venerdì 20 febbraio 2015

Le memorie di Edward Gibbon

immagine scheda libro
Complimenti a Giovanni Bonacina, che conosco da anni e che fa parte del mio stesso Dipartimento [SGA].

Edward Gibbon: Memorie della mia vita, a cura di Giovanni Bonacina, Aragno, pagg. 352, euro 18
Risvolto
Le Memorie della mia vita formano l’autobiografia di Edward Gibbon (1737-1794), l’autore della celebre Storia del declino e caduta dell’impero romano. Costituiscono un’eccezionale testimonianza dell’uomo, dello studioso e di un’epoca intera, quella della «repubblica settecentesca degli Stati europei» (J.G.A. Pocock), sfociata quasi suo malgrado nella rivoluzione francese, ovverosia l’età dei Lumi, o più tardi, se si preferisce, dell’Antico Regime.

Edward Gibbon (1737-1794), storico inglese, frequentò il Magdalen College di Oxford. Dopo la sua conversione al cattolicesimo, completò gli studi a Losanna sotto la tutela di un pastore protestante. Nasce in lui, in questi anni (1754-58), la passione per l’erudizione e soprattutto per la cultura umanistica. Tornato a Londra in seguito alla sua riconversione all'anglicanesimo, si dedicò alla stesura di un Essai sur l’étude de la littérature (1761). Tra il 1776 e il 1778 porta a compimento l’opera in tre volumi per cui è divenuto celebre, The history of the decline and fall of the Roman Empire, la storia dell’Europa da Augusto alla caduta di Costantinopoli, in un quadro grandioso che si spinge fino alla lontana Cina a cercarvi le ragioni di sommovimenti di popoli che hanno sconvolto la geografia dell'Europa; o fino all’Arabia, per raccontare sulla scorta della fortuna dell'orientalistica del XVII e del XVIII secolo le vicende dell'impero islamico.

Giovanni Bonacina
(Bergamo, 1961), storico della filosofia, si interessa a temi di confine tra filosofia e storiografia fra Settecento e Ottocento, con particolare riguardo alle coppie concettuali Antico/Moderno, Oriente/Occidente, Rivoluzione/Reazione. Ha al suo attivo traduzioni di Hegel, Droysen, di esponenti minori della scuola hegeliana.


Gaudente, viaggiatore, mattatore nei salotti. Il grande interprete della fine dell'impero romano si raccontaFrancesco Perfetti - il Giornale Ven, 20/02/2015

