Eppure ci voleva l’era della confusione digitale e dell’overdose
continua di informazioni per farci capire che solo l’assenza di certezze
può aiutarci a restare liberi
NEL cercare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Le
grandi guide del popolo, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al
dubbio». A pronunciare tali parole non è un filosofo neoscettico, ma
papa Francesco nella sua prima intervista a Civiltà Cattolica . In molti
hanno visto in esse, più che una semplice apertura all’esigenza di
rinnovare il linguaggio della Chiesa, la testimonianza del ruolo
crescente che la dimensione del dubbio ha assunto nella nostra società.
In questo senso il grande successo che sta riscontrando in Francia,
anche a livello di partecipazione ai corsi universitari, la “zetetica” —
come Henri Broch ha definito l’arte del dubbio nei confronti di
settarismi, faziosità, dogmi ammantati di pretese scientifiche — non può
sorprendere: viviamo immersi un un’epoca in cui ci arriva continuamente
una massa enorme di informazioni. E così il controllo sulla
autenticità, sulla buona fede, sulla correttezza o sulla logica interna
di qualsiasi messaggio, dal tweet di un personaggio noto a un documento
ufficiale di un’istituzione, diventa un’attività cruciale, un meccanismo
di sopravvivenza: l’unico esercizio possibile per non restare
impigliati nelle miriadi di reti della propaganda presenti su internet
così come nei prodotti culturali più tradizionali, nella politica così
come nelle discipline accademiche, nei video degli estremisti islamici
così come nelle verità di regime di ogni luogo e tempo.
È chiaro che, in questo contesto, l’arte del dubbio cambia pelle. Da
perno di sistemi di pensiero illuministi o liberal di vario spessore,
diventa adesso quello che in fondo è sempre stata: un metodo di
conoscenza, un approccio da applicare in maniera trasversale in
qualsiasi campo della nostra vita. Una guida indispensabile in un mondo
globalizzato, spezzettato, confuso eppure sempre a rischio di finire
intrappolato nelle spire del pensiero unico di turno.
Per queste sue caratteristiche, il rilievo filosofico del dubbio
naturalmente è antico — può essere fatto risalire alla classica formula
socratica del “sapere di non sapere”. Teorizzato dal Pirrone già nel III
secolo avanti Cristo, ha trovato una prima formulazione cristiana,
condizionata alla verità divina, con sant’Agostino. Successivamente
Descartes lo ha posto alla base della conoscenza: pur dubitando di
tutto, non si potrà mai dubitare di essere, proprio perciò, un soggetto
pensante. Se Pascal e Hume hanno diversamente sottoposto l’idea di
certezza assoluta a una critica corrosiva, è stato Kant ad assumere a
oggetto di dubbio la ragione stessa, individuandone possibilità e
limiti. Tutta la discussione novecentesca sulla relazione indissolubile
tra dubbio e certezza — sostenuta da Wittgenstein, ma anche,
diversamente, da Popper, Kuhn, Lakatos — ha insistito sulla necessaria
falsificabilità dei paradigmi scientifici.
D’altra parte se Kierkegaard scrive in Aut Aut che il dubbio appartiene
al movimento interno del pensiero, nel suo Zibaldone Leopardi afferma
che «piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al
dubbio». Su questa linea di ragionamento, che desume la necessità di
dubitare dal carattere finito e incompiuto del nostro sapere, Vladimir
Jankélévitch, in Da qualche parte nell’incompiuto ( Einaudi, a cura di
Enrica Lisciani Petrini), sostiene che, contro le false certezze, va
tenuto fermo «il dubbio rispetto alle verità e a se stessi». E tuttavia
fin qui non siamo ancora pervenuti al cuore del problema. Perché
qualcosa che appartiene alla storia dell’intera tradizione filosofica
torna oggi a interpellarci con particolare urgenza? Cosa rende la
richiesta all’arte del dubbio così pressante?
Già alla fine degli anni Settanta un volume collettivo curato da Aldo
Gargani, con il titolo Crisi della ragione ( Einaudi), monopolizzò il
dibattito filosofico in concomitanza con il successo internazionale del
libro sul postmoderno di Jean-François Lyotard (Feltrinelli). Ciò che in
quegli anni pareva incrinarsi era un intero regime di senso che per un
lungo periodo aveva costituito al contempo la struttura indubitabile del
reale e un modello normativo di comportamento. A venire meno era il
primato del passato sul presente — l’idea che tutto ciò che avveniva
fosse predeterminato da quanto lo precedeva secondo un nesso diretto tra
cause ed effetti. Quando invece ai codici razionali si accompagnano
sempre elementi imprevedibili di tipo intuitivo, emotivo o pragmatico,
spesso portati a configgere con essi.
