Una Costituzione di minoranza Un brutto giorno per la Repubblicadi Massimo Villone il manifesto 11.3.15
Nuova Costituzione Il potere senza contrappesidi Michele Ainis Corriere 11.3.15
Non
c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il
voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà
di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro
paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda
approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già
finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle
parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo
d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o
raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un
prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo
chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere
uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.
Però possiamo
anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si
sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla
Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo
sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il
Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che
magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del
giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai
filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole
inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo
70 — che regola la funzione legislativa — s’esprime con 9 parolette;
dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande,
grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47
articoli della Costituzione.
Però sarebbe ingiusto obiettare che
questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per
almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché
nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità
costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra
due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge
riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un
parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché
la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E
perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se
la legge più alta non è una cosa seria.
In secondo luogo, è
altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le
stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e
di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni:
almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è
un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per
scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti
abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un
bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è
eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di
montaggio.
Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si
passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di
leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta
d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la
Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a
maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda
meno complicato l’ iter legis . E dunque non è vero che semplifichi la
vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del
governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle
istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato:
con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle
crisi di governo, nonché — di fatto — il potere di decidere
l’interruzione anticipata della legislatura.
Da qui la preoccupazione
che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più
contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle
opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta
sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei
riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne
hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il
tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso
diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo
rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere
d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un
decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in
conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite
nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite
potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno
un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della
serratura.
Costituzione. ”Riforma”, seconda lettura Oggi scassano la Carta alla Camera.
Il giurista Stefano Rodotà: “Premier padrone” “Così stravolgono anche la forma repubblicana”intervista di Silvia Truzzi il Fatto 10.3.15
A
Montecitorio riprende la discussione sul progetto Boschi: dalla
cancellazione del Senato elettivo alla corsia preferenziale per gli atti
del governo. Il giurista: “A rischio anche la forma repubblicana,
l’Italia può diventare ‘democratura’...”
E dunque, nonostante i
Nazareni tramontati e i mal di pancia dei dissidenti Pd, si va verso la
riforma del Senato. “Questa riforma è un cambiamento radicale del
sistema politico-istituzionale: cambia la forma di governo e viene
toccata la forma di Stato”, spiega Stefano Rodotà, emerito di diritto
civile alla Sapienza. “E dire che si sarebbe dovuto procedere con la
massima cautela: questo Parlamento è politicamente delegittimato dalla
sentenza della Consulta. Invece si è scelto di andare avanti imponendo
un punto di vista non rivolto al Parlamento, ma a un patto privato, il
Nazareno”.
Lei – come altri “professoroni” – è stato da subito molto critico.
La
riforma è un’occasione perduta: la discussione che all’inizio era stata
generata dalle proposte del governo, aveva determinato una serie di
indicazioni che non erano tese all’immobilismo, ma partivano da due
premesse. Il Titolo V è stato un disastro e il bicameralismo perfetto
non può essere mantenuto: si poteva inventare – era possibile - una
forma di organizzazione che concentrasse il voto di fiducia nella Camera
superando il sistema attuale, creando nuovi equilibri e controlli e non
scardinando la Repubblica parlamentare voluta dalla Costituzione. Ora
si comincia ad avere la consapevolezza di ciò che sta accadendo: molti
tra quelli che avevano detto “non esageriamo, non si dica svolta
autoritaria ” stanno cambiando idea. Si parla di un’Italia a rischio
“democratura”, di tendenze plebiscitarie, di deperimento del sistema dei
controlli. Se ne sono accorti un po’ tardi.
L’Italia non sarà più una Repubblica parlamentare?
Formalmente
resterà tale, ma ci sarà un accentramento dei poteri nelle mani
dell’esecutivo e della Presidenza del Consiglio e insieme una
depressione di ogni forma di controllo. Non dimentichiamo mai che questa
riforma è accompagnata da una proposta di legge elettorale che
costruisce una maggioranza artificiale nell’altra Camera: Montecitorio
diventerà un luogo di ratifica delle decisioni del governo.