Uno strano illuminista conservatore contro i fanatici della rivoluzione
Nelle «Memorie» autobiografiche il grande storico di Roma mostra, sulle orme di Burke, i timori per «il selvaggio mal francese della libertà uguale e illimitata»
24 mar 2015 Libero SIMONE PALIAGA
«Negli ultimi due o tre anni la nostra tranquillità è stata rannuvolata dai disordini della Francia; la rivoluzione di quel regno, o piuttosto la sua dissoluzione, è stata udita e avvertita anche nei paesi limitrofi. Anziché osservare dall’alto, come calmi e oziosi spettatori, il teatro dell’Europa, ecco che la nostra armonia domestica è in qualche modo inasprita dall’infusione dello spirito di partito; le nostre gentildonne e gentiluomini assumono il carattere di politici autodidatti; e i sobri dettami della saggezza e dell’esperienza sono messi a tacere dai clamori dei democrates trionfanti». Siamo nel 1789 e gli sconvolgimenti in atto a Parigi si riverberano ovunque. La rivoluzione francese è scoppiata e si prepara a sconvolgere definitivamente la fisionomia della vecchia Europa suscitando preoccupazioni in chi in quell’Europa vede un modello di civiltà. A rappresentarla così nelle sue Memorie di una vita, appena pubblicate da Aragno, ( pp. 352, euro 18) è Edward Gibbon. Si tratta di un lavoro, curato con minuzia e acribia da Giovanni Bonacina, che rivede la luce in traduzione italiana dopo un secolo esatto.
Gibbon (1737-1794) non è esattamente un arcigno controrivoluzionario, se così si possono chiamare gli avversari del secolo dei Lumi, quando scrive queste righe. Louis de Bonald o Joseph de Maistre sono lontani anni luce dallo storico inglese. Però di questo suo aspetto politico poco si sa e poco si sospetta, se ci si accontenta di quanto si legge sbrigativamente su di lui. 
Si fa presto a presentarlo come un seguace del pensiero illuminista. E par così di comprendere molte cose, magari prendendo come unico punto di riferimento il suo lavoro più noto, l’imponente Declino e caduta dell'Impero romano: una monumentale ricerca in cui «soppesavo», precisa l’autore nelle Memorie, «le cause e gli effetti di quella rivoluzione poiché credevo, così come ancora credo, che la propagazione del Vangelo e il trionfo della Chiesa siano inseparabilmente connessi al declino della monarchia romana». Certo che è così, si pensa di primo acchito. Ma forse, per definirlo come un mero difensore dei principi dei Lumi per le critiche che muove alla religione cattolica, si misconosce la particolarità del pensiero e della storia inglese da cui Gibbon proviene. 
Se Declino e caduta dell'Impero romano è la fatica di una vita, non è però la sola a cui attende per anni e anni. E a questa seconda bisogna ricorrere per inquadrare nel dettaglio il suo cammino di pensiero. Le Memorie di una vita non sono solo, oppure non tanto, uno specchio della vita di Gibbon, dall'infanzia fino agli ultimi anni, o un resoconto preciso delle sue esperienze e dei suoi incontri. Esse sono soprattutto una riproduzione anche di maniera, e non potrebbe essere diversamente vista la schiatta da cui Gibbon proviene, di quella che uno dei grandi storici del pensiero politico come Pocock ha definito la repubblica settecentesca degli Stati europei. Da questo squarcio sul Settecento emerge quel conservatorismo non ideologico che intarsiava allora la società delle lettere, da Londra a Losanna. Viene in superficie così quella strana versione dell’illuminismo che poco e male andava a braccetto con le contemporanee teorie rivoluzionarie francesi e di cui Gibbon fu un autentico campione. 
Facendo proprio lo scetticismo dello scozzese David Hume, che sollevava non pochi dubbi sulle velleità palingenetiche della politica, la filosofia dei Lumi metabolizzata dallo storico inglese assumeva i tratti di un illuminismo conservatore. Un atteggiamento che non disdiceva a Gibbon alla pari di uno dei primi critici della rivoluzione francese come Edmund Burke, ascritto spesso e troppo frettolosamente alla grande famiglia del conservatorismo. «Prego», scrive Gibbon, «che mi si lasci sottoscrivere il mio assenso al credo del signor Burke sulla rivoluzione di Francia. Ammiro la sua eloquenza, approvo la sua politica, adoro la sua cavalleria, e posso quasi scusare la sua reverenza verso le istituzioni ecclesiastiche». «I missionari fanatici della sedizione», continua lo storico inglese, «hanno sparso i semi del malcontento nelle nostre città e villaggi, che erano fioriti per oltre duecentocinquant’anni senza temere l’approssimarsi della guerra, o avvertire il peso del governo. Molti individui, e alcune comunità sembrano essere infettate dal mal francese, dalle selvagge teorie della libertà uguale e illimitata. Tuttavia confido che il grosso della popolazione rimarrà fedele al suo sovrano e a se stesso». Anche questo è Gibbon, con grande dispiacere delle anime belle.