Ma una scossa ancora più destabilizzante si è verificata negli ultimi
anni, quando, con il nuovo disordine globale, tutti i riferimenti che
fino a qualche tempo fa hanno guidato i nostri comportamenti sembrano
essere venuti meno. Da qui nasce la spinta a una ricerca ininterrotta,
capace di sfidare dogmi e luoghi comuni. Il termine stesso di zetetica
rimanda al verbo greco che significa “cercare”. Alla sua base vi è un
bisogno urgente di spirito critico, una diffidenza crescente rispetto
alla continua manipolazione che media spregiudicati o asserviti,
sondaggi con esiti preconfezionati, dispositivi di propaganda ci
rovesciano quotidianamente addosso.
Gli attentati di Parigi, rivolti espressamente contro la libertà di
pensiero e di scrittura, hanno rinforzato ulteriormente questa esigenza,
come dimostra la pronta scalata delle opere di Voltaire nella zona alta
delle classifiche di vendita. Già preparata dal successo di
instancabili partigiani del dubbio come Montaigne e Diderot, il ritorno,
non solo da parte dei francesi, a Voltaire rilancia la tradizione dei
lumi contro l’accecamento prodotto dal fanatismo. Tale impulso zetetico,
d’altra parte, si innesta in un orizzonte filosofico già orientato in
direzione laica e libertaria. Esso rimanda a filoni culturali diversi,
che hanno trovato un primo punto di aggregazione nel “New Atheism”
americano — teorizzato da filosofi e saggisti come Richard Dawkins,
Daniel Dennet, Sam Harris e Christopher Hitchens. Ciò che li collega in
uno stesso punto di vista non è la polemica contro particolari
religioni, ma contro qualsiasi tipo di presupposto dogmatico che vincoli
la ricerca scientifica e anche i comportamenti pratici. Si tratta di
una interpretazione radicale del darwinismo, che sottrae il fenomeno
della vita al rimando a qualcosa che ne trascenda lo sviluppo specifico.
A questa corrente — che dall’America si è diffusa in Germania, in
Francia, in Italia — si affiancano altri filoni libertari ispirati in
vario modo alla tradizione illuministica. Il neo-materialismo
individualista di Michel Onfray, autore di un discusso Trattato di
ateologia ( tradotto in Italia da Fazi), è stato oggetto di un ampio
dibattito e anche di forti critiche. Portando agli esiti estremi la
dottrina della tolleranza che ha i suoi padri in Locke e nello stesso
Voltaire, la sua prospettiva è caratterizzata da una critica preventiva
di qualsiasi nozione che non sia passata al vaglio dell’analisi
razionale. L’altra scuola di pensiero che, forse con maggiore
consapevolezza teoretica, rompe con ogni forma di trascendenza è quella
che guarda da un lato al pensiero di Spinoza e dall’altro alla
genealogia di Nietzsche. Ciò spiega la forte ripresa di interesse per un
autore come Gilles Deleuze, del quale DeriveApprodi ha appena edito il
film-intervista, a cura di Claire Parnet, dal titolo Abecedario. Forse
prevedendo la svolta in atto, Michel Foucault aveva una volta
pronosticato «che un giorno il secolo sarà deleuziano». Prudentemente
non aveva specificato di quale secolo parlava.
Università di Grenoble “Così insegniamo ai nostri alunni il pensiero critico”
di Anais Ginori Repubblica 22.2.15
PARIGI LIBERI di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di
Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di
“Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di
studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e
unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad
altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire
esprit critique et sciences.
Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV
secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione
scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane,
Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato
in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi
sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».
Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni
non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel
nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina,
dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle
scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia,
Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender
studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di
Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a
dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».
Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?
«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o
l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il
pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni
intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il
critical thinking ».
È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una
benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto
accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di
annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rap-
presentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi
economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno
dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad
esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre,
la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile
errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche
settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio,
bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».
La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con
la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello
che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il
nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».
Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non
sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità
di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti,
come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di
epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il
cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e
semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».
Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e
libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro
di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione,
n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che
impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta
vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica
dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la
censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».
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