domenica 15 febbraio 2015
Il buffone di guerra e nessuno che abbia il coraggio di andare a vedere le carte
Renzi pressa l’Onu: “Pronti a guidare un’operazione militare”
di Alberto D’Argenio Repubblica 15.2.15
ROMA
I CONTATTI con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite sono già partiti. L’Italia a Stati Uniti, Russia, Cina,
Francia e Gran Bretagna ha detto di essere pronta a guidare un’azione
militare in Libia. Ovviamente sotto l’egida dell’Onu. Ma il tempo
stringe e se al momento, almeno per il governo, la situazione sul
terreno con l’avanzata dell’Is fino a Sirte non sembra del tutto
compromessa, Roma vorrebbe agire al più presto. Magari entro la fine di
febbraio, anche se i tempi al Palazzo di Vetro sembrano ben più lunghi.
Il
premier Matteo Renzi ha lanciato l’offensiva libica in prima persona
giovedì notte al Consiglio europeo di Bruxelles. «È una crisi importante
e drammatica come quella ucraina», è stata la tesi del presidente del
Consiglio, più sensibile dei partner nordeuropei allo scacchiere
nordafricano, per spronare i colleghi a non perdere altro tempo per
contrastare il caos libico. Uno scenario di guerra a poche miglia dalle
coste europee, la possibilità di uno Stato islamico di fronte a casa, la
totale perdita di controllo sui flussi di immigrati con conseguente
tragedia umanitaria nel Canale di Sicilia. E il premier di fronte ai
partner dell’Unione ha formalizzato la disponibilità italiana «a
intervenire in Libia in presenza di un mandato delle Nazioni Unite».
Il
governo italiano chiede il via libera del Palazzo di Vetro innanzitutto
a quello che il premier definisce «un mandato diplomatico ». Significa
prendere la leadership dei negoziati con le diverse tribù e fazioni
libiche che si contendono il controllo di Tripoli finora guidati dallo
spagnolo Bernardino León, inviato speciale delle Nazioni Unite i cui
sforzi — peraltro appoggiati da Roma e da Lady Pesc Federica Mogherini —
non sembrano in grado di sbloccare la situazione. Ma l’Italia, ha
spiegato Renzi agli interlocutori internazionali, è più che disponibile a
fare di più: «Siamo pronti anche a ricevere un mandato più concreto»,
ossia militare. Già, Roma per arginare il caos libico è pronta anche a
guidare, mettendoci uomini e mezzi, una missione di interposizione tra
le diverse parti in causa in Libia sul modello di Unifil in Libano. Ma
le condizioni devono permetterlo, per un’azione di peacekeeping serve un
difficile accordo preliminare tra i combattenti sul campo e un governo
di unità nazionale, che al momento sembra lontano dal poter arrivare.
Ecco la ragione per cui Roma vorrebbe prendere in mano i negoziati.
Senza un accordo sul campo, invece, il governo avrebbe difficoltà a
trovare il via libera del Consiglio di sicurezza ad un’azione di
peace-enforcing, un’operazione di combattimento pura per ristabilire la
pace che probabilmente non è nemmeno pronto a mettere in piedi. Ad ogni
modo, guardando al più classico peacekeeping, «in tutti i contatti —
racconta Renzi ai collaboratori con in quali esamina lo scacchiere
libico — i partner internazionali dicono che l’Italia guiderà
l’operazione dell’Onu ». L’Italia d’altra parte ha una presenza unica a
Tripoli, la nostra è la sola ambasciata ancora aperta nella capitale
libica e poi c’è la storica presenza di Eni sul terreno. E il governo è
già al lavoro con contatti sul campo, visto che il piano di Renzi e
Gentiloni in caso di missione Onu è quello «di coinvolgere i libici», o
almeno alcune fazioni.