Cicerone e Chaucer, ideali antenati di Gibbon
Le «Memorie della mia vita» da Aragno. Nel suo «serraglio» di Losanna, mentre si converte alla fede nella ragione, il grande storico scrive un autoritratto di antica onestà
Lo squire, il pro­prie­ta­rio ter­riero che spar­tiva il tempo e il dia­letto con i suoi fit­ta­voli, non poteva essere con­fuso con il nobile lati­fon­di­sta che pos­se­deva la ricca magione in cam­pa­gna, dove non si recava quasi mai, e lo splen­dido palazzo di Lon­dra, dove tra­scor­reva il suo tempo tra affari poli­tici e mon­dani, difen­den­dosi a colpi di bat­tute ben dirette dalla aggres­si­vità dei tanti pos­si­bili sca­la­tori sociali: la futura bor­ghe­sia. A tea­tro un lord ira­sci­bile minac­ciava di botte il cal­zo­laio che pre­ten­deva di par­lare bene quanto lui; la petu­lante ser­vetta Pamela scri­veva let­tere sua­denti e sedut­tive, con grande scan­dalo di Lady Mary Wor­tley Mon­ta­gue.
Gli scrit­tori clas­sici erano i mae­stri che inse­gna­vano a par­lare e a vivere in un mondo che si era messo pru­den­te­mente al riparo dall’irosa teo­cra­zia biblica e dal pate­tico, inva­dente, credo cat­to­lico romano. «Ogni orna­mento super­fluo è riget­tato dalla fredda fru­ga­lità dei pro­te­stanti; ma la super­sti­zione cat­to­lica, che sem­pre è nemica della ragione, è spesso la madre del gusto» – scri­veva Edward Gib­bon a metà del secolo nelle sue Memo­rie della mia vita (Ara­gno edi­tore, tra­du­zione e cura di Gio­vanni Bona­cina, pp. 345, euro 18,00). Final­mente ritro­viamo la voce di quell’eccezionale uomo comune che fu autore della Sto­ria del Declino e della Caduta dell’Impero romano, e ci chie­diamo insieme a Lyt­ton Stra­chey: «Per­ché il Set­te­cento ci piace tanto?» Non solo per la divina ele­ganza, per la gra­zia che con­fe­riva signi­fi­cato a quel che è fri­volo e a quel che è vuoto. Ma – aggiunge – per la qua­lità che più ci fa infu­riare, l’incredibile auto­suf­fi­cienza di quel mondo illu­mi­nato, equi­li­brato, ama­bile; un mondo irri­pe­ti­bile.
Per­ché ci piace tanto il timo­roso Gib­bon – ci chie­diamo – che in vita non azzardò mai imprese sen­ti­men­tali o finan­zia­rie? Che nella vec­chiaia trovò il bene più grande? «Libertà è il primo desi­de­rio del nostro cuore, libertà è la prima bene­di­zione della nostra natura; e a meno che non ci leghiamo noi stessi alla catena volon­ta­ria dell’interesse, o della pas­sione, avan­ziamo nella libertà a misura che avan­ziamo negli anni.»
Nell’Introduzione alle sue Memo­rie aveva giu­sti­fi­cato la pas­sione per gli scritti auto­bio­gra­fici di autori che aveva amato: Pli­nio, Petrarca, Era­smo, Mon­tai­gne e altri, fino al nostro Gol­doni, le cui Memo­rie «sono più auten­ti­ca­mente dram­ma­ti­che che le sue com­me­die ita­liane.»
Alla nar­ra­zione sem­plice e sin­cera della pro­pria vita si dedica a par­tire dai cin­quan­ta­due anni, una volta ter­mi­nata la grande opera sto­rica, accolta con imme­diato entu­sia­smo. Lo stile sarà sem­plice e fami­liare, pro­mette, lo scopo il diver­ti­mento. È fiero della sua fami­glia, ma la fami­glia di Con­fu­cio è più illu­stre, apprezza le inse­gne del potere, ma ritiene che il Tom Jones di Fiel­ding soprav­vi­verà all’Escuriale e all’aquila asbur­gica. Quanto a sé pre­fe­ri­rebbe discen­dere da Cice­rone più che da Mario, da Chau­cer più che da nobili ante­nati.
È un ritratto fron­tale quello che pre­senta al let­tore, di antica one­stà, alquanto diverso da come è stato raf­fi­gu­rato di tre quarti in un olio di Henry Wal­ton (del 1773) e in un altro più raf­fi­nato di Rey­nolds (del 1779): paf­futo, col dop­pio mento, ma ele­gante, com­po­sto, un intel­let­tuale con­ser­va­tore, appas­sio­nato di aral­dica, ma anche illu­mi­ni­sta, scet­tico, che votò a favore dei coloni ame­ri­cani. Orfano di madre, unico soprav­vis­suto di sette fra­telli, era stato ini­ziato alla let­tura da una zia e con lei aveva spa­ziato dai clas­sici alle Mille e una notte.
