«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
domenica 8 febbraio 2015
Una traduzione in italiano del 1239
Nello Bertoletti: Un’antica versione italiana dell’alba di Giraut de Borneil, con una nota paleografica di Antonio Ciaralli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Risvolto
L’alba Reis glorios di Giraut de Borneil è uno dei componimenti
più intensi ed enigmatici della letteratura trobadorica. Questo volume
ne rende nota una versione in volgare italoromanzo, trascritta nei primi
decenni del Duecento (non oltre il 1239-40) in un codice ora conservato
presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Dopo la scoperta della
canzone ravennate, del frammento zurighese di Giacomino Pugliese e del
frammento piacentino, la poesia italiana delle origini si arricchisce
dunque di un nu9vo reperto, che è prezioso testimone di un’antica
ricezione italiana dell’alba provenzale, cioè di un genere destinato a
non avere in séguito alcun successo nella penisola. L’interesse del
testo è accresciuto dal fatto che l’analisi linguistica consente di
ricondurre questo innovativo esperimento di traduzione poetica in
volgare di sì, compiuto in piena autonomia rispetto ai Siciliani, a
quell’area cisalpina occidentale, fra Piemonte e Liguria, che ha
conosciuto la prima e la più radicata acclimatazione della poesia in
lingua d’oc.
Scoperte filologiche La nuova alba dell’italiano
Nello Bertoletti ha scoperto e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini Datato 1239, in dialetto settentrionale, con ogni probabilità piemonese
di Claudio Giunta Il Sole Domenica 8.2.15
«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
«Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena». Sono parole di Francesco De Sanctis, è l’inizio della sua Storia della letteratura italiana. Lo studente che le ripetesse oggi a un esame universitario verrebbe subito bocciato, perché ciò che oggi sappiamo circa le origini della nostra poesia è molto diverso (e molto di più) rispetto a ciò che sapeva De Sanctis.
Sappiamo intanto che la
cronologia della scuola siciliana è diversa da quella «comunemente
creduta» ai tempi di De Sanctis, e che non ci sono ragioni per
attribuire a Cielo (non Ciullo) d’Alcamo, e men che meno a Folcacchiero
da Siena, il ruolo dell’iniziatore. Sappiamo che esistono testi in versi
di argomento religioso-devozionale che risalgono all’ultimo quarto del
dodicesimo secolo o al primo quarto del tredicesimo (e uno di questi
testi, per quanto atipico, è poi il Cantico delle creature di san
Francesco). Ma sappiamo anche che le strade della poesia profana furono
meno lineari di quanto s’immaginasse non solo sino a De Sanctis ma sino a
una quindicina d’anni fa, perché i filologi hanno trovato, frattanto,
testi poetici databili agli ultimi decenni del secolo XII o ai primi del
XIII in aree eccentriche rispetto a quelle in cui nasce e si sviluppa,
nel secondo quarto del Duecento, la tradizione cosiddetta “siciliana”:
si tratta, precisamente, della canzone Quando eu stava scoperta da
Alfredo Stussi in un’antica pergamena ravennate, e del frammento
piacentino Oi bella scoperto da Claudio Vela (2005).
Ora il quadro
cambia di nuovo, e non per un dettaglio, perché Nello Bertoletti ha
scoperto (non in un archivio ma tra le carte di un manoscritto della
Biblioteca Ambrosiana) e pubblicato un nuovo testo poetico delle origini
che comincia così:
Aiuta De’, vera lus et gartaç,
rex glorïoso, segnior, set a vu’ platz,
chìa mon conpago sê la fedel aiuta.
E’ nun lo vite, po' la note fox veiota.
Ovvero,
nella traduzione offerta dallo stesso Bertoletti: «Sii d’aiuto Dio,
vera luce e splendore, re glorioso, signore, se a voi piace, siate il
fedele aiuto del mio compagno. Io non l’ho visto, da quando si è vista
la notte». Il testo prosegue per altre quattro stanze, nelle quali l’io
poetico, dopo aver invocato Dio, si rivolge a un «Bè conpagnó», cioè a
un «Bel compagno», invitandolo a svegliarsi, perché l’alba si avvicina.
