mercoledì 11 febbraio 2015

Non c'è più decoro nelle istituzioni

Storia dell'insolenza. Offese, insulti e turpiloquio nella politica italiana da Cavour a Grillo
Antonello Capurso: Storia dell’insolenza. Storia dell'insolenza. Offese, insulti e turpiloquio nella politica italiana da Cavour a Grillo, Il settimo libro, pp. 172, € 16

Risvolto

Un secolo e mezzo di storia politica italiana per la prima volta visto attraverso la lente dell'offesa e del vituperio, una specialità in cui siamo maestri insuperati, più ancora di francesi e inglesi. Tra insulti e risse, schiaffoni e turpiloquio, dal celebre scontro tra Garibaldi e Cavour ai peones da rissa del dopoguerra, dalla fine della prima repubblica ai più recenti exploit di Grillo. Ma anche il racconto di celebri insolenze, di duelli, di insulti popolari lanciati contro Mussolini mentre i gerarchi se ne dicono di tutti i colori. E ancora: la disfida tra Scalfaro e Totò per colpa di una donna, la grande zuffa del 1953, l'insolenza ideologica di Togliatti, gli insulti immaginifici di D'Annunzio e Cossiga, la proliferazione via internet di gravità finora impensabili. 


Da Garibaldi a Grillo onorevoli insulti 
Un libro ripercorre laStoria dell’insolenza nella politica italiana dopo l’Unità Nell’austero Parlamento subalpino risuonavano offese verbali simili a quelle dei giorni nostri 

Marcello Sorgi La Stampa 11 2 2015

Chi l’avrebbe mai detto che nell’austero Parlamento subalpino di piazza Carignano a Torino, il primo dell’Italia unita, dovessero risuonare insulti simili a quelli che in quasi due secoli di vita parlamentare è diventato abituale, purtroppo, ascoltare nell’aula di Montecitorio, e in tempi di Prima, Seconda e Terza Repubblica? E invece basta leggere Storia dell’insolenza, un prezioso saggio di Antonello Capurso (ed. Il settimo libro, pp. 172, € 16) per scoprirlo.
Urla, rumori, minacce, che il pudico servizio piemontese di resoconti parlamentari dell’epoca faticava ad annotare, nascondendoli dietro frasi di circostanza, come «segni d’impazienza», «disapprovazione», «bisbiglio per ilarità». Ma cosa appunto potesse provocare quelle reazioni, allargate spesso al pubblico delle tribune continuamente ammonito, si cercava di tacere. Come ad esempio lo scontro epico che si svolse il 18 aprile 1861 tra Cavour e Garibaldi, uno spettacolo così lontano dal contegno formale e dal linguaggio della cautela che la giovane nazione si era assegnata, da spingere Vittorio Emanuele a confidare a Urbano Rattazzi che se non fosse stato re, ma soltanto duca, avrebbe sfidato Garibaldi a duello: «Ma come re non posso chiedere certe soddisfazioni».

