domenica 8 febbraio 2015
Tradotti i racconti di João Guimarães Rosa
João Guimarães Rosa: Tutameia. Terze storie, traduzione di Roberto Francavilla e Virginia Caporali, Del Vecchio editore, pp. 282, euro
16,00
Risvolto
Per la prima volta in traduzione italiana un grande inedito di Guimarães Rosa, Tutameia. Terceiras estórias,
una raccolta di racconti che esaltano le caratteristiche più peculiari e
affascinanti della sua scrittura in un genere distante dalle lunghe
narrazioni con cui si è soliti identificare l’autore di Grande Sertão.
Un’infinità di personaggi e approcci letterari, di immagini, luoghi,
percezioni: donne che per raffreddare l’ardore dei compagni
somministrano droghe e poi con aria virginale inducono alla lussuria,
assassinii, amori e gioie sullo sfondo di miserie e ricchezze che non
hanno nulla a che fare con il denaro. E ancora: la regione del
Centro–Oeste, il sertão minerario, le fazendas, i piccoli paesi, le
grandi fattorie e i loro mandriani. Quaranta racconti brevi e quattro
prefazioni “a malapena non narrative” che rendono l’insieme un
meccanismo perfetto, in cui tutto è connesso e intriso di senso,
dall’indice alle epigrafi, e in cui ogni parola si connette a ogni altra
come in una perfetta ragnatela inondata da gocce di pioggia che al sole
muta continuamente luminosità e forma.
«Tutameia», apologhi in una prosa sfavillante
Classici brasiliani . Dalla strepitosa inventività linguistica di questo Joyce tropicale, i quaranta racconti pubblicati a pochi mesi dalla morte
Roberto Mulinacci, Alias il Manifesto 8.2.2015
Preceduto dalla fama monumentale e ingombrante di Grande Sertão, l’opera mondo a cui è legata in massima parte la grandezza di João Guimarães Rosa, esce finalmente anche in Italia – nella bella e «coraggiosa» traduzione di Roberto Francavilla e Virginia Caporali Tutameia Terze storie (Del Vecchio editore, pp. 282, euro 16,00) l’ultimo, importante libro pubblicato in vita dallo scrittore brasiliano. Un libro curioso, a torto spesso considerato una specie di escrescenza narrativa nel macrotesto di questo singolare Joyce tropicale, inventore di linguaggio come pochi altri, che si era affacciato sulla scena letteraria del suo paese nel 1946, consegnando alla raccolta di racconti Sagarana l’aurorale, indimenticabile epifania di quel sertão – l’arido entroterra brasiliano, spazio tanto reale quanto mitico – destinato a imporsi come scenario pressoché esclusivo della sua straordinaria parabola creativa.
Ma se il sertão di Rosa aveva trovato nel romanzo eponimo del 1956 la sua più compiuta e antonomastica rappresentazione, finendo per tracimare come un fiume in piena dalla confessione del protagonista Riobaldo in tutta la produzione complessiva dell’autore e rischiando, appunto, di travolgerla sotto l’onda del modello evoluzionistico di un prima e un dopo Grande Sertão a questo limaccioso pantano critico si sottraggono non solo i racconti-poemi di Corpo di Ballo (usciti sempre nel 1956, sebbene anteriori, per stesura) ma anche i componimenti brevi e brevissimi delle raccolte degli anni sessanta, da La terza sponda del fiume a Estas Estórias e Ave, Palavra, entrambe edite postume nel 1969.
E certo, lì in mezzo, tra i sommersi (ma salvati) dalla straripante magnificenza di Grande Sertão, si staglia pure la sagoma di Tutameia, questa «sorta di cosmicomiche del sertão», come ebbe a etichettarlo, in un saggio meritatamente celebre, Luciana Stegagno Picchio, collocandolo a valle di un itinerario narrativo dove il mutamento della cifra stilistica di Guimarães Rosa — dall’epica allo humour – si misura quantitativamente, oltre che qualitativamente, sul numero di pagine con cui si materializzano queste nuove «storie». Storie che sono, poi, nell’ordine generale, come recita il sottotitolo, «terze», senza che tuttavia Guimarães Rosa, refrattario alla logica cartesiana, abbia mai scritto le «seconde»). In effetti, facendo giustizia al proprio titolo, che in portoghese suona all’incirca equivalente all’italiano «inezia, nonnulla, bagattella» (per quanto i traduttori abbiano qui scelto opportunamente di mantenere il termine originale, onde evitare troppo pedissequi appiattimenti semantici) Tutameia, dato alle stampe nel giugno del 1967, pochi mesi prima della morte dello scrittore, segna forse il punto di maggiore condensazione di quella copiosa vena autoriale che col tempo sembrava essersi via via asciugata, fino a cristallizzarsi nelle dimensioni davvero succinte di molti testi di questa raccolta, autentici «concentrati narrativi nello stile dell’apologo», secondo la calzante definizione, ancora una volta, di Stegagno Picchio.
