Musulmani, indù e buddisti hanno intrapreso una transizione dall’universo sacralizzato dei simboli a quello disincantato di fatti neutrali Tutti i popoli di quello che una volta era conosciuto come il Terzo Mondo sono “condannati alla modernità”
Ma cercano una forma meno disumana di conversione
Riaccendiamo i Lumi
Voltaire e la Rivoluzione francese hanno separato religione e ragione, politico e teocratico, laicità e fede Una secolarizzazione che oggi appare sempre più come disumanizzazione Ecco perché si chiede all’Occidente di pensare un nuovo illuminismo spirituale
di Pankaj Mishra Repubblica 8.2.15
L’ILLUMINISMO
divenne possibile in Europa quando, secondo la definizione di Kant, gli
individui cominciarono a «osare di sapere » — a impiegare la loro
ragione, senza l’intercessione di una qualsiasi autorità. La Rivoluzione
francese realizzò la grande svolta intellettuale dell’Illuminismo: la
separazione tra il politico e il teocratico. La Rivoluzione contribuì
anche a creare quella che Jacob Burckhardt ha chiamato la «volontà
ottimista» — la fede nel progresso, nella ragione e nel cambiamento, che
gli eserciti rivoluzionari francesi diffusero in tutta Europa e perfino
in Asia. Con il progredire del XIX secolo, le innovazioni, le norme e
le categorie dell’Europa raggiunsero un’egemonia universale. Istituzioni
politiche come lo stato-nazione, forme estetiche come il romanzo,
ideologie come nazionalismo, liberalismo e socialismo, e processi come
la scienza, la tecnologia, il capitalismo industriale divennero i punti
di riferimento per la valutazione di ogni altra forma di vita umana,
passata e presente.
La laicità è stata uno dei principi europei
moderni più influenti nel suo considerare la religione tradizionale
inferiore ai nuovi modi razionali di comprendere e migliorare la società
umana. Di fronte a questa potenza europea senza precedenti, morale e
intellettuale, ma anche militare, gli uomini nelle società asiatiche e
africane si sono adattati oppure hanno opposto resistenza. In entrambi i
casi, hanno finito col disporre antichi modi di vita, codici etici di
condotta e culture, come il buddismo, l’induismo e l’islam, secondo le
linee europee moderne. C’è stata molta più secolarizzazione nel mondo
dal XVIII secolo, quando alcuni filosofi europei e americani proposero
un futuro nel quale gli individui, armati di ragione e diritti,
avrebbero portato il progresso.
Non tutto è andato come previsto. La
storia post-illuminista d’Europa ha reso inaccettabile gran parte
dell’intemerata mancanza di rispetto di Voltaire per la religione — per
esempio, la sua denuncia degli ebrei come fanatici nati che «meritano di
essere puniti». Le politiche di assimilazione nell’Europa secolarizzata
non sono riuscite a garantire i diritti degli ebrei, o a salvarli dalla
discriminazione e dal disprezzo, inducendo un disperato Joseph Roth a
esclamare che preferiva la vecchia «paura di Dio» europea al suo
«cosiddetto umanesimo moderno». L’astratta nozione illuminista
dell’uguaglianza di diritti si è rivelata debole rispetto agli
imperativi della sovranità territoriale e nazionale.
Non c’è bisogno
di essere cattolici o marxisti, per rendersi conto che l’Europa è
circondata da problemi seri: disoccupazione alle stelle, crisi irrisolta
dell’euro, crescente ostilità contro gli immigrati e una scioccante e
diffusa perdita di speranza nel futuro dei giovani europei — eventi resi
intollerabili per molti da invisibili detentori di titoli, da banchieri
che godono di gratifiche esorbitanti e dal vizio della venalità che si
diffonde in tutta l’oligarchia politica europea.
