martedì 10 marzo 2015

Cala il sipario sulla democrazia parlamentare in Italia. L'assassino è il PD, sinistra compresa

Una Costituzione di minoranza Un brutto giorno per la Repub­blica
di Massimo Villone il manifesto 11.3.15

Nuova Costituzione Il potere senza contrappesi
di Michele Ainis Corriere 11.3.15
Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.
Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 — che regola la funzione legislativa — s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione.
Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.
Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iter legis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché — di fatto — il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.


Costituzione. ”Riforma”, seconda lettura Oggi scassano la Carta alla Camera.
Il giurista Stefano Rodotà: “Premier padrone” “Così stravolgono anche la forma repubblicana”intervista di Silvia Truzzi il Fatto 10.3.15
A Montecitorio riprende la discussione sul progetto Boschi: dalla cancellazione del Senato elettivo alla corsia preferenziale per gli atti del governo. Il giurista: “A rischio anche la forma repubblicana, l’Italia può diventare ‘democratura’...”

E dunque, nonostante i Nazareni tramontati e i mal di pancia dei dissidenti Pd, si va verso la riforma del Senato. “Questa riforma è un cambiamento radicale del sistema politico-istituzionale: cambia la forma di governo e viene toccata la forma di Stato”, spiega Stefano Rodotà, emerito di diritto civile alla Sapienza. “E dire che si sarebbe dovuto procedere con la massima cautela: questo Parlamento è politicamente delegittimato dalla sentenza della Consulta. Invece si è scelto di andare avanti imponendo un punto di vista non rivolto al Parlamento, ma a un patto privato, il Nazareno”.
Lei – come altri “professoroni” – è stato da subito molto critico.
La riforma è un’occasione perduta: la discussione che all’inizio era stata generata dalle proposte del governo, aveva determinato una serie di indicazioni che non erano tese all’immobilismo, ma partivano da due premesse. Il Titolo V è stato un disastro e il bicameralismo perfetto non può essere mantenuto: si poteva inventare – era possibile - una forma di organizzazione che concentrasse il voto di fiducia nella Camera superando il sistema attuale, creando nuovi equilibri e controlli e non scardinando la Repubblica parlamentare voluta dalla Costituzione. Ora si comincia ad avere la consapevolezza di ciò che sta accadendo: molti tra quelli che avevano detto “non esageriamo, non si dica svolta autoritaria ” stanno cambiando idea. Si parla di un’Italia a rischio “democratura”, di tendenze plebiscitarie, di deperimento del sistema dei controlli. Se ne sono accorti un po’ tardi.
L’Italia non sarà più una Repubblica parlamentare?
Formalmente resterà tale, ma ci sarà un accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo e della Presidenza del Consiglio e insieme una depressione di ogni forma di controllo. Non dimentichiamo mai che questa riforma è accompagnata da una proposta di legge elettorale che costruisce una maggioranza artificiale nell’altra Camera: Montecitorio diventerà un luogo di ratifica delle decisioni del governo.
Lei dice: “Si tocca anche la forma di Stato”: cambierà l’equilibrio tra governanti e governati?
L’ultimo articolo della Carta dice che la forma repubblicana non è modificabile. Non vuol dire solo che non si può tornare alla monarchia: si vuol dire che la forma di Stato delineata dalla Costituzione – una delle nuove costituzioni del Dopoguerra, segnata dal passaggio da Stato di diritto a Stato costituzionale dei diritti - è una combinazione tra repubblica parlamentare e repubblica dei diritti. Se si abbandona questa strada, si rischia di uscire dall’art. 139 modificando la forma repubblicana, ritenuta invece un limite invalicabile.
I richiami sulla gravità di questo passaggio sono stati trascurati?
Assolutamente sì, tanto che oggi siamo alla fine di un iter molto preoccupante perché nasce dalla cultura della decisione. In questi anni decidere è stato considerato l’unico imperativo.
Di fatto, si sono già modificati i rapporti tra governo, parlamento e partiti. Basta vedere quante leggi per decreto, o le indiscrezioni sulla riforma della Rai.
C’è già una trasformazione del sistema. L’abuso della decretazione ha una lunga storia in Italia, ma il decreto legge è stato impugnato come un’arma, dicendo “è l’unico modo che consente di decidere”. Sulla Rai c’è un punto fermo rappresentato da una sentenza della Consulta che ha esplicitamente detto che la Rai è affare di parlamento e non di governo. Comunque se il controllo parlamentare avrà le caratteristiche derivate dal combinato disposto di riforme e Italicum, quel Parlamento non sarà altro che la prosecuzione dell’esecutivo: la designazione da parte del governo di un amministratore delegato, non troverà nel Parlamento nessuna forma di controllo.
Anche sul Jobs Act, il governo non ha tenuto in considerazione il parere delle commissioni Lavoro contrarie a inserire nel testo i licenziamenti collettivi.
La crescente delegittimazione del Parlamento è evidente. Il tema del licenziamento collettivo non è un fatto marginale, cambia la qualità della disciplina del licenziamento. Il parere delle commissioni non era vincolante certo, ma la domanda è: il governo tiene conto del parere del Parlamento? La risposta è: no.
La questione centrale della riforma come dell’Italicum – sottolineata anche dai giudici della Consulta sul Porcellum - è la rappresentanza dei cittadini.
Ci sono molti dubbi anche sull’Italicum: la Corte dice chiaramente che l’obiettivo e ricostituire le condizioni della rappresentanza. Aggiungo: sei mesi prima della sentenza sul Porcellum, la Corte si era espressa a favore della Fiom contro la Fiat sulla rappresentanza dei lavoratori nelle commissioni. Voglio dire: la Consulta afferma a diversi livelli che una delle caratteristiche del nostro sistema è la garanzia della rappresentanza.
Renzi ha detto che con il referendum decideranno i cittadini.
Vorrei far notare che questo è un potere dei cittadini, previsto dalla Carta, non una concessione del governo. Ora viene adoperato per dire alla minoranza del Pd: non vi prendiamo in considerazione, decideranno i cittadini. Cioè di nuovo l’insignificanza del Parlamento.

Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza
Basterà il 40% dei voti per avere il 54% dei seggi All’eventuale ballottaggio può vincere anche una lista che rappresenti una minoranza esiguadi Valerio Onida Corriere 10.3.15

Caro direttore, l’aspetto più controverso della nuova legge elettorale in discussione non è quello dei capilista «bloccati» e delle preferenze, bensì il meccanismo di attribuzione del «premio». Al primo turno basterà il 40 per cento, il che vuol dire che il 54 per cento dei seggi potrà andare a un solo partito non scelto e magari fieramente avversato dal 60 per cento dei votanti. All’eventuale secondo turno vincerà chi otterrà più voti, perché le liste in competizione saranno solo le due più votate, in qualunque misura, al primo turno. Ma la competizione sarà falsata dal fatto che tutte le altre liste saranno escluse dal voto; e quindi gli elettori che le hanno scelte al primo turno non potranno esprimere più un voto di lista «libero». La maggioranza assoluta dei seggi potrà andare a una lista che gode della fiducia di una anche ridotta minoranza degli elettori (ad esempio il 25 o il 30 per cento), essendo al secondo turno precluso ogni apparentamento e «vietato» esprimere una scelta diversa da quelle che (magari per pochi voti) sono risultate prima e seconda al primo turno. Inoltre, è possibile che al secondo turno non votino, perché non si sentono rappresentati dalle due liste in campo, molti elettori che pure si erano espressi al primo turno, e che quindi la maggioranza assoluta dei seggi venga attribuita ad una lista che né al primo, né al secondo turno abbia ottenuto la fiducia della maggioranza di coloro che hanno partecipato al voto. Il premio, insomma, sarebbe assegnato anche se la vittoria nel secondo turno (che non richiede alcun quorum di partecipazione) fosse frutto del voto espresso da una parte ridotta dell’elettorato non astensionista, e quindi di una «non maggioranza».