Lei dice: “Si tocca anche la forma di Stato”: cambierà l’equilibrio tra governanti e governati?
L’ultimo
articolo della Carta dice che la forma repubblicana non è modificabile.
Non vuol dire solo che non si può tornare alla monarchia: si vuol dire
che la forma di Stato delineata dalla Costituzione – una delle nuove
costituzioni del Dopoguerra, segnata dal passaggio da Stato di diritto a
Stato costituzionale dei diritti - è una combinazione tra repubblica
parlamentare e repubblica dei diritti. Se si abbandona questa strada, si
rischia di uscire dall’art. 139 modificando la forma repubblicana,
ritenuta invece un limite invalicabile.
I richiami sulla gravità di questo passaggio sono stati trascurati?
Assolutamente
sì, tanto che oggi siamo alla fine di un iter molto preoccupante perché
nasce dalla cultura della decisione. In questi anni decidere è stato
considerato l’unico imperativo.
Di fatto, si sono già modificati i
rapporti tra governo, parlamento e partiti. Basta vedere quante leggi
per decreto, o le indiscrezioni sulla riforma della Rai.
C’è già una
trasformazione del sistema. L’abuso della decretazione ha una lunga
storia in Italia, ma il decreto legge è stato impugnato come un’arma,
dicendo “è l’unico modo che consente di decidere”. Sulla Rai c’è un
punto fermo rappresentato da una sentenza della Consulta che ha
esplicitamente detto che la Rai è affare di parlamento e non di governo.
Comunque se il controllo parlamentare avrà le caratteristiche derivate
dal combinato disposto di riforme e Italicum, quel Parlamento non sarà
altro che la prosecuzione dell’esecutivo: la designazione da parte del
governo di un amministratore delegato, non troverà nel Parlamento
nessuna forma di controllo.
Anche sul Jobs Act, il governo non ha
tenuto in considerazione il parere delle commissioni Lavoro contrarie a
inserire nel testo i licenziamenti collettivi.
La crescente
delegittimazione del Parlamento è evidente. Il tema del licenziamento
collettivo non è un fatto marginale, cambia la qualità della disciplina
del licenziamento. Il parere delle commissioni non era vincolante certo,
ma la domanda è: il governo tiene conto del parere del Parlamento? La
risposta è: no.
La questione centrale della riforma come
dell’Italicum – sottolineata anche dai giudici della Consulta sul
Porcellum - è la rappresentanza dei cittadini.
Ci sono molti dubbi
anche sull’Italicum: la Corte dice chiaramente che l’obiettivo e
ricostituire le condizioni della rappresentanza. Aggiungo: sei mesi
prima della sentenza sul Porcellum, la Corte si era espressa a favore
della Fiom contro la Fiat sulla rappresentanza dei lavoratori nelle
commissioni. Voglio dire: la Consulta afferma a diversi livelli che una
delle caratteristiche del nostro sistema è la garanzia della
rappresentanza.
Renzi ha detto che con il referendum decideranno i cittadini.
Vorrei
far notare che questo è un potere dei cittadini, previsto dalla Carta,
non una concessione del governo. Ora viene adoperato per dire alla
minoranza del Pd: non vi prendiamo in considerazione, decideranno i
cittadini. Cioè di nuovo l’insignificanza del Parlamento.
Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza
Basterà il 40% dei voti per avere il 54% dei seggi All’eventuale ballottaggio può vincere anche una lista che rappresenti una minoranza esiguadi Valerio Onida Corriere 10.3.15
Caro
direttore, l’aspetto più controverso della nuova legge elettorale in
discussione non è quello dei capilista «bloccati» e delle preferenze,
bensì il meccanismo di attribuzione del «premio». Al primo turno basterà
il 40 per cento, il che vuol dire che il 54 per cento dei seggi potrà
andare a un solo partito non scelto e magari fieramente avversato dal 60
per cento dei votanti. All’eventuale secondo turno vincerà chi otterrà
più voti, perché le liste in competizione saranno solo le due più
votate, in qualunque misura, al primo turno. Ma la competizione sarà
falsata dal fatto che tutte le altre liste saranno escluse dal voto; e
quindi gli elettori che le hanno scelte al primo turno non potranno
esprimere più un voto di lista «libero». La maggioranza assoluta dei
seggi potrà andare a una lista che gode della fiducia di una anche
ridotta minoranza degli elettori (ad esempio il 25 o il 30 per cento),
essendo al secondo turno precluso ogni apparentamento e «vietato»
esprimere una scelta diversa da quelle che (magari per pochi voti) sono
risultate prima e seconda al primo turno. Inoltre, è possibile che al
secondo turno non votino, perché non si sentono rappresentati dalle due
liste in campo, molti elettori che pure si erano espressi al primo
turno, e che quindi la maggioranza assoluta dei seggi venga attribuita
ad una lista che né al primo, né al secondo turno abbia ottenuto la
fiducia della maggioranza di coloro che hanno partecipato al voto. Il
premio, insomma, sarebbe assegnato anche se la vittoria nel secondo
turno (che non richiede alcun quorum di partecipazione) fosse frutto del
voto espresso da una parte ridotta dell’elettorato non astensionista, e
quindi di una «non maggioranza».
Si dice: ma questa è la logica del
«ballottaggio». In realtà è equivoco persino parlare di ballottaggio.
Questo, classicamente, è un sistema adottato per eleggere una singola
persona (come ad esempio il sindaco, o come il deputato — unico — di un
singolo collegio nei sistemi uninominali). Poiché uno solo è il seggio
da coprire, alla fine il ballottaggio è necessario per eleggere chi fra i
contendenti gode del maggiore favore dell’elettorato. Ma qui si tratta
di eleggere un’assemblea, non una carica monocratica: un’assemblea che
dovrebbe riflettere e rappresentare i diversi orientamenti
dell’elettorato. Per questo servono i partiti, che elaborano e avanzano
le diverse proposte (collettive). Non è detto (e non è così oggi in
Italia) che i partiti, e perfino gli orientamenti politici di fondo,
siano solo due: dunque rappresentare l’elettorato non può voler dire
attribuire senz’altro la maggioranza dell’assemblea ad uno solo di essi,
anche minoritario, così che questo possa impadronirsi del governo.
Per
di più non è detto che l’alternativa secca proposta al secondo turno
fra le due liste più votate esprima davvero la più significativa ed
esauriente contrapposizione fra le forze che rappresentano gli
orientamenti fondamentali dell’elettorato, come per esempio centrodestra
e centrosinistra. Potrebbe accadere che gli elettori si trovino un
giorno a poter scegliere solo fra il Pd e una formazione di tipo
estremistico come l’attuale Lega, oppure solo fra il Pd e il Movimento 5
Stelle, oppure addirittura fra un centrodestra «estremizzato» e il
Movimento 5 Stelle.
Non vale invocare l’obiettivo della cosiddetta
governabilità. In regime parlamentare, il governo è espressione della
maggioranza delle Camere, non necessariamente formata da un unico
partito (anche la vecchia Dc quasi mai governò da sola, per fortuna) e
nemmeno necessariamente da un unico schieramento (di qui anche la
possibilità delle «grandi coalizioni»). Le maggioranze possono nascere
in Parlamento, sulla base delle convergenze e anche dei compromessi che
si realizzano sui programmi. Non si può, in nome di un’esigenza di
governabilità, disattendere e tradire la fondamentale esigenza di
rappresentatività del Parlamento (è questo anche il senso della sentenza
della Corte costituzionale che ha censurato la legge elettorale del
2005), pretendendo che in esso debba necessariamente dominare uno e un
solo partito, anche se non esprime la maggioranza del Paese. Il
Parlamento è assemblea, cioè voce collettiva della nazione, e non luogo
di ratifica di decisioni prese al di fuori, né semplice tribuna di un
dibattito pubblico predeterminato nell’esito. Per questo servono i
partiti, e servono il confronto e anche le convergenze fra di essi.
