James A. Secord: Visions of Science: Books and readers at the dawn of the Victorian age , Oxford University Press, Oxford, pagg. 306, £ 18. 99
Risvolto
The first half of the nineteenth century witnessed an extraordinary
transformation in British political, literary, and intellectual life.
There was widespread social unrest, and debates raged regarding
education, the lives of the working class, and the new industrial,
machine-governed world. At the same time, modern science emerged in
Europe in more or less its current form, as new disciplines and
revolutionary concepts, including evolution and the vastness of geologic
time, began to take shape.
In Visions of Science,
James A. Secord offers a new way to capture this unique moment of
change. He explores seven key books—among them Charles Babbage’s Reflections on the Decline of Science, Charles Lyell’s Principles ofGeology, Mary Somerville’s Connexion of the Physical Sciences, and Thomas Carlyle’s Sartor Resartus—and
shows how literature that reflects on the wider meaning of science can
be revelatory when granted the kind of close reading usually reserved
for fiction and poetry. These books considered the meanings of science
and its place in modern life, looking to the future, coordinating and
connecting the sciences, and forging knowledge that would be appropriate
for the new age. Their aim was often philosophical, but Secord shows it
was just as often imaginative, projective, and practical: to suggest
not only how to think about the natural world but also to indicate modes
of action and potential consequences in an era of unparalleled change.
Visions of Science opens our eyes
to how genteel ladies, working men, and the literary elite responded to
these remarkable works. It reveals the importance of understanding the
physical qualities of books and the key role of printers and publishers,
from factories pouring out cheap compendia to fashionable publishing
houses in London’s West End. Secord’s vivid account takes us to the
heart of an information revolution that was to have profound
consequences for the making of the modern world.
È il progresso, si stampi!
In Inghilterra la macchina da stampa a vapore portò una diffusione della conoscenza senza precedenti Un rivolgimento per il pensiero e i costumi
di Franco Giudice Il Sole Domenica 8.2.15
Mai
forse l’Inghilterra fu così prossima alla rivoluzione come nei decenni
precedenti l’ascesa al trono della regina Vittoria (1837). Certo,
estendendo, anche se non di molto, il numero degli aventi diritto al
voto, il Reform Act del 1832 mise fine ai peggiori abusi del vecchio
sistema politico. Ma gli accesi dibattiti sulla riforma avevano rivelato
una nazione sull’orlo di un abisso, profondamente turbata da
manifestazioni di massa spesso sfociate in violenti tumulti. D’un
tratto, il mondo decoroso della provincia inglese descritto da Jane
Austen, popolato perlopiù da uomini e donne delle classi medio-alte,
cedeva il passo alle strade affollate della Londra di Dickens, con la
tremolante illuminazione a gas che proiettava le ombre inquietanti di
personaggi come il Fagin di Oliver Twist.
Insieme alle apprensioni
sociali, si nutrivano però anche grandi speranze per un futuro di
maggiori libertà civili e di progresso tecnologico. Un clima colto con
arguzia da una caricatura del 1828, appartenente alla celebre serie di
vignette intitolata The March of Intellect, che raffigura un automa
gigante. È un mostro che ricorda i dipinti di Arcimboldo: due lampade a
gas per occhi, una macchina da stampa a vapore come corpo, la testa
fatta di libri, con sopra l’edificio della London University a mo’ di
corona, ossia la prima università britannica, fondata nel 1826, che
ammetteva studenti senza distinzioni di sesso, razza o fede religiosa.
Incarnava la grande macchina dell’intelletto, simbolo della
disponibilità universale del sapere, che nel suo incedere implacabile
impugnava un’enorme scopa con cui spazzava via l’ordine stabilito e
cambiava ogni cosa. E che James A. Secord, attento studioso dell’impatto
delle teorie scientifiche sulla società inglese del XIX secolo, ha
scelto come copertina del suo libro.