Si dice: ma questa è la logica del «ballottaggio». In realtà è equivoco persino parlare di ballottaggio. Questo, classicamente, è un sistema adottato per eleggere una singola persona (come ad esempio il sindaco, o come il deputato — unico — di un singolo collegio nei sistemi uninominali). Poiché uno solo è il seggio da coprire, alla fine il ballottaggio è necessario per eleggere chi fra i contendenti gode del maggiore favore dell’elettorato. Ma qui si tratta di eleggere un’assemblea, non una carica monocratica: un’assemblea che dovrebbe riflettere e rappresentare i diversi orientamenti dell’elettorato. Per questo servono i partiti, che elaborano e avanzano le diverse proposte (collettive). Non è detto (e non è così oggi in Italia) che i partiti, e perfino gli orientamenti politici di fondo, siano solo due: dunque rappresentare l’elettorato non può voler dire attribuire senz’altro la maggioranza dell’assemblea ad uno solo di essi, anche minoritario, così che questo possa impadronirsi del governo.
Per di più non è detto che l’alternativa secca proposta al secondo turno fra le due liste più votate esprima davvero la più significativa ed esauriente contrapposizione fra le forze che rappresentano gli orientamenti fondamentali dell’elettorato, come per esempio centrodestra e centrosinistra. Potrebbe accadere che gli elettori si trovino un giorno a poter scegliere solo fra il Pd e una formazione di tipo estremistico come l’attuale Lega, oppure solo fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, oppure addirittura fra un centrodestra «estremizzato» e il Movimento 5 Stelle.
Non vale invocare l’obiettivo della cosiddetta governabilità. In regime parlamentare, il governo è espressione della maggioranza delle Camere, non necessariamente formata da un unico partito (anche la vecchia Dc quasi mai governò da sola, per fortuna) e nemmeno necessariamente da un unico schieramento (di qui anche la possibilità delle «grandi coalizioni»). Le maggioranze possono nascere in Parlamento, sulla base delle convergenze e anche dei compromessi che si realizzano sui programmi. Non si può, in nome di un’esigenza di governabilità, disattendere e tradire la fondamentale esigenza di rappresentatività del Parlamento (è questo anche il senso della sentenza della Corte costituzionale che ha censurato la legge elettorale del 2005), pretendendo che in esso debba necessariamente dominare uno e un solo partito, anche se non esprime la maggioranza del Paese. Il Parlamento è assemblea, cioè voce collettiva della nazione, e non luogo di ratifica di decisioni prese al di fuori, né semplice tribuna di un dibattito pubblico predeterminato nell’esito. Per questo servono i partiti, e servono il confronto e anche le convergenze fra di essi.
In realtà, dietro queste scelte sulla legge elettorale, si rivela la tesi (già vittoriosamente contrastata nel referendum del 2006, ma ancora riaffiorante) secondo cui agli elettori deve rimettersi in sostanza solo la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranza parlamentare è una sorta di appendice (non a caso si parla di «sindaco d’Italia»). E si rivela l’altro assioma, per cui il sistema politico dovrebbe articolarsi fondamentalmente solo in due partiti, ciascuno dei quali propone un unico leader. Il bipartitismo è (quando lo è: oggi non lo è, non solo in Italia) il risultato della storia, non di una ingegneria elettorale.


Chi svilisce il Parlamento
di Massimo L. Salvadori Repubblica 10.3.15

NON è molto che la presidente della Camera ha solennemente ammonito a non dimenticare che il Parlamento è la Casa della Democrazia. Lo ha fatto indirizzandosi particolarmente al capo del governo, “l’uomo solo al comando” che ha un’eccessiva inclinazione a restringere quando non a ignorare il ruolo delle istituzioni rappresentative per centrare i suoi obiettivi. Ciò che è emerso è un classico caso di tensione fra potere legislativo e potere esecutivo. Naturalmente l’uscita della Boldrini ha suscitato il disappunto di Renzi e l’entusiasmo del variopinto schieramento anti-renziano i cui più accesi esponenti da tempo gridano alla dittatura incombente.

Dichiarare alla luce dei principi che il Parlamento è la Casa della Democrazia è giusto e bello. Ma guardare a che cosa in concreto riducano l’attività del Parlamento e il processo democratico le continue ondate di gladiatorio e incivile ostruzionismo messe in atto da opposizioni di spuria composizione legate dall’unico scopo di bloccare l’azione dell’esecutivo è parimenti doveroso. La nobile Casa della Democrazia è gravemente malata. Vi albergano o partiti solo più ombre di partiti, divisi al loro interno in fazioni nemiche, sull’orlo della scissione, dalle leadership contestate; o partiti che, mentre gridano contro “l’uomo solo al comando”, si piegano ad essere proprietà di una persona e proprio per questo perdono pezzi; o partiti, come il Pd, il quale, pur essendo quello che maggiormente conserva l’aspetto di un partito, è a sua volta preda di affanni e divisioni che inducono la minoranza a mettere a ripetizione il bastone nelle ruote del suo segretario- capo del governo. Non interessa qui indugiare a riflettere su chi “abbia torto o ragione” in merito alle tante questioni, ma constatare il nudo fatto che il Parlamento è male abitato e serve al peggio il paese. È male abitato per la scarsa e persino scarsissima qualità di troppi deputati e senatori e inoltre perché ormai i rappresentanti del popolo — stante tutte le mutazioni avvenute dalle ultime elezioni — non rappresentano più gli italiani. Non vi è partito che non appaia più o meno gravemente usurato. Senza considerare questo quadro non si capisce il duplice motivo per cui da un lato lo scompaginato schieramento delle opposizioni al governo non abbia altro comun denominatore se non fare fronte contro il governo, dall’altro il premier sia indotto ad assumere il ruolo del decisionista che si sente investito del compito-dovere di assicurare, manovrando nelle sabbie mobili dei cambiamenti di orientamento dei gruppi parlamentari, un governo al paese e di realizzare le riforme istituzionali, a partire dell’abolizione di quel bicameralismo che più di così non avrebbe potuto screditarsi. Non cogliere il nesso tra i due aspetti significa non vedere la realtà.
Si sa che le riforme piacciono agli uni e non agli altri. È nella logica elementare della lotta politica e sociale. Sennonché in un Parlamento che voglia non solo a parole onorare la democrazia, dovrebbe valere una regola basilare, senza la quale il processo legislativo si inquina: il rispetto della regola della maggioranza all’interno dei partiti come presupposto del formarsi di una maggioranza che non balli ogni giorno. Ma ecco il problema: il generale disordine che regna nei partiti — da cui si vede quanto non sia esente anche il Pd — porta le minoranze a non voler rispettare la regola, con l’effetto che formare in Parlamento delle maggioranze dotate di una qualche stabilità diventa un lavoro di Sisifo. Da ciò l’inclinazione dell’esecutivo a far ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia, così attivando “maggioranze forzate” che suscitano le proteste. Come uscire da un simile infelice stato di cose è davvero arduo dire e immaginare. Ragionevole pensare che la via sarebbe l’approvazione, una volta decretata la fine del bicameralismo, di una decente legge elettorale e poi andare al voto. Renzi si propone di andare avanti ed evitare il voto prima del 2018; e ostenta ottimismo. Le opposizioni dal canto loro seminano mine sul percorso delle riforme. Si capisce che i più agguerriti nel farlo siano vuoi i parlamentari i cui partiti ancor più che traballare versano in pezzi e quindi hanno una paura matta delle elezioni; vuoi i leghisti e i grillini che, pur concorrenti tra loro e anch’essi con problemi di tenuta interna, puntano a fare cadere il governo di Renzi traditore-despota senza curarsi del caos politico che ne deriverebbe. L’interesse comune dell’ammucchiata dei molto diversi è di trasformare ad ogni buona occasione il Parlamento in un ring popolato da urlatori impegnati a opporre al percorso delle riforme insormontabili ostacoli. Difendere la dignità del Parlamento è dunque bello, ma vederlo per quel che è e strigliarlo come merita è un dovere nazionale.