In
realtà, dietro queste scelte sulla legge elettorale, si rivela la tesi
(già vittoriosamente contrastata nel referendum del 2006, ma ancora
riaffiorante) secondo cui agli elettori deve rimettersi in sostanza solo
la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranza
parlamentare è una sorta di appendice (non a caso si parla di «sindaco
d’Italia»). E si rivela l’altro assioma, per cui il sistema politico
dovrebbe articolarsi fondamentalmente solo in due partiti, ciascuno dei
quali propone un unico leader. Il bipartitismo è (quando lo è: oggi non
lo è, non solo in Italia) il risultato della storia, non di una
ingegneria elettorale.
Chi svilisce il Parlamento
di Massimo L. Salvadori Repubblica 10.3.15
NON
è molto che la presidente della Camera ha solennemente ammonito a non
dimenticare che il Parlamento è la Casa della Democrazia. Lo ha fatto
indirizzandosi particolarmente al capo del governo, “l’uomo solo al
comando” che ha un’eccessiva inclinazione a restringere quando non a
ignorare il ruolo delle istituzioni rappresentative per centrare i suoi
obiettivi. Ciò che è emerso è un classico caso di tensione fra potere
legislativo e potere esecutivo. Naturalmente l’uscita della Boldrini ha
suscitato il disappunto di Renzi e l’entusiasmo del variopinto
schieramento anti-renziano i cui più accesi esponenti da tempo gridano
alla dittatura incombente.
Dichiarare alla luce dei principi che il
Parlamento è la Casa della Democrazia è giusto e bello. Ma guardare a
che cosa in concreto riducano l’attività del Parlamento e il processo
democratico le continue ondate di gladiatorio e incivile ostruzionismo
messe in atto da opposizioni di spuria composizione legate dall’unico
scopo di bloccare l’azione dell’esecutivo è parimenti doveroso. La
nobile Casa della Democrazia è gravemente malata. Vi albergano o partiti
solo più ombre di partiti, divisi al loro interno in fazioni nemiche,
sull’orlo della scissione, dalle leadership contestate; o partiti che,
mentre gridano contro “l’uomo solo al comando”, si piegano ad essere
proprietà di una persona e proprio per questo perdono pezzi; o partiti,
come il Pd, il quale, pur essendo quello che maggiormente conserva
l’aspetto di un partito, è a sua volta preda di affanni e divisioni che
inducono la minoranza a mettere a ripetizione il bastone nelle ruote del
suo segretario- capo del governo. Non interessa qui indugiare a
riflettere su chi “abbia torto o ragione” in merito alle tante
questioni, ma constatare il nudo fatto che il Parlamento è male abitato e
serve al peggio il paese. È male abitato per la scarsa e persino
scarsissima qualità di troppi deputati e senatori e inoltre perché ormai
i rappresentanti del popolo — stante tutte le mutazioni avvenute dalle
ultime elezioni — non rappresentano più gli italiani. Non vi è partito
che non appaia più o meno gravemente usurato. Senza considerare questo
quadro non si capisce il duplice motivo per cui da un lato lo
scompaginato schieramento delle opposizioni al governo non abbia altro
comun denominatore se non fare fronte contro il governo, dall’altro il
premier sia indotto ad assumere il ruolo del decisionista che si sente
investito del compito-dovere di assicurare, manovrando nelle sabbie
mobili dei cambiamenti di orientamento dei gruppi parlamentari, un
governo al paese e di realizzare le riforme istituzionali, a partire
dell’abolizione di quel bicameralismo che più di così non avrebbe potuto
screditarsi. Non cogliere il nesso tra i due aspetti significa non
vedere la realtà.
Si sa che le riforme piacciono agli uni e non agli
altri. È nella logica elementare della lotta politica e sociale.
Sennonché in un Parlamento che voglia non solo a parole onorare la
democrazia, dovrebbe valere una regola basilare, senza la quale il
processo legislativo si inquina: il rispetto della regola della
maggioranza all’interno dei partiti come presupposto del formarsi di una
maggioranza che non balli ogni giorno. Ma ecco il problema: il generale
disordine che regna nei partiti — da cui si vede quanto non sia esente
anche il Pd — porta le minoranze a non voler rispettare la regola, con
l’effetto che formare in Parlamento delle maggioranze dotate di una
qualche stabilità diventa un lavoro di Sisifo. Da ciò l’inclinazione
dell’esecutivo a far ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia, così
attivando “maggioranze forzate” che suscitano le proteste. Come uscire
da un simile infelice stato di cose è davvero arduo dire e immaginare.