Il primo anno al Mary Mag­da­len di Oxford fu delu­dente. A distanza di quarant’anni stilò una severa con­danna di Oxford e Cam­bridge, le due uni­ver­sità che dete­ne­vano il mono­po­lio dell’istruzione pub­blica, «…lo spi­rito dei mono­po­li­sti è angu­sto, pigro e oppres­sivo, il loro lavoro è più costoso e meno pro­dut­tivo rispetto a quello degli arti­giani indi­pen­denti; e i nuovi per­fe­zio­na­menti, così avi­da­mente affer­rati dalla libera com­pe­ti­zione, sono ammessi solo con lenta e astiosa rilut­tanza in que­ste cor­po­ra­zioni orgo­gliose, poste al di sopra della paura di un rivale, e al di sotto della capa­cità di con­fes­sare un errore. A stento si può spe­rare che qual­siasi loro riforma sarà un atto volon­ta­rio».
Durante la prima vacanza del 1752, a sedici anni, s’impelagò in una serie di let­ture teo­lo­gi­che che lo avvi­ci­na­rono al grande Bous­suet, il bril­lante difen­sore della dot­trina cat­to­lica, e si con­vertì al cat­to­li­ce­simo, accet­tando anche «il mistero tre­mendo» della Tran­su­stan­zia­zione. Fu uno scan­dalo: la ricon­ci­lia­zione alla chiesa di Roma era un reato di alto tra­di­mento – secondo l’autorevole giu­ri­sta Wil­liam Black­stone. Venne espulso da Oxford. E fu la sua for­tuna, per­ché da qui ebbe ini­zio l’educazione euro­pea di quel vorace let­tore, che spe­dito a Losanna da un padre furioso, tra pro­te­stanti di cul­tura fran­cese, si con­vertì di nuovo que­sta volta a una vol­tai­riana, disin­volta, fede nella ragione.
A Losanna rimase cin­que anni e vi incon­trò l’amico di una vita, il signor Dey­ver­dun. Si sco­perse feli­ce­mente seden­ta­rio, immerso nella let­tura di tutti i clas­sici nelle migliori edi­zioni allora dispo­ni­bili. Né dimen­ticò Locke, Mon­te­squieu, Bayle, Pascal, Mon­tai­gne… Incon­trò Vol­taire nelle sue fun­zioni di dram­ma­turgo e regi­sta nel pic­colo tea­tro di Mon­re­pos.
Evitò di spo­sare Made­moi­selle Cur­chod, che for­tu­na­ta­mente divenne moglie del famoso Nec­ker. Durante una breve espe­rienza mili­tare, sem­pre con Ora­zio in tasca, com­mise «alcuni atti di intem­pe­ranza». A Parigi stu­diò la topo­gra­fia di Roma antica, la geo­gra­fia dell’Italia e la scienza delle meda­glie. Era pronto per il grande viag­gio ita­liano (dall’aprile del 1764 al mag­gio dell’anno suc­ces­sivo). Scalò il Mon­ce­ni­sio, por­tato a spalla su una sedia di vimini, e visitò le prin­ci­pali città ita­liane fino a Napoli. A Roma, il 15 otto­bre 1764, fu fol­go­rato dal desi­de­rio di scri­vere la tra­gica sto­ria della deca­denza e caduta della grande città. Era sul finir della sera e stava ascol­tando i frati «men­tre can­ta­vano i vespri nel tem­pio di Giove sopra le rovine del Cam­pi­do­glio», esat­ta­mente dove sor­gono i musei capi­to­lini che attual­mente ospi­tano la mostra L’età dell’angoscia. Da Com­modo a Dio­cle­ziano, ossia l’età degli Anto­nini a cui dedica i primi capi­toli.
Lavorò per più di vent’anni alla sua Sto­ria, ter­mi­nata nel 1788, nella bella casa di Losanna, affac­ciata sul lago, tra i suoi set­te­mila volumi, «il mio ser­ra­glio», raf­fi­nando lo stile «ele­gante, sin­go­lar­mente uguale, affa­bile, som­messo…», ma che impre­ve­di­bil­mente cul­mi­nava nella «rat­te­nuta, mor­ti­fi­cata tra­gi­cità dell’ironia», ha scritto Man­ga­nelli. L’erudita, neces­sa­ria, post­fa­zione di Bona­cina non ci fa dimen­ti­care la gustosa silhouette del famoso sto­rico, trac­ciata dalla penna impe­ni­tente di un suo con­tem­po­ra­neo, Horace Wal­pole: «Mr. Gib­bon, mi dispiace che pro­prio voi vi siate impe­la­gato in un argo­mento così indi­ge­sto come la sto­ria di Costan­ti­no­poli. Ci sono tanti di que­gli Ariani e Euno­miani e semi-Pelagiani; e c’è un con­tra­sto così assurdo tra gli usi dei Romani e dei Goti … che seb­bene abbiate scritto la sto­ria come meglio non si poteva, ho paura che non avrò la pazienza di leg­gerla.’ Lui arrossì. E i suoi linea­menti tondi si assot­ti­glia­rono for­mando angoli acuti. Con­trasse la boc­cuc­cia, tam­bu­reg­giò sulla tabac­chiera, e disse ‘Non ero mai stato rias­sunto così – così bene voleva dire – ma se l’era inghiot­tito … Be’, da allora non l’ho più rivi­sto, né mi ha man­dato il terzo volume come promesso’».



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