il Fatto 10.3.15
La nuova Costituzione secondo Matteo: Come cambia la Carta
Alla Camera riprende il voto sulle riforme della corsia preferenziale per il governo al Senato dei nominati
Ecco tutte le novità del Ddl Boschi
di Luca De Carolis

Addio al bicameralismo perfetto e al vecchio Senato, trasformato (o ridotto) in un ente di secondo livello con funzioni per lo più consultive. Corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. Quorum più alti per eleggere il presidente della Repubblica e per le leggi di iniziativa popolare. Sono i punti principali della riforma costituzionale renziana, approvata in prima lettura in Senato lo scorso otto agosto. Oggi dovrebbe arrivare il sì della Camera, ma per arrivare al via libera definitivo la strada è lunga. Il ddl di revisione costituzionale, come prevede l’articolo 138 della Carta, va approvato in doppia lettura conforme da Camera e Senato, e tra una votazione e l’altra devono trascorrere almeno tre mesi. Nel secondo passaggio è richiesto il sì della maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti di ciascuna Camera). Una volta approvato da Montecitorio, che l’ha sottoposto a lievi modifiche, il ddl di riforma dovrà tornare in Senato, dove si dovrà chiudere la prima lettura (ma si voterà solo sulle parti modificate). Toccherà quindi di nuovo alla Camera (non prima di giugno) e poi a palazzo Madama, per quella che sarebbe l’ultima votazione. La Carta prevede l’obbligo del referendum qualora, in seconda lettura, il ddl costituzionale non venga approvato con la maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera. Ma il governo vuole che la consultazione popolare si svolga in ogni caso, come ribadito nelle ultime ore da Matteo Renzi.
Addio al bicameralismo perfetto
L’abolizione del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri) è il primo obiettivo della riforma, nonché il suo principale rischio a detta delle opposizioni e di diversi costituzionalisti, che temono un grave indebolimento del processo democratico di formazione delle leggi. Con il ddl costituzionale, Montecitorio diventa la Camera “forte”, mentre il Senato viene trasformato in un organo a elezione indiretta, composto da 95 tra consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali. A questi si aggiungono gli ex presidenti della Repubblica e i cinque senatori nominati dal Capo dello Stato: non più a vita, ma per 7 anni. I senatori rimangono in carica per la durata del Consiglio regionale che li ha nominati, e non percepiscono alcuna indennità parlamentare. Ma a mutare sono soprattutto i poteri dei due rami del Parlamento.
La Camera (che mantiene i suoi 630 membri) diventa l’unica a votare la fiducia al governo e a controllare il suo operato, e può approvare da sola la grandissima parte delle leggi. Con la riforma, dovranno essere approvate da entrambe le Camere solo le riforme e leggi costituzionali, le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, la ratifiche dei trattati internazionali, e le leggi sui referendum popolari. Per le altre basterà il sì della Camera. Ma il Senato può comunque intervenire, chiedendo di esaminare i ddl passati alla Camera entro 10 giorni dalla loro approvazione. Le proposte di modifica vengono inviate entro 30 giorni a Montecitorio, che deve dare il via libera definitivo al testo, e può anche ignorare i suggerimenti dei senatori. Il passaggio in Senato è obbligatorio per le leggi di bilancio. Capitolo a parte per le leggi “a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica” o a tutela dell’interesse nazionale: in questo caso, la Camera può ignorare le modifiche proposte dal Senato solo votando a maggioranza assoluta.
Corsia accelerata per l’esecutivo
Un altro punto cruciale è il “voto a data certa”, in base al quale il governo può chiedere alla Camera di deliberare che un ddl “essenziale per l’attuazione del programma del governo” venga votato in via definitiva entro 70 giorni. In pratica l’esecutivo può chiedere una corsia accelerata per i suoi provvedimenti, grazie a cui vengono dimezzati i termini per chiedere modifiche a disposizione del Senato. Il voto a data certa è escluso per pochissime leggi, tra cui quelle che vanno approvate da entrambe le Camere e quelle che concedono l’amnistia e l’indulto.
Dal Quirinale ai referendum, cambiano i quorum
A eleggere il presidente della Repubblica saranno i parlamentari, senza più l’apporto dei delegati regionali. Si alza il quorum per l’elezione, che dal quarto scrutinio richiede la maggioranza dei tre quinti dei parlamentari (attualmente basta la maggioranza assoluta) e dal settimo scrutinio in poi vuole i tre quinti dei votanti. Modifiche anche per il referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila persone, il quorum per approvarlo diventa la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni politiche (e non più degli aventi diritto al voto). Per le proposte di legge iniziativa popolare serviranno 150 mila firme, rispetto alle 50 mila attuali (altra norma contestata).
Enti tagliati e nuove competenze
La riforma incide sul Titolo V. Elimina il riferimento alle province come enti costitutivi della Repubblica e sopprime la competenza concorrente tra Stato e Regioni, ridistribuendo le singole materie tra amministrazione ed enti locali. Novità rilevante è la clausola di supremazia, che consente allo Stato, su proposta del governo, di legiferare su materie di competenza regionale a tutela dell’unità della Repubblica o dell’interesse nazionale.