Ragionevole pensare che la via sarebbe l’approvazione, una volta
decretata la fine del bicameralismo, di una decente legge elettorale e
poi andare al voto. Renzi si propone di andare avanti ed evitare il voto
prima del 2018; e ostenta ottimismo. Le opposizioni dal canto loro
seminano mine sul percorso delle riforme. Si capisce che i più
agguerriti nel farlo siano vuoi i parlamentari i cui partiti ancor più
che traballare versano in pezzi e quindi hanno una paura matta delle
elezioni; vuoi i leghisti e i grillini che, pur concorrenti tra loro e
anch’essi con problemi di tenuta interna, puntano a fare cadere il
governo di Renzi traditore-despota senza curarsi del caos politico che
ne deriverebbe. L’interesse comune dell’ammucchiata dei molto diversi è
di trasformare ad ogni buona occasione il Parlamento in un ring popolato
da urlatori impegnati a opporre al percorso delle riforme
insormontabili ostacoli. Difendere la dignità del Parlamento è dunque
bello, ma vederlo per quel che è e strigliarlo come merita è un dovere
nazionale.
il Fatto 10.3.15
La nuova Costituzione secondo Matteo: Come cambia la Carta
Alla Camera riprende il voto sulle riforme della corsia preferenziale per il governo al Senato dei nominati
Ecco tutte le novità del Ddl Boschi
di Luca De Carolis
Addio
al bicameralismo perfetto e al vecchio Senato, trasformato (o ridotto)
in un ente di secondo livello con funzioni per lo più consultive. Corsia
preferenziale per i disegni di legge del governo. Quorum più alti per
eleggere il presidente della Repubblica e per le leggi di iniziativa
popolare. Sono i punti principali della riforma costituzionale renziana,
approvata in prima lettura in Senato lo scorso otto agosto. Oggi
dovrebbe arrivare il sì della Camera, ma per arrivare al via libera
definitivo la strada è lunga. Il ddl di revisione costituzionale, come
prevede l’articolo 138 della Carta, va approvato in doppia lettura
conforme da Camera e Senato, e tra una votazione e l’altra devono
trascorrere almeno tre mesi. Nel secondo passaggio è richiesto il sì
della maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti di ciascuna
Camera). Una volta approvato da Montecitorio, che l’ha sottoposto a
lievi modifiche, il ddl di riforma dovrà tornare in Senato, dove si
dovrà chiudere la prima lettura (ma si voterà solo sulle parti
modificate). Toccherà quindi di nuovo alla Camera (non prima di giugno) e
poi a palazzo Madama, per quella che sarebbe l’ultima votazione. La
Carta prevede l’obbligo del referendum qualora, in seconda lettura, il
ddl costituzionale non venga approvato con la maggioranza dei due terzi
in ciascuna Camera. Ma il governo vuole che la consultazione popolare si
svolga in ogni caso, come ribadito nelle ultime ore da Matteo Renzi.
Addio al bicameralismo perfetto
L’abolizione
del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri) è il primo
obiettivo della riforma, nonché il suo principale rischio a detta delle
opposizioni e di diversi costituzionalisti, che temono un grave
indebolimento del processo democratico di formazione delle leggi. Con il
ddl costituzionale, Montecitorio diventa la Camera “forte”, mentre il
Senato viene trasformato in un organo a elezione indiretta, composto da
95 tra consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali. A
questi si aggiungono gli ex presidenti della Repubblica e i cinque
senatori nominati dal Capo dello Stato: non più a vita, ma per 7 anni. I
senatori rimangono in carica per la durata del Consiglio regionale che
li ha nominati, e non percepiscono alcuna indennità parlamentare. Ma a
mutare sono soprattutto i poteri dei due rami del Parlamento.