Ma il timore è che la risoluzione delle
Nazioni Unite non arrivi entro la fine del mese di febbraio, mentre Roma
ha fretta di mettere fine all’anarchia libica. Tuttavia l’analisi del
governo non è ancora drammatica, non è da punto di non ritorno visto che
per gli esperti del premier «nonostante l’avanzata dell’Is il quadro
non è peggiorato in modo drammatico, la situazione è ancora
relativamente stabile». Così come, per quanto sul fronte della sicurezza
ci sia preoccupazione, da Palazzo Chigi e dal Viminale dopo le minacce
dell’Is al ministro Paolo Gentiloni e al Paese l’allerta nelle ultime
ore non è cresciuta: «Le cose — spiegano — non sono cambiate, per quanto
la situazione sia delicata, il livello di allarme in questo momento non
è aumentato».
Dunque lo scoglio, dal punto di vista del governo, ora
è quello di accelerare i lavori al Palazzo di Vetro per avere quella
risoluzione che l’Italia sta sollecitando dall’esterno del Consiglio di
Sicurezza. Già, rassicurava i partner politici Renzi, «perché senza un
mandato Onu non possiamo fare alcun passo». Sarebbe vietato dalla
Costituzione e comunque al primo incidente sul terreno in patria si
verificherebbe un vero e proprio uragano politico.
I nuovi tamburi di guerra e i tagli alle spese militari
di Danilo Taino Corriere 15.2.15
La
settimana scorsa, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, tra i
presidenti, i ministri, i diplomatici e gli esperti di relazioni
internazionali presenti, nessuno ha messo in dubbio il concetto al cuore
della riunione: l’ordine geopolitico internazionale sta crollando. E
l’Europa è uno dei maggiori punti critici di questo collasso: il
conflitto in Ucraina dice che l’idea di una pace garantita e fuori
discussione, nata con la fine della Guerra Fredda, 25 anni dopo si sta
sbriciolando. Come ha sostenuto poco tempo fa l’ex primo ministro
svedese Carl Bildt, «dopo decenni in cui troppe persone hanno dato la
pace per garantita, ora è il potere delle armi che sta dettando la forza
nell’immediato vicinato europeo».
Già, le armi. Sotto l’influenza
di questa idea e sotto la pressione di ridurre le spese, tra la metà
degli anni Novanta e oggi il numero delle piattaforme di Difesa in
Europa si è ridotto sostanzialmente. Secondo l’International institute
of strategic studies (Iiss), nel 1995 i veicoli da combattimento armati
della fanteria erano 11.203 , oggi sono 7.460 . L’artiglieria, sempre
nello stesso periodo, è passata da 39.556 pezzi a 22.441 . I sottomarini
da 141 a 78 . Le portaerei da 17 nel 1995 a 21 nel 2005 per poi
scendere a 18 oggi. L’aviazione tattica si è ridotta, nei vent’anni, da
5.418 aerei a 2.486 . Il numero dei carri armati da combattimento è
addirittura crollato del 69% , da 22.049 a 6.924 : in Italia, per dire,
da 1.077 a 160 ; in Germania da 2.695 a 410 ; in Francia da 1.016 a 200 .
In parallelo, anche la presenza americana in Europa è crollata: da
326.400 militari di tutte le forze nel 1989 a 66.200 oggi; da dieci a
zero brigate pesanti, da 28 a sei squadroni tattici d’aviazione, da
cinquemila a 29 carri armati, da 279 a 48 elicotteri d’attacco e via
dicendo.
Tra il 2010 e il 2014 — si è detto ancora alla Conferenza
sulla Sicurezza di Monaco, uno degli appuntamenti annuali più importanti
del mondo sul tema — le spese per la Difesa sono calate del 18,4%
nell’Europa del Sud, del 2,6% in quella centrale mentre sono aumentate
del 4% nell’Europa del Nord.