Il segnale della minoranza dem (che arretra)
Saranno cinque o sei i parlamentari che oggi in Aula diranno no: la battaglia si sposta sull’Italicum Lettera aperta di Cuperlo al segretario perché modifichi la riforma. Guerini: ci aspettiamo un voto ampiodi Alessandro Trocino Corriere 10.3.15

ROMA La battaglia vera è rinviata, al terzo round in Senato per le Riforme e soprattutto alla legge elettorale. La minoranza del Pd, oggi, si limiterà a dare «un segnale» a Matteo Renzi: saranno pochi — cinque o sei — i parlamentari del Pd che decideranno di non votare, uscendo dall’Aula. Il resto, compreso l’Area riformista della minoranza (che fa capo a Roberto Speranza), oggi alla Camera voterà a favore della riforma del Senato. Il premier si prepara a incassare un altro tassello delle suo percorso per le riforme e, dopo aver visto i parlamentari in un incontro sul fisco, oggi incontrerà i deputati per parlare di Rai (in particolare quelli della Vigilanza) e di scuola: incontro preparatorio, visto che giovedì, in Consiglio dei ministri, affronterà proprio questi due temi.

Renzi va avanti con sicurezza e prova a superare gli ostacoli che ancora si frappongono. Il suo vice Lorenzo Guerini è ottimista: «Sulla riforma ci aspettiamo un voto largo, anche perché sull’impianto c’è sempre stata una convergenza di massima del partito». La minoranza del Pd, incerta fino all’ultimo sull’atteggiamento da tenere, mantiene ferme le critiche alla riforma del Senato, ipotizza la stesura di un documento, ma poi decide di dare il via libera. Lo spiega Davide Zoggia: «Al punto in cui siamo arrivati è difficile non votare la riforma. Sarà un dissenso contenuto. Non la voteremo in cinque o sei: io, D’Attorre e Fassina, tra gli altri. La battaglia si sposta ora sulla legge elettorale».
Una lunga e dibattuta riunione serale — presenti tra gli altri Pierluigi Bersani e Gianni Cuperlo — ha sancito la linea da tenere. Area Riformista (che raggruppa un centinaio di deputati) aveva anticipato la sua linea favorevole al sì con l’intervento in Aula pomeridiano di Andrea Giorgis. Che ha detto sì alle riforme, pur specificando l’auspicio «che nel prossimo passaggio al Senato migliorino le condizioni e che alcune rigidità del governo siano superate».
Gianni Cuperlo, di Sinistra dem, ha però lanciato un ultimo appello al premier, con una lettera aperta: «Il segretario trovi il coraggio di rimettere ai parlamentari la possibilità di apportare i cambiamenti necessari alla riforma costituzionale nella terza lettura al Senato». Cuperlo contesta contenuti e modi: «Prima i parlamentari dovevano obbedire al Patto del Nazareno, sottoscritto fuori dal Parlamento. Ora devono obbedire in ossequio a un patto che non c’è più». Replica Guerini: «Ormai la linea è tracciata, il Senato dovrà concentrarsi sui punti che sono stati modificati alla Camera».
Tra i più duri oppositori al governo e al segretario Renzi, c’è Pippo Civati. Che appare piuttosto sconcertato dagli atteggiamenti ondivaghi dei colleghi della minoranza: «Decidano, c’è troppa ambiguità. Un giorno Bersani vota a favore, il giorno dopo fa la voce stentorea. Area Riformista non si capisce bene se fa la minoranza o la maggioranza». Una spiegazione la dà Roberto Speranza, di Area Riformista e spesso cerniera con la segreteria, grazie anche al suo ruolo di capogruppo: «Non abbiamo alternativa a stare in questo Pd e in questo governo. Il sistema è bloccato, con Grillo populista, la Lega che ci vuole fuori dall’Europa e Berlusconi che certo non è ben visto dalle cancellerie europee. Il Pd è l’architrave della democrazia e tutto quello che possiamo fare noi è provare a spostare l’asse del partito e del governo, non a farlo saltare».
Restano le spaccature e le polemiche. Come quella che coinvolge Miguel Gotor. Secondo il renziano Andrea Marcucci, che si riferisce a un intervista al Corriere della Sera , «Gotor dice che Berlusconi non è il diavolo e che le riforme della Costituzione vanno fatte anche con l’opposizione. Se abbiamo contribuito a risolvere il problema che la sinistra ha da 20 anni con Berlusconi siamo soddisfatti». E ancora: «Avversavano così tanto il Patto del Nazareno che l’hanno ricostruito». Replica Gotor: «Marcucci quando supera i 140 caratteri di un tweet diventa Pinocchio. È una bugia dire che la minoranza abbia negato in passato il dialogo con l’opposizione per le riforme».



Renzi avverte i bersaniani: “No a modifiche altrimenti salta tutto”

di Francesco Bei Repubblica 10.3.15

ROMA Nessun ripensamento, nessuna apertura. Matteo Renzi incasserà oggi il voto favorevole alla riforma costituzionale e non intende riaprire il capitolo dell’Italicum. Perché è questa la vera battaglia che si profila all’orizzonte, l’ultimo vero terreno di scontro per la minoranza dem. Che ne fa una questione identitaria o, per dirla con Bersani, di «democrazia».