La
Camera (che mantiene i suoi 630 membri) diventa l’unica a votare la
fiducia al governo e a controllare il suo operato, e può approvare da
sola la grandissima parte delle leggi. Con la riforma, dovranno essere
approvate da entrambe le Camere solo le riforme e leggi costituzionali,
le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, la ratifiche dei
trattati internazionali, e le leggi sui referendum popolari. Per le
altre basterà il sì della Camera. Ma il Senato può comunque intervenire,
chiedendo di esaminare i ddl passati alla Camera entro 10 giorni dalla
loro approvazione. Le proposte di modifica vengono inviate entro 30
giorni a Montecitorio, che deve dare il via libera definitivo al testo, e
può anche ignorare i suggerimenti dei senatori. Il passaggio in Senato è
obbligatorio per le leggi di bilancio. Capitolo a parte per le leggi “a
tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica” o a tutela
dell’interesse nazionale: in questo caso, la Camera può ignorare le
modifiche proposte dal Senato solo votando a maggioranza assoluta.
Corsia accelerata per l’esecutivo
Un
altro punto cruciale è il “voto a data certa”, in base al quale il
governo può chiedere alla Camera di deliberare che un ddl “essenziale
per l’attuazione del programma del governo” venga votato in via
definitiva entro 70 giorni. In pratica l’esecutivo può chiedere una
corsia accelerata per i suoi provvedimenti, grazie a cui vengono
dimezzati i termini per chiedere modifiche a disposizione del Senato. Il
voto a data certa è escluso per pochissime leggi, tra cui quelle che
vanno approvate da entrambe le Camere e quelle che concedono l’amnistia e
l’indulto.
Dal Quirinale ai referendum, cambiano i quorum
A
eleggere il presidente della Repubblica saranno i parlamentari, senza
più l’apporto dei delegati regionali. Si alza il quorum per l’elezione,
che dal quarto scrutinio richiede la maggioranza dei tre quinti dei
parlamentari (attualmente basta la maggioranza assoluta) e dal settimo
scrutinio in poi vuole i tre quinti dei votanti. Modifiche anche per il
referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila persone, il quorum
per approvarlo diventa la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni
politiche (e non più degli aventi diritto al voto). Per le proposte di
legge iniziativa popolare serviranno 150 mila firme, rispetto alle 50
mila attuali (altra norma contestata).
Enti tagliati e nuove competenze
La
riforma incide sul Titolo V. Elimina il riferimento alle province come
enti costitutivi della Repubblica e sopprime la competenza concorrente
tra Stato e Regioni, ridistribuendo le singole materie tra
amministrazione ed enti locali. Novità rilevante è la clausola di
supremazia, che consente allo Stato, su proposta del governo, di
legiferare su materie di competenza regionale a tutela dell’unità della
Repubblica o dell’interesse nazionale.
Il segnale della minoranza dem (che arretra)
Saranno
cinque o sei i parlamentari che oggi in Aula diranno no: la battaglia
si sposta sull’Italicum Lettera aperta di Cuperlo al segretario perché
modifichi la riforma. Guerini: ci aspettiamo un voto ampiodi Alessandro Trocino Corriere 10.3.15
ROMA
La battaglia vera è rinviata, al terzo round in Senato per le Riforme e
soprattutto alla legge elettorale. La minoranza del Pd, oggi, si
limiterà a dare «un segnale» a Matteo Renzi: saranno pochi — cinque o
sei — i parlamentari del Pd che decideranno di non votare, uscendo
dall’Aula. Il resto, compreso l’Area riformista della minoranza (che fa
capo a Roberto Speranza), oggi alla Camera voterà a favore della riforma
del Senato. Il premier si prepara a incassare un altro tassello delle
suo percorso per le riforme e, dopo aver visto i parlamentari in un
incontro sul fisco, oggi incontrerà i deputati per parlare di Rai (in
particolare quelli della Vigilanza) e di scuola: incontro preparatorio,
visto che giovedì, in Consiglio dei ministri, affronterà proprio questi
due temi.
Renzi va avanti con sicurezza e prova a superare gli
ostacoli che ancora si frappongono. Il suo vice Lorenzo Guerini è
ottimista: «Sulla riforma ci aspettiamo un voto largo, anche perché
sull’impianto c’è sempre stata una convergenza di massima del partito».