In un’epoca di pace garantita, le
riduzioni oltre che ovvie sarebbero benvenute, da festeggiare. In
un’epoca in cui si tornano a sentire i rumori di guerra, tutto andrà
rivisto. Nel 2013 , uno studio della McKinsey calcolava che mettendo in
comune anche solo gli appalti l’Europa risparmierebbe 13 miliardi
all’anno, utilizzabili per rafforzarsi: un primo passo in un mondo più
pericoloso
Lo storico Del Boca Non perdonerò mai Napolitano per aver avallato quella guerra”
intervista di Giampiero Gramaglia il Fatto 15.2.15
“È
pazzesco pensare che si possa intervenire in Libia, sia pure
nell’ambito di una missione dell’Onu”, che, comunque, nessuno ha ancora
deciso, ammesso che lo sia mai. “È un’idea terribile, anche se non mi
meraviglia, visto che Renzi e Gentiloni sono personaggi di quinto
livello che non sanno nulla... Laggiù, ci sono tante armi da distruggere
il Paese, Gheddafi aveva costituito arsenali immensi e micidiali”.
Angelo del Boca, scrittore, giornalista, storico, è il maggiore
conoscitore italiano della Libia: denunciò per primo le atrocità
italiane durante la conquista e la colonizzazione, come pure in Etiopia,
anche con i bombardamenti su centri abitati e l’uso dei gas, campi di
concentramento e deportazioni. Partigiano non ancora ventenne, sta per
pubblicare E la notte ci guidano le stelle, sulla guerra alla macchia
contro i nazisti. Le sortite interventiste sulla Libia del premier e del
ministro degli esteri, “persone – dice – che non hanno una cultura
sufficiente”, lo lasciano sbalordito. “La Libia è allo sbando, che
almeno 140 gruppi se ne contendono il territorio, si sono divisi il
potere e i depositi di petrolio... L’abbattimento del regime di Gheddafi
ha riportato il tribalismo, sono scomparsi i confini amministrativi, si
è tornati indietro di due secoli, a prima dell’Impero Ottomano”.
Allora, contribuire al rovesciamento di Gheddafi fu un errore?
Io
conoscevo Gheddafi, come prima avevo conosciuto re Idris…. Certo, era
un dittatore, ma lo abbiamo deposto partecipando a una guerra che
serviva soltanto alla Francia, anzi a Sarkozy... E farlo cadere così,
senza alternative, è stato un errore, perché lui almeno faceva da
cintura contro l’estremismo. Mi ha sempre colpito, e non glielo
perdonerò mai, che l’ex presidente Napolitano abbia avallato
quell’intervento armato, infrangendo la Costituzione”.
È possibile che la Libia torni a essere un’entità statale?
Non
si può riportare la Libia allo stato di prima: le armi sono ovunque e
finiscono nelle mani di chiunque, hanno alimentato i conflitti nel Mali e
nel Ciad… Ci vorrebbe un intervento di pace insieme dell’Onu e
dell’Unione africana, con l’accordo dei due attuali parlamenti, cioè
quello integralista di Tripoli e quello elettivo di Tobruk.
L’irrompere
sulla scena degli jihadisti può favorire il dialogo fra i due
parlamenti, che, per ora, si parlano solo per interposta persona,
l’inviato Onu Bernardino Leon
È difficile dirlo: è vero che c’è un
terzo ingombro che s’affaccia, ma è anche vero che la situazione è un
disastro. E Leon non ha poteri, è un po’ come Federica Mogherini
nell’Ue, che dice che l’Europa è pronta a impegnarsi, ma non sa che cosa
fare. In questo momento, non si può fare nulla: o scendi in campo
sapendo che ci saranno decine di migliaia di morti o non fai nulla.
Lo storico Angelo Del Boca “Torneremo nel paese ma dobbiamo lavorare per la ricostruzione”
Da ex potenza coloniale abbiamo precisi doveri. Già fatti troppi danniintervista di Giampaolo Cadalanu Repubblica 15.2.15
NO,
non è un addio. Torneremo, prima o poi. Angelo Del Boca non è ottimista
sul futuro della Libia, ma crede che la partenza degli italiani sia
solo provvisoria. A meno di quattro mesi dal suo novantesimo compleanno,
il massimo storico del colonialismo nostrano può vantare uno sguardo
fra i più lucidi sulle regioni teatro delle avventure imperiali
fasciste.
