroniano, ma il giorno dopo la prova di forza alla Camera Matteo Renzi è soddisfatto, addirittura «felice», e il suo primo pensiero va a un bene che ritiene di dover preservare: l’unità del proprio partito. Ancora più essenziale ora dopo l’incattivirsi del clima in Parlamento con le opposizioni. Per cui, posata la polvere della seduta fiume, il premier in privato dà atto alla minoranza di non aver giocato allo sfascio. «In Forza Italia è scoppiato il caos e noi rischiavamo di fare la stessa fine. Invece il Pd ha tenuto».
Un passaggio importante, che sarà valorizzato domani nell’intervento del segretario in Direzione. Perché il Pd abbia la consapevolezza di essere «l’unica architettura politico-istituzionale » su cui si può reggere il paese. L’apprezzamento di Renzi va in particolare a Pierluigi Bersani che «si è dato fare». Ma anche Gianni Cuperlo «ha lavorato bene». Persino Stefano Fassina, uscito dall’aula e aventiniano come le opposizioni, «era contrario alla riforma ma è stato intellettualmente onesto». Insomma, la conclusione è una conferma del carattere «aperto» del Pd: «Certo, abbiamo litigato, ma poi ci siamo ricomposti e tutti hanno votato. Invece il Movimento 5 Stelle si è tirato fuori e Forza Italia è spaccata». Ai suoi Renzi ha raccontato un particolare della nottata in aula che l’ha molto colpito: «C’era la deputata forzista Elena Centemero, rimasta in aula a controllare, che piangeva al momento del voto finale e continuava a ripetere: “Dovevamo esserci anche noi, non riesco a capire perché ce ne siamo andati”. Piangeva, capite?». Con Fitto rimasto sulle barricate e il gruppo parlamentare forzista diviso tra favorevoli e contrari al confronto con il governo, il premier guarda a Berlusconi con sufficienza. Come se ormai non fosse più un suo problema: «È costretto a inseguire i suoi, ha un casino in casa tremendo ».
Certo, nella narrazione renziana quell’immagine dell’emiciclo di Montecitorio semi-deserto stona, è un vulnus alla sempre sbandierata volontà di procedere con una larga maggioranza per non ripetere gli errori del passato. «È stata brutta — confida in privato — ma del resto anche ad agosto, al Senato, Lega e grillini erano usciti quando ci fu il voto finale. L’importante è avercela fatta, noi rispondiamo agli italiani non a Brunetta o Salvini». Certo, la minoranza dem continuerà a invocare il ritorno al tavolo delle opposizioni, ma senza strappi. «Adesso basta — ha twittato ieri Bersani prendende le distanze da Boccia — accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza vuota». Ma la linea, a parte gli oppositori a prescindere, sembra essere quella di rivendicare il tanto ottenuto nel serrato confronto interno con Boschi, Fiano, Renzi e compagni. Il costituzionalista dem Andrea Giorgis, bersaniano, elenca puntigliosamente tutti i «miglioramenti» del testo nel passaggio dal Senato alla Camera: «Parlare di deriva autoritaria è un’accusa ridicola. È stato innalzato il quorum per l’elezione del capo dello Stato, è stato introdotto il controllo pre-venti- vo della Consulta sull’Italicum, è stato soppresso il voto bloccato — un sì o un no — sui provvedimenti del governo. Potrei andare avanti: sono tutte modifiche che aumentano le garanzie per le minoranze e rafforzano il carattere parlamentare della forma di governo ». Per Giorgis insomma, chi parla di democrazia a rischio «forse non ha letto la riforma».
Dunque, passata la bufera ora che fare? Per Renzi sulle riforme è il caso di aprire una fase di decantazione, una sorta di moratoria di qualche settimana per lasciar passare altri vagoni del convoglio. Il prossimo consiglio dei ministri sarà dedicato alle partite Iva, al decreto legislativo sul «Fisco amico» e al decreto sul Job Act per ridurre i contratti precari. Dunque l’economia e il lavoro tornano in primo piano. Ma anche i diritti civili saranno mandati avanti, con il ddl sulle coppie di fatto omosessuali pronto a ricevere luce verde a palazzo Madama. Quanto allo ius soli, ovvero la cittadinanza per i bambini figli di stranieri ma nati in Italia, ci vorrà un po’ più di tempo. «Meglio aspettare le regionali», sussurra il premier. In modo da non regalare a Salvini un vantaggio propagandistico per le elezioni in Veneto.


Lo spettro delle urne dietro il muro contro muro. Renzi pronto a minacciare il voto per piegare il Parlamento. Mattarella si prepara a incontrare i leader dei partiti

di Massimo Franco Corriere 14.2.15


Camera. Opposizioni fuori dall’aula, Pd e alleati votano da soli la riforma Per Renzi «non è un problema». Per il suo partito solo un po’ L’«Aventino» al posto dell’ostruzionismo è la scelta della disperazione Tra i dissidenti nessuno trova il coraggio di far mancare il numero legale
di Andrea Fabozzi il manifesto 14.2.13

Tutti i rischi della strategia del plebiscito
Il referendum confermativo è diventato per Renzi un’arma politica: ma a doppio taglio
di Stefano Folli Repubblica 14.2.15

RIFORMARE la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla seduta fiume non c’era alternativa e che l’ostruzionismo non mira a correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C’è del vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari. Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta, contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del Consiglio ha tratto significativi benefici.
Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra l’intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel vendoliano. Tuttavia sulla carta c’è un danno anche per Renzi. L’aver ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato, nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo carico di risentimento.
Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: «non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri sulla riforma». Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi è costretto. In fondo il renzismo è come un’auto che possiede soltanto la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un ampio segmento di opinione pubblica.
C’è un’altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni: «alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà». Ecco il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto dalla Costituzione si trasforma in un’arma da usare sul piano politico. Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle, che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti.
Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È un’operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio — al di là delle minacce — un’ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all’occorrenza saprebbe gestire la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra cattolica e degli ex comunisti all’interno del Pd. Ma i tempi sono cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in Parlamento.