La minoranza del Pd, incerta fino all’ultimo sull’atteggiamento da
tenere, mantiene ferme le critiche alla riforma del Senato, ipotizza la
stesura di un documento, ma poi decide di dare il via libera. Lo spiega
Davide Zoggia: «Al punto in cui siamo arrivati è difficile non votare la
riforma. Sarà un dissenso contenuto. Non la voteremo in cinque o sei:
io, D’Attorre e Fassina, tra gli altri. La battaglia si sposta ora sulla
legge elettorale».
Una lunga e dibattuta riunione serale — presenti
tra gli altri Pierluigi Bersani e Gianni Cuperlo — ha sancito la linea
da tenere. Area Riformista (che raggruppa un centinaio di deputati)
aveva anticipato la sua linea favorevole al sì con l’intervento in Aula
pomeridiano di Andrea Giorgis. Che ha detto sì alle riforme, pur
specificando l’auspicio «che nel prossimo passaggio al Senato migliorino
le condizioni e che alcune rigidità del governo siano superate».
Gianni
Cuperlo, di Sinistra dem, ha però lanciato un ultimo appello al
premier, con una lettera aperta: «Il segretario trovi il coraggio di
rimettere ai parlamentari la possibilità di apportare i cambiamenti
necessari alla riforma costituzionale nella terza lettura al Senato».
Cuperlo contesta contenuti e modi: «Prima i parlamentari dovevano
obbedire al Patto del Nazareno, sottoscritto fuori dal Parlamento. Ora
devono obbedire in ossequio a un patto che non c’è più». Replica
Guerini: «Ormai la linea è tracciata, il Senato dovrà concentrarsi sui
punti che sono stati modificati alla Camera».
Tra i più duri
oppositori al governo e al segretario Renzi, c’è Pippo Civati. Che
appare piuttosto sconcertato dagli atteggiamenti ondivaghi dei colleghi
della minoranza: «Decidano, c’è troppa ambiguità. Un giorno Bersani vota
a favore, il giorno dopo fa la voce stentorea. Area Riformista non si
capisce bene se fa la minoranza o la maggioranza». Una spiegazione la dà
Roberto Speranza, di Area Riformista e spesso cerniera con la
segreteria, grazie anche al suo ruolo di capogruppo: «Non abbiamo
alternativa a stare in questo Pd e in questo governo. Il sistema è
bloccato, con Grillo populista, la Lega che ci vuole fuori dall’Europa e
Berlusconi che certo non è ben visto dalle cancellerie europee. Il Pd è
l’architrave della democrazia e tutto quello che possiamo fare noi è
provare a spostare l’asse del partito e del governo, non a farlo
saltare».
Restano le spaccature e le polemiche. Come quella che
coinvolge Miguel Gotor. Secondo il renziano Andrea Marcucci, che si
riferisce a un intervista al Corriere della Sera , «Gotor dice che
Berlusconi non è il diavolo e che le riforme della Costituzione vanno
fatte anche con l’opposizione. Se abbiamo contribuito a risolvere il
problema che la sinistra ha da 20 anni con Berlusconi siamo
soddisfatti». E ancora: «Avversavano così tanto il Patto del Nazareno
che l’hanno ricostruito». Replica Gotor: «Marcucci quando supera i 140
caratteri di un tweet diventa Pinocchio. È una bugia dire che la
minoranza abbia negato in passato il dialogo con l’opposizione per le
riforme».
Renzi avverte i bersaniani: “No a modifiche altrimenti salta tutto”
di Francesco Bei Repubblica 10.3.15
ROMA
Nessun ripensamento, nessuna apertura. Matteo Renzi incasserà oggi il
voto favorevole alla riforma costituzionale e non intende riaprire il
capitolo dell’Italicum. Perché è questa la vera battaglia che si profila
all’orizzonte, l’ultimo vero terreno di scontro per la minoranza dem.
Che ne fa una questione identitaria o, per dirla con Bersani, di
«democrazia».