Siamo all’alba dell’età
vittoriana, tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, quando le
innovazioni tecnologiche, come appunto la macchina da stampa a vapore,
avevano reso i libri più economici e accessibili a un pubblico di massa.
Fu in questo contesto che nacquero movimenti come la Society for the
Diffusion of Useful Knowledge, animati dalla convinzione, di matrice
baconiana, che il sapere doveva essere di pubblica utilità. Non
sembravano esserci dubbi: l’atteggiamento razionale della scienza era
l’unico rimedio al malessere sociale, politico e religioso del paese.
Ecco perché bisognava favorirne la diffusione: la scienza aveva il
potere di trasformare non solo il modo di leggere, ma anche i pensieri
più intimi e le azioni delle persone.
Al culmine di questi
cambiamenti, ci fu un proliferare di libri che riflettevano sulla natura
e sul significato della scienza, dando luogo a un più ampio dibattito
che coinvolgeva questioni di natura politica e religiosa. Non sfuggiva
infatti che le nuove scoperte potevano essere usate sia per sostenere
sia per demolire istituzioni e concezioni tradizionali.
Furono libri
influenti e controversi. Apparvero tutti in una manciata di anni, tra il
1830 e il 1836, e proponevano tutti una visione del futuro basata sulle
possibili conseguenze della scienza per la vita quotidiana. Secord li
analizza in dettaglio uno per uno, prestando attenzione al modo in cui
furono presentati, al prezzo di copertina, alla qualità della carta, al
formato e, soprattutto, a come vennero letti dai contemporanei. E
nell’immergersi nel vortice di idee e di reazioni che sollevarono, ci
restituisce una vivida rappresentazione di «un momento storico unico» in
cui il futuro della civiltà sembrava a portata di mano.
Ma proprio
sul tipo di futuro che ci si doveva aspettare, le opinioni erano assai
diverse. Così, quando nel 1830 uscirono postume le Consolations in
Travel, or the Last Days of a Philosopher, i lettori si trovarono di
fronte a un’opera piuttosto curiosa. L’autore era Humphry Davy, il più
celebrato uomo di scienza dell’epoca, a lungo presidente della Royal
Society, che aveva scoperto nuovi elementi chimici e inventato la
lampada di sicurezza per i minatori. La stessa persona che ora nelle
Consolations, il suo testamento intellettuale, si lanciava in ardite
disquisizioni sull’immortalità, sul ruolo dei grandi uomini nella storia
e nella scienza, senza risparmiarsi viaggi fantastici su altri pianeti e
incontri visionari di varia natura. Era la risposta di Davy alla crisi,
che prendeva le distanze dai tentativi di democratizzare la conoscenza,
facendo appello invece a quei pochi spiriti eletti cui bisognava
affidare il destino della nazione.
Una concezione top-down del sapere
dunque, condivisa anche da Charles Lyell, sebbene con altre finalità.
Lyell intendeva anzitutto rivendicare il carattere di scienza alla
geologia, la più controversa delle discipline emergenti, liberandola
dall’accusa di essere troppo speculativa e rifondandola su solide basi
induttive. Fu con quest’ambizione che scrisse i Principles of Geology,
pubblicati in tre volumi tra il 1830 e il 1833. Ma non era appunto a
lettori comuni che Lyell si rivolgeva, esclusi a priori dalla scelta di
mettere sul mercato l’opera a un prezzo troppo elevato. I suoi
destinatari erano le classi medio-alte e le autorità politiche e
accademiche; l’obiettivo rassicurarle che la geologia non costituiva
affatto una minaccia per la religione, e la si poteva quindi inserire
tra gli insegnamenti universitari, divulgandone poi i risultati presso
il volgo. Un’impresa per nulla semplice, poiché la prima cosa che
colpiva nei Principles era il rifiuto di considerare attendibile il
racconto biblico. Per Lyell, la conformazione attuale della Terra non
era il risultato di catastrofi geologiche come il diluvio universale,
bensì di processi naturali e uniformi operanti su intervalli di tempo
inimmaginabilmente più lunghi dei seimila anni contemplati da quel
racconto.