Ma c’è una ragione politica precisa se il premier ha deciso di alzare il ponte levatoio e puntare su un voto blindato a Montecitorio, quando tra un paio di mesi - dopo le regionali - la legge elettorale inizierà il suo cammino in commissione. «Se il testo dovesse cambiare ancora — ha spiegato Renzi ai suoi — saremmo costretti ad affrontare di nuovo un passaggio al Senato. E non ce lo possiamo permettere». Il problema, ovviamente, non è legato ai tempi visto che il capo del governo ormai è puntato sulle elezioni nel 2018. Il fatto è che palazzo Madama, dopo la rottura del patto del Nazareno, per il governo è diventato una palude infida. Dove i 27 bersaniani che si schierarono a gennaio contro l’Italicum — resi allora ininfluenti dal voto favorevole di Forza Italia — potrebbero stavolta rivelarsi determinanti. Per questo la riforma elettorale, secondo Renzi, è un treno che deve arrivare al capolinea alla Camera. «Entro l’estate avremo la riforma», promette sicuro ai suoi. Del resto due giorni fa, nell’ultima enews, ha ribadito che nella legge ci saranno «metà preferenze e metà collegi». Quindi resteranno i cento capilista bloccati. E il passaggio alla Camera dovrà essere «l’ultima lettura, quella finale».
In realtà, anche se la minoranza di area riformista insiste nel chiedere che le preferenze vengano estese e garantite anche i partiti che non si aggiudicano il premio di maggioranza, non è su questo punto che si addensano i pericoli maggiori per il governo. Il vero elemento di fragilità politica della riforma è un altro: il premio alla lista e non alla coalizione. «Sulle preferenze i forzisti voteranno contro gli emendamenti della minoranza dem — spiega un renziano — e quindi siamo abbastanza tranquilli. L’unico elemento di saldatura fra i nostri e i forzisti può essere sul premio alla coalizione». Berlusconi infatti ha bisogno di una norma che convinca Salvini a coalizzarsi con Alfano e con Forza Italia. Una norma che gli possa consentire di rimettere in piedi un’alleanza di centrodestra con qualche speranza di arrivare al ballottaggio. Ma qui il calcolo di Renzi si affida a Grillo e Casaleggio. «Con il premio alla lista — ragiona il capo dell’ese- cutivo — il movimento 5 Stelle può andare al ballottaggio contro di noi. Con una legge elettorale che premia le coalizioni sono invece destinati all’estinzione ». Saranno quindi i deputati grillini, spera il premier, a bocciare l’emendamento forzista sul premio alla coalizione.
In questo gioco di alleanze parlamentari variabili, Renzi conta quindi sugli interessi divergenti dei suoi avversari, uniti soltanto dall’ambizione di buttare giù il governo ma divisi sul modello di legge elettorale. Ma se in uno scrutinio segreto (tali saranno la maggior parte delle votazioni sulla legge elettorale) davvero le minoranze dem riuscissero a “sabotare” l’Italicum, il premier ha già pronta l’arma del dottor Stranamore. «Per noi — scandisce un renziano della cerchia stretta — la legge elettorale fa parte del programma di governo. Se dovesse saltare, salterebbe anche il governo. E si andrebbe a votare». A favore del premier giocano anche le divisioni nei vari partiti d’opposizione. Le antenne renziane segnalano una quindicina di deputati forzisti — i verdiniani, Rotondi, Santanché, Ravetto — che già oggi potrebbero astenersi o persino votare a favore della riforma costituzionale. Mentre se Flavio Tosi andasse avanti con il suo progetto, tra i cinque e gli otto deputati leghisti potrebbero seguirlo. Tutti parlamentari che puntano a una prosecuzione della legislatura il più a lungo possibile. Tutti voti che tornerebbero utili al governo.
Certo, resta la sfida della minoranza interna. Andrea Giorgis, parlando ieri in aula a nome di area riformista (il correntone bersaniano), ha annunciato il voto favorevole alla riforma costituzionale ma ha ribadito la richiesta di modifiche sull’Italicum: «Dagli errori compiuti e dalle difficoltà incontrate nel corso di questo primo passaggio alla Camera, così come dai risultati positivi che si sono raggiunti, occorre trarre insegnamento, quando inizieremo a discutere in quest’aula della legge elettorale ». Una lunga riunione delle minoranze, protrattasi fino alle dieci di sera, ha fatto emergere posizioni più dure. A parte Civati e Fassina, che ormai non seguono da tempo le indicazioni del partito, altri hanno proposto di distinguersi ulteriormente nel voto costituzionale. Astenendosi, oppure accompagnando il voto a favore con un documento molto critico sulla riforma elettorale e sul ddl Boschi. Potrebbe essere questa la scelta di Cuperlo e D’Attorre, l’ala più intransigente dei dissidenti.