Professore, con la partenza degli ultimi italiani dalla Libia, è la fine di una fase storica?
«Ma
no, è solo una misura di sicurezza obbligata. Credo che chiuderà anche
l’ambasciata, non c’è più la garanzia di una protezione».
Lei non vede un valore evocativo in questo esodo?
«Guardi, in Libia gli italiani rimasti erano pochissimi. Non ci sono più i grandi lavori, le imprese hanno sgomberato da tempo».
Che dice, torneremo?
«È già successo, più di una volta».
Ma torneremo con le uniformi militari?
«Spero proprio di no, guai se fosse così».
L’Italia può avere un ruolo reale nel cercare una soluzione?
«Nei
giorni scorsi ho firmato assieme ad Alex Zanotelli un appello perché
l’impegno dell’Italia, come ex potenza coloniale, non sia quello di
preparare un intervento militare — da quelle parti, fra l’altro, abbiamo
sempre fatto una pessima figura — ma di portare i libici al tavolo di
pace, con le altre nazioni europee, con l’Unione africana e con le
Nazioni Unite. La popolazione ha già sofferto abbastanza per poter
affrontare un’altra guerra».
E questo obiettivo diplomatico è alla portata del nostro Paese?
«Ci
vorrebbe una classe politica con la capacità di vedere e capire gli
ultimi anni della nostra Storia. Una classe politica all’altezza,
diversa da quella che abbiamo».
Finirà che rimpiangeremo i tempi di Gheddafi?
«Qualcuno
pensa di sì. S’intende che stiamo parlando del Gheddafi uomo politico
che aveva tante qualità, non il dittatore che fino agli anni Settanta e
Ottanta inseguiva i suoi avversari con gli squadroni della morte. Dopo
il bombardamento di Tripoli aveva cambiato le sue strategie. Aveva fatto
un lavoro intelligente, realizzando una specie di cintura di protezione
attorno alla Libia e all’Africa settentrionale, proprio pensando
all’integralismo islamico. Personalmente, non ho mai avuto stima di
Berlusconi, ma credo che il famoso patto che lui firmò con Gheddafi
fosse una buona idea. Era un accordo politico e militare che noi abbiamo
bistrattato, anche grazie all’assenso del presidente Napolitano, che ha
permesso la guerra ignorando la Costituzione. Probabilmente anche oggi
avrebbe bloccato gli integralisti, e non sarebbe stata la prima volta.
Ovviamente avrebbe riempito le carceri, avrebbe usato il pugno di ferro,
come la volta che per domare la rivolta di Bengasi coinvolse Esercito,
Marina e Aviazione. D’altronde in Occidente dava fastidio la sua idea di
raccogliere diversi Stati africani in una federazione, perché potessero
trattare alla pari con le potenze mondiali».
Come vede la situazione libica in questi giorni?
«È
molto grave: ai due governi che si contendono il paese, quello di
Tripoli e quello di Tobruk, adesso si è aggiunto il Califfato, che rende
tutto più complicato. Non credo che nemmeno il generale Khalifa Haftar
possa riuscire a mettere ordine».
Lei conosce bene la cultura libica: crede che sia compatibile con il rigore e il fanatismo del Califfato di Al Baghdadi?
«Non
direi. I libici sono persone tranquille, Gheddafi gli dava tutto e
gratis, vivevano bene. Ora quasi la metà della popolazione è scappata
via, si parla di sei-settecentomila libici rifugiati in Tunisia, un
milione in Egitto».