Non tutti però approvavano la strategia elitaria di Davy e
Lyell. Anzi, altri autori auspicavano che la scienza diventasse popolare
e che i loro libri raggiungessero un pubblico quanto più ampio
possibile. Il tono generale di tali opere era esemplificato dal
Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy (1831)
dell’astronomo John Herschel. Un testo chiaro, equilibrato e molto
economico, che ebbe pertanto un enorme successo. Ma che, a differenza di
quanto pensiamo oggi, non fu considerato un contributo alla riflessione
epistemologica sull’induzione. Per i numerosi lettori dell’epoca, come
ci spiega Secord, il Discourse fu soprattutto un “manuale di
comportamento”: una guida a pensare secondo i criteri di razionalità
tipici della pratica scientifica.
A ispirare questi autori era la
fede democratica che la scienza potesse essere esercitata da chiunque,
forse perfino dalle donne. Lo dimostrava lo straordinario caso di Mary
Sommerville, una matematica scozzese autodidatta, che nel 1834 si
conquistò la ribalta con un’opera intitolata On the Connexion of the
Physical Sciences. Un libro ambizioso, subito diventato un best seller,
dove si proponeva una visione unitaria delle scienze, quando le
discipline stavano giusto iniziando a definire i propri territori
d’indagine. L’autrice non annunciava nuove scoperte, ma la sua
originalità consisteva nello spaziare dall’astronomia alla fisica,
dall’elettricità al magnetismo, con uno stile narrativo accattivante e
accessibile, trattando argomenti complessi senza usare nemmeno
un’equazione. Insomma, un libro alla portata di tutti, che la rivista
popolare «Mechanics’ Magazine» promuoveva ed esaltava: «Leggetelo!
Leggetelo!»
La «Marcia dell’Intelletto», come sottolinea Secord,
procedeva in realtà lungo sentieri non ancora del tutto esplorati, molti
dei quali avrebbero condotto a vicoli ciechi. Eclatante, in tal senso,
fu la parabola della frenologia, la “scienza” che sosteneva di
individuare le attitudini morali e intellettuali dall’organizzazione del
cervello quale risultava dalla forma esteriore del cranio. A decretarne
il successo in Inghilterra fu The Constitution of Man di George Combe.
Un’opera pubblicata nel 1828, ma che suscitò un enorme interesse
soltanto nel 1836, quando venne ristampata in un’edizione economica,
vendendo in pochi mesi 43.000 copie. La frenologia sembrava offrire la
possibilità di prevenire i crimini, di riformare la scuola e più in
generale la società. Queste potenziali applicazioni impressionarono
politici e primi ministri, ma destarono anche tanto scetticismo, non
privo di affilata ironia. Al punto che la frenologia fu parodiata come
«Toe-tology», la scienza cioè che definiva il carattere degli individui
dalla forma dei loro piedi. Secord ricostruisce con mano sicura il clima
culturale dell’Inghilterra previttoriana, catturando l’intenso
entusiasmo del pubblico di massa per la nuova letteratura scientifica in
un’epoca in cui lo scienziato non esisteva ancora come una riconosciuta
figura professionale. Mancava perfino il termine, che fu coniato da
William Whewell nel 1834: scientist appunto, in analogia con artist e
journalist. Ma, per quanto strano ci possa apparire, la parola non aveva
affatto un valore positivo. Per Whewell, gli scienziati si occupavano
soltanto di dati e di esperimenti, mentre spettava ai filosofi naturali
come lui riflettere sulle implicazioni morali e metafisiche del loro
lavoro. A suo avviso la differenza tra lo scienziato e il filosofo
naturale era «come quella tra un grande generale e un buon ingegnere».
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