La parodia dell’Aventino e la sindrome di Napoleone
di Paolo Pombeni Il Sole 14.2.15

Si può capire che parlare di “interesse nazionale” suoni di questi tempi come fuori moda, ma ciò non toglie che l’interesse nazionale esista e che quel che sta accadendo nel parlamento italiano non ne tenga minimamente conto. Difficile configurare in maniera diversa eventi che non solo appartengono al peggior repertorio degli scontri parlamentari (e sin qui passi), ma che avvengono in un momento molto delicato. Diciamolo con chiarezza. Berlusconi che fa scatenare i suoi a boicottare riforme che sino a ieri aveva tranquillamente sostenuto è abbastanza patetico. Però anche Renzi che si fa prendere dalla sindrome di Napoleone, cioè di quello che a dispetto di tutto deve passare di vittoria in vittoria (e si dovrebbe sapere come allora andò a finire) non è che ci faccia una figura da statista.
I parlamentari che si azzuffano, che mettono in scena una parodia dell'Aventino, che si sprecano a denunciare derive dittatoriali che vedono solo loro, fanno il paio con un premier che si è intestardito a voler dimostrare che l’unico modo di vincere è quello del leader supremo che annienta gli avversari.
Il contorno è quello di troppi politici che cercano la sceneggiata, le frasi sopra le righe, illusi che la gente apprezzi molto queste esibizioni muscolari. Invece la gente guarda le notizie e si preoccupa. Il giorno in cui sembra che l’Isis si stia conquistando stabilmente un altro pezzo strategico della Libia, in cui l’annuncio della tregua imminente in Ucraina serve solo alle parti in lotta per strapparsi qualche pezzo di territorio in più alla faccia delle vittime civili nelle ultime ore disponibili per le azioni militari, immaginarsi che il nostro paese possa dare impunemente al mondo questa immagine di scontri tutti intestini alle varie fazioni politiche è davvero incredibile.
Coloro che guardano con un minimo di distacco alla situazione internazionale ed a quella europea sanno bene che in una fase di emergenza come questa ad inquietare moltissimo è l’instabilità politica e la scarsa ragionevolezza con cui si riescono a fronteggiare le continue avanzate delle forze populiste. Si sa con quanta preoccupazione si guardi alle future prove elettorali in Spagna con l’avanzata di “Podemos” che incombe; si sa quanto le prossime prove delle urne in Gran Bretagna suscitino interrogativi per i venti che gonfiano le vele del partito di Farange; si sa quante riserve ci siano per i successi del Front National in Francia. Aggiungiamoci che persino la Merkel ha dovuto rivedere i suoi convincimenti rigoristi nei confronti della Grecia nel timore che una uscita traumatica di questa dall'euro giocasse a rovescio a favore degli anti-euro di “Alternative für Deutschland”.
In un quadro del genere l'Italia si era guadagnata un credito con la gestione oculata del passaggio di testimone al Quirinale. Una operazione certo non senza scontro politico, ma tutto sommato rimasta nei binari di un confronto parlamentare ordinato, con l’esito dell’elezione di un personaggio di alta levatura, garante degli equilibri costituzionali.
Questo credito viene vanificato da uno scontro che francamente non ha né capo né coda. Da un lato si mettono in discussione accordi che si erano raggiunti, neppure troppo faticosamente, su un ordito che complessivamente veniva giudicato largamente accettabile dall’opinione pubblica degli addetti ai lavori (e anche da un pubblico più largo). Dal lato opposto sembra invece che più che la sostanza del nuovo impianto interessi il “modo” in cui lo si può far passare, come se l’unica questione importante fosse raggiungere la meta nel minor tempo possibile. E qui non si capisce che qualche giorno in più rispetto alle scadenze fissate nella speranza di mostrarsi “supereroi” non sarebbe stato di scandalo per nessuno.
Era troppo facile in questo contesto che le forze della provocazione trovassero spazio per far passare il respingimento delle pretese di ciascuno (che spesso suonano davvero come dei “capricci identitari” più che come delle proposte alternative) come un attentato alla democrazia.
La situazione è troppo delicata tanto sul piano internazionale quanto avendo a mente il fragile avvio di una ripresa economica perché si possa considerare quanto sta succedendo come un fisiologico ribollire di dialettiche esasperate.
È un modo irresponsabile di indebolire le possibilità dell’Italia di giocarsi in maniera efficace la propria partita su entrambi questi fronti.
L’opposizione e la maggioranza devono sapere di essere corresponsabili del destino del paese in un momento tanto delicato. Non è buonismo, né utopia: sono le regole della politica con la P maiuscola.

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