Il travaglio della minoranza pd che si divide sulla linea dura
Bersani ferma chi vuole lasciare l’Aula al voto finale: no a altre miccedi Andrea Garibaldi Corriere 15.2.15
ROMA
Il tormento della minoranza Pd: cosa fare adesso? Francesco Boccia,
presidente della commissione Bilancio alla Camera, amico di Enrico
Letta, dichiara: «La Costituzione deve essere amata da tutti gli
italiani e un’approvazione con i voti di una sola parte mina questo
obiettivo. Renzi apra una mediazione offrendo anche la possibilità di
modificare il testo in Senato». Poi, annuncia che se le opposizioni non
partecipano all’atto finale della riforma costituzionale, «non voterò in
un Aula semivuota e questa è la posizione di tanti altri». Civati
approva. Il senatore Chiti giudica che sia stato fatto «uno strappo
senza vittorie reali». Poi un intervento di Bersani invita alla calma.
Anche
altri sono più cauti, vogliono che in Parlamento tornino tutte le forze
politiche ma, prima di decidere le contromosse, attendono sviluppi.
Venerdì, nell’assemblea del gruppo pd, Bindi e Bersani si sono battuti
per «il riavvio del dialogo» con le opposizioni. «E Renzi — testimonia
Bindi — ha detto: “Faccio mio lo spirito degli interventi di Bindi e
Bersani”. Confido che da subito il segretario si adoperi per questo».
Rosy Bindi chiede «che ci siano segnali già prima del voto finale a
marzo. Mi fa paura quell’aula vuota». L’ex segretario Bersani, in un
tweet: «Basta accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia
mezza vuota». «Bisogna smetterla da entrambe le parti con le frasi
muscolari», aggiunge davanti ai suoi collaboratori. Alfredo D’Attorre
chiede «una iniziativa di Renzi nelle prossime ore, nel merito del
provvedimento, una riapertura reale del confronto. Come minoranza pd,
dobbiamo lavorare per riportare le opposizioni in Aula e non per uscire
anche noi. Boccia parla a titolo personale».
Minoranza del Pd, dopo
l’uscita dall’Aula delle opposizioni di destra e di sinistra sulle
modifiche costituzionali. Civati e Fassina non hanno votato con il loro
partito. Gli altri non renziani della Camera — più di cento — hanno
votato, ma adesso è un altro giorno: il capitolo conclusivo sarà prima
della metà di marzo, con le dichiarazioni finali, e la minoranza chiede a
Renzi «il possibile» per far tornare nell’emiciclo i nuovi
«aventiniani».
Spiega Miguel Gotor, consigliere e amico di Bersani:
«Le riforme devono andare avanti, ma Renzi trovi un nuovo punto di
equilibrio: unità del Pd e ricostruzione del dialogo con le opposizioni,
senza esclusività e ricatti del “Patto del Nazareno”». Insiste: «Il
patto con Berlusconi è stato usato come una clava nei confronti di tutti
gli altri. Ora Renzi deve riconquistare autonomia da Berlusconi e
passare dalla clava al fioretto». Gotor chiede anche di smettere con la
retorica «niente riforme negli ultimi venti anni»: «Nel 2001 e nel 2005
se ne sono fatte due, Titolo V della Costituzione e federalismo, ma
tutte e due in fretta e male». E adesso non si deve riformare la
Costituzione «in un clima da saloon, non siamo Bud Spencer e Terence
Hill».
Di fronte all’annuncio di Boccia, Rosy Bindi vuole il
rispetto di tutti i passaggi: «Aspettiamo le mosse del segretario e
valuteremo. Dichiarare oggi che a marzo non voteremo significa non dare
fiducia alle parole di Renzi. E offrire un pretesto per non riprendere
il dialogo». Il dialogo ha due attori e dunque Bindi spera nella
«disponibilità di tutte le opposizioni». Bersani vuole ritrovare «il
filo del confronto in particolare con Sel».
Il capogruppo Roberto
Speranza, che con pazienza ha cercato di evitare la rottura, ricorda che
lo spostamento della dichiarazioni di voto a marzo ha già avuto «un
significato di apertura, perché avremmo potuto chiudere venerdì.Ora
lavoriamo tutti per riprendere il filo».
In serata, il presidente
del partito, Orfini, lancia un velenoso tweet verso la minoranza:
«Presente quelli che spiegano che fare le riforme senza le opposizioni è
brutto? Sono gli stessi che se la prendevano col Patto del Nazareno».