Non a caso, sarà appunto nelle quattro-cinque paginette di cui consta la stragrande maggioranza dei quaranta racconti che prende forma la stravagante architettura di Tutameia, articolata attorno a quattro prefazioni (tre delle quali significativamente fuori sede, all’interno del corpus testuale, come a sancirne la natura sostanzialmente diegetica anziché extradiegetica) e un glossario autografo, da non confondere, cioè, con quello a cura di Francavilla e Caporali posto in calce al volume e da cui questo si distingue anche per il fatto di riportare perfino parole non usate nel testo (sebbene la traduzione non ne elenchi, purtroppo, la lista integrale), in linea, quindi, con un ricercato effetto di straniamento che l’opera tende inizialmente a generare nel lettore.
Tuttavia, a parte un apparente virtuosismo dell’istanza demiurgica, probabilmente corresponsabile anche del minor interesse che Tutameia ha in genere suscitato tra la critica e il pubblico brasiliani rispetto a altre opere dell’autore, la coerenza strutturale non fa certo difetto all’insieme del libro e, anzi, emerge con forza, a mano a mano che ci si inoltra nell’intrico polifonico dei sentieri narrativi e si scoprono i fili sottili che tengono unite queste storie, non solo tra sé, ma anche con il resto dell’opera di Guimarães Rosa. A questa sapiente regia autoriale, rimandano, per esempio, oltre ad alcuni evidenti coaguli tematici — basti pensare alla triade di racconti di argomento zingaresco (Faraone e l’acqua del fiume, L’altro o l’altro, Zingaresca) o a quella che ha come personaggio il mandriano Ladislau, ideale alter ego dell’autore, anche la funzione di cornice assegnata alle quattro prefazioni, ciascuna delle quali pare riferirsi in particolare al gruppo di racconti a cui è premessa e di cui fornisce più che le coordinate di lettura (al modo delle prefazioni tradizionali), lo stimolo riflessivo a una diversa percezione della realtà.
Vale la pena, al proposito, citare — accanto alla divertentissima Noi, gli ubriachi, che, dalla prospettiva straniante dell’ebbrezza, suggerisce la diplopia come doppia visione del mondo – , le due prefazioni più celebri, ovvero, quella finale e materialmente più corposa, Sullo spazzolino e il dubbio, a cui l’autore delega, in sette parti, il suo manifesto di poetica anti-realista e, soprattutto, quella iniziale e teoricamente più ambiziosa, Capelli d’angelo e ermeneutica, il cui incipit sentenzioso delineando il significato profondo delle «storie», non poteva che riverberarsi a posteriori sull’intero macrotesto di Guimaraes Rosa: «La storia non vuol essere Storia. La storia, a rigore, deve opporsi alla Storia. La storia, a volte, vuole somigliare un po’ all’aneddoto. L’aneddoto, per etimologia e finalità, dev’essere assolutamente inedito. Un aneddoto è come un fiammifero: sfregato, deflagrato, ha reso il suo servizio».
Ebbene, in questo riferimento a una dimensione intrinsecamente aneddotica dei testi di Tutameia, c’è in fondo anche la chiave di volta dell’opera di Guimarães Rosa nel suo complesso, che trascende il puro e semplice contrappunto della «storia» individuale alla «Storia» collettiva per diventare eterna e universale riproposizione del mito platonico della caverna, con la realtà concreta ridotta a flebile ombra del mondo delle idee. Se, dunque, come recita un passaggio di questa prefazione, «anche la vita va letta. Non alla lettera, ma nel suo sovra-senso», il lettore attento troverà in Tutameia altri quaranta «fiammiferi» pronti da sfregare per continuare a illuminare di nuova luce quel sertão interiore che — Riobaldo docet — abita dentro di noi e che di quando in quando balugina dietro la superficie opaca delle cose, in quell’ amletico interim con cui l’aneddoto separa il senso dal nonsenso.
Lungi, allora, dal giudicare queste «terze storie» alla stregua di un’appendice minore rispetto all’opus maximum, esse ne costituiscono piuttosto l’ulteriore completamento, inscritto in quella totalità poetica della quale anche Ladislau e i suoi compagni di avventure partecipano a pieno diritto, non solo per via della consueta ambientazione scenica né per il tipico caleidoscopio di personaggi ed eventi che vi si agitano, bensì principalmente per il linguaggio.
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