L’Eroe dei Due Mondicontro Cavour
Dell’inquietudine di Garibaldi per il mancato riconoscimento, che imputava a Cavour, dei meriti dei suoi Mille e dell’esercito meridionale che aveva consegnato il Sud del Paese alla monarchia sabauda, il governo torinese era avvertito, ma non aveva dato troppa importanza alle voci che attribuivano all’Eroe dei Due Mondi una valutazione molto negativa della situazione. Il 30 marzo, ricevendo in Sardegna una delegazione operaia, Garibaldi aveva parlato di una «turba di lacchè» attorno a Cavour. Aggiungendo che Vittorio Emanuele era «circondato da un’atmosfera corrotta», ciò che aveva fatto infuriare il re.
Non ricevendo alcun segno d’attenzione da parte del governo, l’Eroe aveva deciso di andare a dire le stesse cose in Parlamento. Così, deciso allo scontro, il 18 aprile era piombato nell’aula di Palazzo Carignano, vestito «in costume stranissimo», com’era stato notato, poncho grigio e camicia rossa, ed era stato accolto con applausi scroscianti dalle tribune. Di lì a poco aveva accusato il governo di voler provocare «una guerra fratricida» tra militari del Nord e del Sud per il diverso trattamento riconosciuto ai primi a scapito dei secondi. Offese, proteste, sospensione della seduta, durissima replica da parte del conte Camillo Benso. Il Parlamento in cui si sarebbe dovuto adoperare il francese, la lingua della diplomazia, per dare maggiore solennità alle decisioni formali, in questo modo perdeva la sua verginità.
Né si trattava di una caduta di stile occasionale. Pochi mesi dopo, infatti, morto Cavour e salito al suo posto Bettino Ricasoli, lo ieratico leader della Destra storica che era solito indossare sempre guanti neri, era toccato a lui fronteggiare di nuovo l’irruenza di Garibaldi. Una scena sconfortante che aveva spinto il deputato Angelo Brofferio a commentare: «L’Italia è da compiangere perché ha due capi, Garibaldi e Ricasoli, l’uno senza testa, l’altro senza testicoli».
Una statisticasconfortante
Un anno dopo, nel 1862, nel suo libro I moribondi di Palazzo Carignano, una specie di trattatelo di antipolitica ante litteram, Ferdinando Petrucci della Gattina pubblicava una disarmante statistica sulla composizione del Parlamento: «Su 438 deputati vi sono 2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori o gran croci, 117 cavalieri di cui 3 della Legion d’onore...», e così via fino a concludere «non si dirà giammai per certo che il nostro è un Parlamento democratico! Vi è di tutto, il popolo eccetto». Al libello di Petrucci seguirà poco dopo un altrettanto famoso pamphlet del cattolico Felice Borri, difensore del potere temporale dei Papi, dall’eloquente titolo Storia dei ladri del Regno d’Italia.

Con Mussoliniil salto di qualità
Se queste erano le premesse della vita politica e dei comportamenti parlamentari nella neonata Italia riunificata sotto i Savoia, non c’è da meravigliarsi del livello di degrado toccato in quella repubblicana, prima e dopo l’avvento dell’epoca degli insulti via etere, nella stagione in cui la vita politica s’è trasferita in tv e nei talk-show e deputati e senatori non distinguono più quando si trovano davanti alle telecamere oppure no. Un salto di qualità decisivo verrà ovviamente con il fascismo e con Mussolini, che per prendere le distanze dal sistema politico che vuole abbattere parlerà di «gruppo di uomini sifilizzati di parlamentarismo», riferendosi alla «malfamata tribù giolittiana».
Andando avanti, negli Anni 60 Moro si lascia scivolare addosso ogni genere di insulto. Almirante lo definisce «ipocrita, fariseo e amante dei cimiteri». Pajetta apostrofa i democristiani «cornutacci e forchettoni». Il monarchico Covelli accusa di essere «un vile» La Malfa, che replica: «Io la disprezzo». Nel 1984 succede di tutto durante la discussione sulla legge sulla violenza sessuale, volano parole come «puttane», «pederasti», la presidente Iotti è costretta a espellere deputati che fanno gesti osceni. Nel 1996 l’Udc D’Onofrio accuserà Dini di aver formato un «governo transessuale»; e poco dopo Sgarbi, il più creativo di ogni tempo in fatto di insulti, descriverà Mario Segni come un «amante ideale, perché cambia sempre posizione». 

L’escalationdel Picconatore
Dire chi ha battuto il record della storia dell’insolenza è impossibile. Ma certo, nell’escalation che mai si ferma, due pietre miliari spettano al «picconatore» Cossiga e a Beppe Grillo. Per il Presidente che demolì la Prima Repubblica, De Mita era «un bugiardo e un gradasso», Cirino Pomicino «un analfabeta», Zolla «un analfabeta di ritorno» e Leoluca Orlando «uno sbandato mal consigliato da un prete fanatico che crede di vivere nel Paraguay del Seicento». Per il fondatore del Movimento 5 Stelle, che cucì addosso a Berlusconi il soprannome di «psiconano», non basterebbe un intero libro. «Anno nuovo vita nuova», sintetizza Altan, in una delle sue caustiche vignette, il problema dell’educazione da ritrovare. «Rispetto per quei delinquenti degli avversari e quegli stronzi degli alleati».

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