Renzi, per ora, non manifesta progetti di mediazione.
Il premier ora punta sul Pd “Berlusconi è nel caos i suoi in aula piangevano”
“È stata brutta ma il partito ha tenuto, tutti sono stati leali” E la minoranza rivendica i “miglioramenti” ottenuti sul testodi Francesco Bei Repubblica 15.2.15
ROMA
Non sarà buonismo veltroniano, ma il giorno dopo la prova di forza alla
Camera Matteo Renzi è soddisfatto, addirittura «felice», e il suo primo
pensiero va a un bene che ritiene di dover preservare: l’unità del
proprio partito. Ancora più essenziale ora dopo l’incattivirsi del clima
in Parlamento con le opposizioni. Per cui, posata la polvere della
seduta fiume, il premier in privato dà atto alla minoranza di non aver
giocato allo sfascio. «In Forza Italia è scoppiato il caos e noi
rischiavamo di fare la stessa fine. Invece il Pd ha tenuto».
Un
passaggio importante, che sarà valorizzato domani nell’intervento del
segretario in Direzione. Perché il Pd abbia la consapevolezza di essere
«l’unica architettura politico-istituzionale » su cui si può reggere il
paese. L’apprezzamento di Renzi va in particolare a Pierluigi Bersani
che «si è dato fare». Ma anche Gianni Cuperlo «ha lavorato bene».
Persino Stefano Fassina, uscito dall’aula e aventiniano come le
opposizioni, «era contrario alla riforma ma è stato intellettualmente
onesto». Insomma, la conclusione è una conferma del carattere «aperto»
del Pd: «Certo, abbiamo litigato, ma poi ci siamo ricomposti e tutti
hanno votato. Invece il Movimento 5 Stelle si è tirato fuori e Forza
Italia è spaccata». Ai suoi Renzi ha raccontato un particolare della
nottata in aula che l’ha molto colpito: «C’era la deputata forzista
Elena Centemero, rimasta in aula a controllare, che piangeva al momento
del voto finale e continuava a ripetere: “Dovevamo esserci anche noi,
non riesco a capire perché ce ne siamo andati”. Piangeva, capite?». Con
Fitto rimasto sulle barricate e il gruppo parlamentare forzista diviso
tra favorevoli e contrari al confronto con il governo, il premier guarda
a Berlusconi con sufficienza. Come se ormai non fosse più un suo
problema: «È costretto a inseguire i suoi, ha un casino in casa tremendo
».
Certo, nella narrazione renziana quell’immagine dell’emiciclo di
Montecitorio semi-deserto stona, è un vulnus alla sempre sbandierata
volontà di procedere con una larga maggioranza per non ripetere gli
errori del passato. «È stata brutta — confida in privato — ma del resto
anche ad agosto, al Senato, Lega e grillini erano usciti quando ci fu il
voto finale. L’importante è avercela fatta, noi rispondiamo agli
italiani non a Brunetta o Salvini». Certo, la minoranza dem continuerà a
invocare il ritorno al tavolo delle opposizioni, ma senza strappi.
«Adesso basta — ha twittato ieri Bersani prendende le distanze da Boccia
— accendere micce. Da domani si lavora perché l’Aula non sia mezza
vuota». Ma la linea, a parte gli oppositori a prescindere, sembra essere
quella di rivendicare il tanto ottenuto nel serrato confronto interno
con Boschi, Fiano, Renzi e compagni. Il costituzionalista dem Andrea
Giorgis, bersaniano, elenca puntigliosamente tutti i «miglioramenti» del
testo nel passaggio dal Senato alla Camera: «Parlare di deriva
autoritaria è un’accusa ridicola. È stato innalzato il quorum per
l’elezione del capo dello Stato, è stato introdotto il controllo
pre-venti- vo della Consulta sull’Italicum, è stato soppresso il voto
bloccato — un sì o un no — sui provvedimenti del governo. Potrei andare
avanti: sono tutte modifiche che aumentano le garanzie per le minoranze e
rafforzano il carattere parlamentare della forma di governo ». Per
Giorgis insomma, chi parla di democrazia a rischio «forse non ha letto
la riforma».