In queste
circostanze, la supposizione non detta che, mentre tutto il resto cambia
nel mondo moderno, le norme europee debbano rimanere autosufficienti e
immutabili, meri- tandosi una sottomissione incondizionata da parte
degli stranieri arretrati, ci costringe a fermarci un attimo. Come ha
dimostrato Tony Judt nel suo magistrale Dopoguerra, la nozione
dell’Europa come l’incarnazione della democrazia, della razionalità, dei
diritti umani, della libertà di parola, dell’uguaglianza di genere
doveva sopprimere le memorie collettive di crimini brutali nei quali
quasi tutti gli stati europei erano stati complici. Né non si può dire
che abbiano dato nuovo vigore ai valori dell’Illuminismo negli ultimi
anni. Gli statinazione europei, anche quelli che non hanno partecipato
alle guerre e alle occupazioni anglo- americane, hanno permesso
esecuzioni extragiudiziali, torture e estradizioni illegali, che in
origine erano sanzionati in nome della ragione, della libertà e della
democrazia.
La nostra epoca è caratterizzata da stati-nazione
pesantemente armati, da potenti corporazioni e da ciò che sembra essere
una disuguaglianza strutturale inestirpabile, insieme a una dilagante
depoliticizzazione causata da una ampiamente avvertita perdita della
sovranità individuale e collettiva. I valori illuministici della libertà
individuale si manifestano meglio in singoli atti di critica e di
sfida. La maggior parte dell’arte e della letteratura moderne emerge da
questo ethos critico dell’Illuminismo, dall’implacabile messa in
discussione delle rivendicazioni del progresso e della civiltà.
Le
élite egoiste, oggi ossessionate da premonizioni di declino, e
intrappolate nello scontro tra la democrazia locale e il capitalismo
globale, devono affrontare un’altra sfida, più esistenziale: è
l’assenza, come disse lo storico Mark Mazower nel 1998, di «un
avversario contro il quale i democratici possano definire ciò che
rappresentano». Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno
fornito un sostituto al nazismo e al comunismo: il «totalitarismo
islamico». Questo grande concetto intellettuale è stato incautamente
applicato a un gruppo sciolto di megalomani, fanatici, delinquenti e
disadattati, la maggior parte dei quali ha prosperato nell’ecosistema
dell’estremismo (scuole, moschee, giornali, canali satellitari)
originariamente istituiti dai cittadini di un fedele sostenitore
dell’alleanza con l’Occidente e della teocrazia, l’Arabia Saudita. Ha
raggiunto un certo potere persuasivo solo dopo l’invasione e
l’occupazione angloamericana dell’Iraq, che ha radicalizzato un numero
significativo di musulmani, provocando attacchi di rappresaglia nelle
città europee e la devastazione di gran parte dell’Asia e dell’Africa.
Quella guerra disastrosa ora ha generato una culto nichilistico della
morte, che ricorda gli Khmer Rossi, in Iraq e in Siria.
Il pericolo
del totalitarismo islamico ha dimostrato, almeno in Europa, di essere un
mediocre surrogato rispetto alla minaccia rappresentata dal comunismo
dotato di armi nucleari. Putin, tornando ad assumere una posizione
anti-occidentale, si è preso più territorio europeo e ha ucciso più
persone; uno dei più grandi attacchi terroristici in Europa è stato
messo in atto non da al-Qaeda, ma da un blogger norvegese islamofobo.
I
musulmani, come gli indù e i buddisti, hanno intrapreso da tempo una
transizione di tipo illuminista dal mondo sacralizzato dei simboli e dei
segni significativi a un mondo disincantato di fatti neutrali, in cui
la ragione e il giudizio individuali sono guide più affidabili
dell’autorità trascendente. Tutti i popoli di quello che una volta era
conosciuto come il Terzo Mondo sono «condannati alla modernità », come
ha scritto una volta Octavio Paz. I musulmani in Europa portano a
compimento questo destino non come una borghesia commerciale che trionfa
su un’élite religiosa e aristocratica, ma come una povera minoranza
soggetta agli obblighi e ai pregiudizi di uno stato laico aggressivo con
cui condividono una storia lunga e oscura.