Alba
è appunto il nome del genere poetico a cui questo testo appartiene,
genere (o piuttosto motivo) diffuso in molte letterature, ma da un lato
poco o nulla presente in quella italiana (giusto qualche traccia nel
Duecento, nei cosiddetti Memoriali bolognesi), dall’altro invece
vitalissimo fra i trovatori, cioè tra quei poeti che vissero nella
Francia meridionale, e successivamente anche nell’Italia del nord, tra
la fine del secolo XI e la fine del secolo XIII.
Ebbene, quali sono i
motivi d’interesse di questa inedita alba? Molti, a cominciare
dall’epoca in cui è stata scritta. Al centro della medesima carta sulla
quale è trascritto il testo si legge infatti una data, «Millesimo
Ducentesimo Trigesimo nono», cioè 1239: e Bertoletti mostra in maniera
molto convincente (confortato anche dalla perizia paleografica di
Antonio Ciaralli) che questa data è stata vergata in un momento
successivo alla trascrizione di Aiuta De’: il 1239 rappresenta dunque un
sicuro termine ante quem per la composizione e la copia del nostro
testo, che sarà pertanto almeno sincrono rispetto alle poesie che in
quegli anni venivano composte, molti chilometri più a sud, alla corte di
Federico II. Un altro motivo d’interesse è la pertinenza geografica del
testo. I quattro versi citati sono difficili da capire perché non sono
scritti nel limpido toscano, o nel siciliano toscanizzato, dei grandi
poeti del Duecento che si leggono a scuola, ma in un dialetto
settentrionale. Ora, buona parte degli sforzi di Bertoletti sono appunto
rivolti a precisare di quale dialetto settentrionale si tratti, e al
termine di un’analisi davvero esemplare per ampiezza e rigore Bertoletti
conclude che l’origine del testo va ricondotta con ogni probabilità al
Piemonte, e forse al Piemonte meridionale, cioè a un’area compresa «tra
l’Oltregiogo ligure, le Langhe, l’Alessandrino e il Monferrato». Dato
interessantissimo: da un lato perché di poesia scritta in un volgare
assegnabile al basso Piemonte non s’era mai scoperta traccia sino ad
ora; e dall’altro perché il basso Piemonte non era però, nel primo
Duecento, una regione in cui mancassero i poeti: solo che scrivevano e
cantavano non nel volgare locale bensì in lingua occitana.
Col che
veniamo al terzo (e forse maggiore) motivo d’interesse della scoperta di
Bertoletti. Aiuta De'’on è un testo originale bensì la traduzione di
una celebre alba del trovatore Giraut de Borneil, quello che Dante nel
De vulgari eloquentia indica come esemplare della «poesia della
rettitudine». L’alba di Giraut ha però un incipit diverso, comincia
infatti Reis glorios, verays lums e clardatz (dove il Re glorioso è
appunto Dio), né – come Bertoletti documenta minuziosamente nel suo
commento – è questa l’unica licenza che il traduttore piemontese si
prende nei confronti del suo testo-modello. Ma dimostrato che, comunque,
di traduzione si tratta, il fuoco della ricerca si concentra appunto
sul testo-modello e sulla sua folta tradizione manoscritta: a quale ramo
di questa tradizione apparteneva il manoscritto che il poeta-traduttore
piemontese aveva di fronte a sé, ovvero quale “versione” di Reis
glorios leggeva costui?
Ed ecco l’ultima sorpresa: perché la
tradizione a cui mostra di attingere il nostro poeta-traduttore è la
stessa a cui attingerà il canzoniere (assai più tardo) che i
provenzalisti conoscono come «T», canzoniere cruciale anche per la
letteratura italiana perché fu probabilmente attraverso un manoscritto
simile a «T» che Giacomo da Lentini e gli altri siciliani fecero
conoscenza con la poesia trobadorica. Non solo: è anche la medesima
tradizione alla quale attinse l’anonimo copista siciliano di un altro
manoscritto latore di Reis glorios, oggi conservato a Monaco di Baviera.
La conclusione di Bertoletti è sobria (com’è sobrio, misuratissimo,
tutto questo suo splendido lavoro), ma darà certo materia di riflessione
agli specialisti: «avremmo quindi la traccia concreta della
trasmissione di un testo trobadorico [Reis glorios] dalla Provenza alla
Sicilia attraverso una mediazione italiana nordoccidentale (piemontese),
anziché veneta».
Marco Roncalli Avvenire 5 marzo 2015
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