L’atto di nascita del partito di  Renzi che scompagina l’opposizione
di Stefano Folli Repubblica 10.3.15

L’affermazione della Lega in Veneto sarà una vittoria di Pirro, incapace di produrre una destra di governo

OGGI il “partito di Renzi” rischia di dilagare in Parlamento, ossia di sbaragliare il campo dei suoi oppositori più o meno improvvisati. L’occasione è propizia: il voto sulla riforma costituzionale del Senato, una legge che finora è servita soprattutto a dimostrare l’inconsistenza degli anti-premier.
Tutto lascia supporre che a prevalere non sarà la maggioranza di governo e nemmeno il Pd. Prevarrà il “partito di Renzi”, appunto: quel singolare aggregatore che oggi funge da calamita politica e scompagina i gruppi, risucchiandone vari segmenti sotto la tenda del presidente del Consiglio. Nel Pd la riforma ha suscitato il ricorrente malessere della famosa minoranza bersaniana, ma al dunque non si capisce quale sia la strategia di questa corrente che il segretario, a ogni buon conto, ha già provveduto a indebolire e disarticolare.
Quanto al centrodestra, il “partito di Renzi” può compiacersi del trionfo. Forza Italia non esiste più. Ce ne sono alcuni frammenti che occupano i banchi parlamentari e che al momento della votazione su una riforma fondamentale per l’equilibrio istituzionale si dividono in almeno quattro sotto-gruppi: chi vota «no» per un atto di estrema obbedienza verso il vecchio leader ritornato a casa da Cesano Boscone; chi si astiene; chi esce dall’aula; chi addirittura vota a favore, dimostrando quanto sia forte ormai il «renzismo », nuovo baricentro del sistema.
È la fine ufficiale e quasi certificata, potremmo dire, del centrodestra come soggetto politico. Di più: è la conclusione senza possibilità di appello di una stagione cominciata nel 1994 e vissuta per lunghi anni nel segno di Berlusconi, anche se tale impronta si era dissolta già da qualche tempo. Se le cose andranno così, per il presidente del Consiglio sarà un punto di svolta. La riforma del Senato non è tanto significativa nel merito (permangono parecchi dubbi sulla composizione e l’utilità del nuovo organismo), quanto è essenziale come arma volta allo sfaldamento dei vecchi potentati della Roma politica.
Il “partito di Renzi” scompagina e assorbe. Intorno ad esso si esercita il trasformismo più antico e la spregiudicatezza più moderna. All’interno del Pd la sinistra soffre, ma non ha una direzione di marcia. All’esterno, sulle macerie di Forza Italia nasce persino la corrente dei berlusconiani “renziani”. E i Cinque Stelle dissidenti, o una parte di loro, sono così pronti a entrare in maggioranza da pretendere addirittura un ministero. Probabilmente non lo avranno, non subito almeno, ma già averlo chiesto dimostra come è cambiata la scena.
Il vecchio patto del Nazareno non solo è superato, è addirittura sublimato: nel senso che una parte di Forza Italia, la più intransigente, viene sospinta verso Salvini e diventa tributaria del capo leghista; mentre l’altra ala, quella rimasta fedele nonostante tutto alla logica pattizia, entra di fatto nell’orbita del premier. Una sorta di corrente esterna del partito trasversale che si avvia a dominare il Parlamento. S’intende che le trappole sono sempre possibili e Renzi dovrà guardarsi dall’eccesso di sicurezza. La storia è piena di leader politici, non meno astuti dell’ex sindaco di Firenze, che sono inciampati perché troppo sicuri di sé. Ma questo è già un altro affare.
Per il momento il renzismo può celebrare il suo vero atto di nascita. Al di là dell’orizzonte resta Grillo, che i sondaggi danno sempre in discreta salute nonostante gli errori e le defezioni. E naturalmente resta Salvini con il suo disegno alla Le Pen che contribuisce non poco a frammentare la destra post-Berlusconi. Ilvo Diamanti ha ben spiegato come la Lega vincerà in Veneto nonostante il distacco del sindaco Tosi. Vincerà trascinandosi dietro una porzione consistente di Forza Italia, ma su posizioni aspre e radicali. Sarà con ogni probabilità una vittoria di Pirro, tale da rendere più complicata qualsiasi ricostruzione in tempi ragionevoli di una destra “di governo”, fondata su una cultura moderata ed europeista.