La morale razionale
dell’Illuminismo, come ammette anche Jürgen Habermas, il suo più
eloquente difensore, «è finalizzata alla comprensione degli individui, e
non favorisce alcun impulso ver- so la solidarietà, cioè verso l’azione
collettiva guidata dalla morale». In un’epoca in cui il denaro è più
che mai la misura di tutte le cose, la secolarizzazione può apparire
troppo simile alla despiritualizzazione, se non alla disumanizzazione:
una ricetta per l’inautenticità. E il conflitto è sempre probabile se le
minoranze asiatiche e africane sono costrette a rispettare le norme
europee di secolarizzazione, che non solo comportano la retrocessione di
simboli di identità religiosa, come il velo, allo «spazio privato», ma
possono anche bruscamente stabilire che, come dice uno slogan molto
citato dopo gli attentati di Parigi, «nessuno ha il diritto di non
essere offeso».
Il problema per le persone condannate alla modernità
«non è tanto sfuggire a questo destino », ha scritto Paz, «ma scoprire
una forma meno disumana di conversione», che «non implichi, come adesso
accade, la doppiezza e la scissione psichica». Riconoscere che ci sono
molti modi di passare alla modernità, ognuno con le proprie complesse
tensioni, è muoversi verso una visione meno unilaterale dell’umanità, e,
forse, verso una forma più accomodante di laicità e democrazia, sempre
più necessaria in un’Europa irrevocabilmente multietnica.
I tentativi
di definire l’identità francese o europea separandola violentemente dal
suo presunto «altro» storico, e con la creazione di opposizioni —
civili e arretrati, laici e religiosi — non può avere successo in
un’epoca in cui questo «altro» possiede anch’egli il potere di scrivere e
di fare la storia. La globalizzazione economica, inducendo
all’interdipendenza, sembrava in un primo momento minare il solipsismo
nazionalista o di civiltà. In realtà, come rivela la recrudescenza del
discorso sullo scontro di civiltà, siamo lontani dal superare nozioni
obsolete e sempre più rigide di appartenenza e di identità. La
necessaria discussione di nozioni flessibili di cittadinanza e di
sovranità o di identità fluide — imperative nell’era della
globalizzazione — è rapidamente compromessa dal gettare la colpa sulla
natura incorreggibilmente medievale delle persone religiose e sulla loro
incapacità di apprezzare le virtù della modernità laica.
Come scrive
il filosofo canadese Charles Taylor, «la nostra identità è in parte
modellata dal riconoscimento o dalla sua assenza, spesso da un falso
riconoscimento degli altri, e così una persona o un gruppo di persone
può subire un danno reale, una vera distorsione, se la gente o la
società che li circonda gli rimanda un’immagine limitata o un’immagine
umiliante o spregevole di se stessi». Non è necessaria un’ampia
esplorazione della differenza tra la semiotica cristiana e quella
islamica per capire che se molti musulmani si offendono personalmente
per le immagini degradanti del profeta è perché egli è per loro un
esempio di umanità nobile più che una figura distante autorevole e
severa — uno il cui più piccolo atto è degno di emulazione.
Vivendo
in un mondo diverso e instabile, e condividendo un presente comune pur
venendo da retroterra diversi, tanto i non-musulmani che i musulmani
sono chiamati a rinunciare, come ha scritto Hannah Arendt, non alla loro
«tradizione e al loro passato nazionale», ma «all’autorità vincolante e
alla validità universale che la tradizione e il passato hanno sempre
preteso».
Senza questa rinuncia qualificata, il nostro stato di
solidarietà negativa può diventare soltanto «un peso insopportabile»,
provocando «apatia politica, nazionalismo isolazionista, o una disperata
ribellione contro tutti i poteri costituiti». La triste profezia della
Arendt sembra realizzarsi oggi in molte rivolte e esplosioni di violenza
in tutto il mondo. Abbiamo sentito parlare molto dopo l’11 settembre di
quella che Rushdie definisce la «mutazione letale nel cuore
dell’Islam». Ma abbiamo sentito parlare relativamente poco dell’aumento
dell’odio tribale verso le minoranze in tutto il mondo — la principale
patologia del capro espiatorio suscitata dalle crisi politiche ed
economiche — anche oggi che il mondo è molto più legato dalla
globalizzazione.