Dunque, passata la bufera ora che fare? Per Renzi sulle
riforme è il caso di aprire una fase di decantazione, una sorta di
moratoria di qualche settimana per lasciar passare altri vagoni del
convoglio. Il prossimo consiglio dei ministri sarà dedicato alle partite
Iva, al decreto legislativo sul «Fisco amico» e al decreto sul Job Act
per ridurre i contratti precari. Dunque l’economia e il lavoro tornano
in primo piano. Ma anche i diritti civili saranno mandati avanti, con il
ddl sulle coppie di fatto omosessuali pronto a ricevere luce verde a
palazzo Madama. Quanto allo ius soli, ovvero la cittadinanza per i
bambini figli di stranieri ma nati in Italia, ci vorrà un po’ più di
tempo. «Meglio aspettare le regionali», sussurra il premier. In modo da
non regalare a Salvini un vantaggio propagandistico per le elezioni in
Veneto.
Lo spettro delle urne dietro il muro contro muro. Renzi pronto a minacciare il voto per piegare il Parlamento. Mattarella si prepara a incontrare i leader dei partiti
di Massimo Franco Corriere 14.2.15
Camera. Opposizioni fuori dall’aula, Pd e alleati votano da soli la riforma Per Renzi «non è un problema». Per il suo partito solo un po’ L’«Aventino» al posto dell’ostruzionismo è la scelta della disperazione Tra i dissidenti nessuno trova il coraggio di far mancare il numero legale
di Andrea Fabozzi il manifesto 14.2.13
Tutti i rischi della strategia del plebiscito
Il referendum confermativo è diventato per Renzi un’arma politica: ma a doppio taglio
di Stefano Folli Repubblica 14.2.15
RIFORMARE la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto
legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze
politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla
seduta fiume non c’era alternativa e che l’ostruzionismo non mira a
correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C’è del
vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a
Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è
mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che
la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari.
Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è
mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è
sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta,
contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse
occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di
smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del
Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua
politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del
Consiglio ha tratto significativi benefici.
Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore
è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise
in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra
l’intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel
vendoliano. Tuttavia sulla carta c’è un danno anche per Renzi. L’aver
ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente
numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato,
nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in
qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un
governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La
minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di
alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo
carico di risentimento.
Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra
curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: «non mi sono fatto
ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri
sulla riforma». Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma
il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso
partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi
è costretto. In fondo il renzismo è come un’auto che possiede soltanto
la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un
Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un
ampio segmento di opinione pubblica.
C’è un’altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni:
«alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà». Ecco
il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto
dalla Costituzione si trasforma in un’arma da usare sul piano politico.
Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà
lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle,
che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del
Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una
soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti.
Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È
un’operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni
anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio — al di là delle
minacce — un’ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge
proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all’occorrenza saprebbe gestire
la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su
se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del
Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra
cattolica e degli ex comunisti all’interno del Pd. Ma i tempi sono
cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in
Parlamento.
La parodia dell’Aventino e la sindrome di Napoleone
di Paolo Pombeni Il Sole 14.2.15
Si può capire che parlare di “interesse nazionale” suoni di questi tempi
come fuori moda, ma ciò non toglie che l’interesse nazionale esista e
che quel che sta accadendo nel parlamento italiano non ne tenga
minimamente conto. Difficile configurare in maniera diversa eventi che
non solo appartengono al peggior repertorio degli scontri parlamentari
(e sin qui passi), ma che avvengono in un momento molto delicato.
Diciamolo con chiarezza. Berlusconi che fa scatenare i suoi a boicottare
riforme che sino a ieri aveva tranquillamente sostenuto è abbastanza
patetico. Però anche Renzi che si fa prendere dalla sindrome di
Napoleone, cioè di quello che a dispetto di tutto deve passare di
vittoria in vittoria (e si dovrebbe sapere come allora andò a finire)
non è che ci faccia una figura da statista.