La vera posta è la legge elettorale
di Marcello Sorgi La Stampa 10.3.15

L’approvazione (non definitiva, mancano ancora due passaggi) della riforma del Senato alla Camera non è in discussione. Ma dalla giornata parlamentare di oggi, che vede il ritorno in aula delle opposizioni (tutte, tranne M5s), la maggioranza che sorregge il governo potrebbe uscire con nuovi e più frastagliati confini. Non ci sarà, almeno non dovrebbe esserci, la convergenza tra la minoranza del Pd, che voterà solo per disciplina di partito, scontando il dissenso di alcuni suoi esponenti come Fassina e Civati, e Forza Italia, tornata all’opposizione dopo la rottura del patto del Nazareno e pronta, come ha annunciato Berlusconi, a opporsi «all’arroganza di Renzi». Ma anche in questo caso, all’interno della settantina di deputati berlusconiani si moltiplicheranno i casi di coscienza, dato che si tratterebbe di dire no a un testo a cui al Senato Forza Italia aveva detto si.

Disobbediente, come lei stessa si è definita, sarà Daniela Santanchè; e con lei una pattuglia di parlamentari vicini a Denis Verdini, emarginato dopo la fine del Nazareno, ma non piegato alla svolta proclamata dall’ex-Cavaliere. A imporla, in realtà, è stato Salvini: per sancire l’accordo sul Veneto in vista delle regionali, il leader del Carroccio ha posto la discriminante del voto contrario alle riforme. Così Berlusconi, non solo ha dovuto accettare di non essere più il capo del centrodestra, ma anche di interrompere il processo di riavvicinamento con l’Ncd, che pure resta strategico in Campania.
Questa confusa distribuzione delle forze in campo avrà la sua leva sugli ordini del giorno, che le opposizioni non rinunciano a presentare anche se ormai il testo della riforma è stato approvato nell’articolato e va in aula per il solo voto finale. È su questi testi, mirati a sollecitare un ripensamento per i prossimi passaggi parlamentari, che potrebbero misurarsi le alleanze più imprevedibili, per esempio tra Brunetta e Vendola, come quelle che la volta precedente, dopo la decisione di Renzi di chiedere la seduta notturna per accelerare i tempi delle votazioni, portarono appunto all’Aventino.
Si tratterà insomma di una sorta di prova generale della prossima grande battaglia sulla legge elettorale, e i numeri che si presenteranno volta per volta saranno indicativi, per cercare di convincere il premier ad accettare di modificare ulteriormente l’Italicum. Qualcosa di cui a Palazzo Chigi non si vuol neppure sentire parlare, visto che comporterebbe un altro passaggio al Senato, dove stavolta la legge non potrebbe contare sull’aiuto di Berlusconi: ancora ieri all’assemblea dei parlamentari Renzi ha ribadito che l’iter dell’Italicum deve concludersi alla Camera.

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