La rinascita di questi fanatismi confessionali non
implica tanto la vitalità della religione medievale quanto delle tristi
mutazioni nel cuore della modernità laica. Michel Houellebecq è
colpevole di un’esagerata autocommiserazione quando annuncia che
«l’Illuminismo è morto, riposi in pace» e che l’Islam è una «immagine
del futuro». Ma la società laica contemporanea nei suoi cupi romanzi —
caratterizzati da estrema disuguaglianza, perdita di comunità,
egocentrismo narcisistico e indifferenza al dolore — sembra un vicolo
cieco che molti di coloro che stanno attraversando il loro Illuminismo e
elaborando la transizione verso il disincantato mondo moderno cercano
di evitare.
La vecchia promessa di stati-nazione europei omogenei —
dove se ti integri godrai del privilegio di una società basata sul
concetto dei diritti individuali — non sembra più adeguata, anche se può
essere interamente recuperata. Sembra indispensabile che queste diverse
società ridefiniscano i loro principi in modo da ammettere
esplicitamente visioni diverse, religiose e metafisiche, del mondo. La
pensatrice francese Simone Weil, che non ignorò mai le minoranze di
Francia nelle sue riflessioni di ampio respiro, riconobbe presto che il
vecchio modello standardizzato di progresso doveva essere sostituito,
perché i valori dell’individualismo e dell’autonomia che in origine
avevano dato vita all’uomo moderno erano giunti a minacciare la sua
identità morale e spirituale. In La prima radice, un libro scritto nel
1943 per chiarire le lezioni della capitolazione della Francia alla
Germania nazista, Weil giunse al punto di abbandonare il linguaggio dei
diritti. La difesa dei diritti individuali era stata fondamentale per
l’espansione del commercio e di una società basata sul contratto
nell’Europa occidentale. All’indomani della catastrofica sconfitta della
Francia, Weil sosteneva che una società libera e radicata dovrebbe
essere costituita da una rete di obblighi morali. Abbiamo il diritto di
ignorare le persone che muoiono di fame, disse, ma dovremmo essere
costretti a non lasciarle morire di fame.
Habermas è arrivato a
credere che la «sostanza dell’umano» può essere salvata solo da società
che «sono in grado di introdurre nel dominio secolare i contenuti
essenziali delle loro tradizioni religiose». La profonda svolta di
Habermas è un segno tra i tanti che l’identità dell’uomo laico moderno,
che è stata costruita sulle nozioni esclusiviste della laicità, della
libertà, della solidarietà e della democrazia in Stati nazionali
sovrani, si è disfatta, e richiede una definizione più ampia. Bisogna
rinegoziare un nuovo spazio comune. Lo Stato militarmente e
culturalmente interventista, favorevole alle imprese ma per il resto
minimalista e che vuole spacciare una certa ideologia di crescita
economica, non lo farà. Questa mancanza potrebbe anche giocare un ruolo
nelle mani dei fanatici che vogliono distruggere il più prezioso lascito
dell’Illuminismo: il distacco tra il teocratico e il politico.
Dovremmo
recuperare l’Illuminismo, così come la religione, dai suoi
fondamentalisti. Se l’Illuminismo è «l’emancipazione dell’uomo dalla sua
immaturità auto-imposta», allora questo «compito» e «obbligo», come
Kant lo definì, non è mai definitivamente compiuto; deve essere
continuamente rinnovato da ogni generazione nel continuo cambiamento
delle condizioni sociali e politiche. Sostenere la necessità di maggiore
violenza e di altre guerre di fronte al fallimento ricorrente
appartiene più al fanatismo che alla ragione. Il compito per coloro che
hanno a cuore la libertà è quello di ripensarlo — attraverso un ethos di
critica unita alla compassione e a un’incessante consapevolezza di sé —
nelle nostre società irreversibilmente miste e fortemente disuguali e
nel più ampio e interdipendente mondo in cui viviamo. Solo allora saremo
in grado di difendere la libertà dai suoi veri nemici.
Traduzione di Luis E. Moriones © Pankaj Mishra
È un “sacro vuoto” la libertà dell’Occidente La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze. Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico Wael Farouq la Stampa 10 2 2015
Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano – e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo. (Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)
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