I parlamentari che si azzuffano, che mettono in scena una parodia
dell'Aventino, che si sprecano a denunciare derive dittatoriali che
vedono solo loro, fanno il paio con un premier che si è intestardito a
voler dimostrare che l’unico modo di vincere è quello del leader supremo
che annienta gli avversari.
Il contorno è quello di troppi politici che cercano la sceneggiata, le
frasi sopra le righe, illusi che la gente apprezzi molto queste
esibizioni muscolari. Invece la gente guarda le notizie e si preoccupa.
Il giorno in cui sembra che l’Isis si stia conquistando stabilmente un
altro pezzo strategico della Libia, in cui l’annuncio della tregua
imminente in Ucraina serve solo alle parti in lotta per strapparsi
qualche pezzo di territorio in più alla faccia delle vittime civili
nelle ultime ore disponibili per le azioni militari, immaginarsi che il
nostro paese possa dare impunemente al mondo questa immagine di scontri
tutti intestini alle varie fazioni politiche è davvero incredibile.
Coloro che guardano con un minimo di distacco alla situazione
internazionale ed a quella europea sanno bene che in una fase di
emergenza come questa ad inquietare moltissimo è l’instabilità politica e
la scarsa ragionevolezza con cui si riescono a fronteggiare le continue
avanzate delle forze populiste. Si sa con quanta preoccupazione si
guardi alle future prove elettorali in Spagna con l’avanzata di
“Podemos” che incombe; si sa quanto le prossime prove delle urne in Gran
Bretagna suscitino interrogativi per i venti che gonfiano le vele del
partito di Farange; si sa quante riserve ci siano per i successi del
Front National in Francia. Aggiungiamoci che persino la Merkel ha dovuto
rivedere i suoi convincimenti rigoristi nei confronti della Grecia nel
timore che una uscita traumatica di questa dall'euro giocasse a rovescio
a favore degli anti-euro di “Alternative für Deutschland”.
In un quadro del genere l'Italia si era guadagnata un credito con la
gestione oculata del passaggio di testimone al Quirinale. Una operazione
certo non senza scontro politico, ma tutto sommato rimasta nei binari
di un confronto parlamentare ordinato, con l’esito dell’elezione di un
personaggio di alta levatura, garante degli equilibri costituzionali.
Questo credito viene vanificato da uno scontro che francamente non ha né
capo né coda. Da un lato si mettono in discussione accordi che si erano
raggiunti, neppure troppo faticosamente, su un ordito che
complessivamente veniva giudicato largamente accettabile dall’opinione
pubblica degli addetti ai lavori (e anche da un pubblico più largo). Dal
lato opposto sembra invece che più che la sostanza del nuovo impianto
interessi il “modo” in cui lo si può far passare, come se l’unica
questione importante fosse raggiungere la meta nel minor tempo
possibile. E qui non si capisce che qualche giorno in più rispetto alle
scadenze fissate nella speranza di mostrarsi “supereroi” non sarebbe
stato di scandalo per nessuno.
Era troppo facile in questo contesto che le forze della provocazione
trovassero spazio per far passare il respingimento delle pretese di
ciascuno (che spesso suonano davvero come dei “capricci identitari” più
che come delle proposte alternative) come un attentato alla democrazia.
La situazione è troppo delicata tanto sul piano internazionale quanto
avendo a mente il fragile avvio di una ripresa economica perché si possa
considerare quanto sta succedendo come un fisiologico ribollire di
dialettiche esasperate.
È un modo irresponsabile di indebolire le possibilità dell’Italia di
giocarsi in maniera efficace la propria partita su entrambi questi
fronti.
L’opposizione e la maggioranza devono sapere di essere corresponsabili
del destino del paese in un momento tanto delicato. Non è buonismo, né
utopia: sono le regole della politica con la P maiuscola.
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