Ma c’è una ragione politica precisa se il premier ha
deciso di alzare il ponte levatoio e puntare su un voto blindato a
Montecitorio, quando tra un paio di mesi - dopo le regionali - la legge
elettorale inizierà il suo cammino in commissione. «Se il testo dovesse
cambiare ancora — ha spiegato Renzi ai suoi — saremmo costretti ad
affrontare di nuovo un passaggio al Senato. E non ce lo possiamo
permettere». Il problema, ovviamente, non è legato ai tempi visto che il
capo del governo ormai è puntato sulle elezioni nel 2018. Il fatto è
che palazzo Madama, dopo la rottura del patto del Nazareno, per il
governo è diventato una palude infida. Dove i 27 bersaniani che si
schierarono a gennaio contro l’Italicum — resi allora ininfluenti dal
voto favorevole di Forza Italia — potrebbero stavolta rivelarsi
determinanti. Per questo la riforma elettorale, secondo Renzi, è un
treno che deve arrivare al capolinea alla Camera. «Entro l’estate avremo
la riforma», promette sicuro ai suoi. Del resto due giorni fa,
nell’ultima enews, ha ribadito che nella legge ci saranno «metà
preferenze e metà collegi». Quindi resteranno i cento capilista
bloccati. E il passaggio alla Camera dovrà essere «l’ultima lettura,
quella finale».
In realtà, anche se la minoranza di area riformista
insiste nel chiedere che le preferenze vengano estese e garantite anche i
partiti che non si aggiudicano il premio di maggioranza, non è su
questo punto che si addensano i pericoli maggiori per il governo. Il
vero elemento di fragilità politica della riforma è un altro: il premio
alla lista e non alla coalizione. «Sulle preferenze i forzisti voteranno
contro gli emendamenti della minoranza dem — spiega un renziano — e
quindi siamo abbastanza tranquilli. L’unico elemento di saldatura fra i
nostri e i forzisti può essere sul premio alla coalizione». Berlusconi
infatti ha bisogno di una norma che convinca Salvini a coalizzarsi con
Alfano e con Forza Italia. Una norma che gli possa consentire di
rimettere in piedi un’alleanza di centrodestra con qualche speranza di
arrivare al ballottaggio. Ma qui il calcolo di Renzi si affida a Grillo e
Casaleggio. «Con il premio alla lista — ragiona il capo dell’ese-
cutivo — il movimento 5 Stelle può andare al ballottaggio contro di noi.
Con una legge elettorale che premia le coalizioni sono invece destinati
all’estinzione ». Saranno quindi i deputati grillini, spera il premier,
a bocciare l’emendamento forzista sul premio alla coalizione.
In
questo gioco di alleanze parlamentari variabili, Renzi conta quindi
sugli interessi divergenti dei suoi avversari, uniti soltanto
dall’ambizione di buttare giù il governo ma divisi sul modello di legge
elettorale. Ma se in uno scrutinio segreto (tali saranno la maggior
parte delle votazioni sulla legge elettorale) davvero le minoranze dem
riuscissero a “sabotare” l’Italicum, il premier ha già pronta l’arma del
dottor Stranamore. «Per noi — scandisce un renziano della cerchia
stretta — la legge elettorale fa parte del programma di governo. Se
dovesse saltare, salterebbe anche il governo. E si andrebbe a votare». A
favore del premier giocano anche le divisioni nei vari partiti
d’opposizione. Le antenne renziane segnalano una quindicina di deputati
forzisti — i verdiniani, Rotondi, Santanché, Ravetto — che già oggi
potrebbero astenersi o persino votare a favore della riforma
costituzionale. Mentre se Flavio Tosi andasse avanti con il suo
progetto, tra i cinque e gli otto deputati leghisti potrebbero seguirlo.
Tutti parlamentari che puntano a una prosecuzione della legislatura il
più a lungo possibile. Tutti voti che tornerebbero utili al governo.
Certo,
resta la sfida della minoranza interna. Andrea Giorgis, parlando ieri
in aula a nome di area riformista (il correntone bersaniano), ha
annunciato il voto favorevole alla riforma costituzionale ma ha ribadito
la richiesta di modifiche sull’Italicum: «Dagli errori compiuti e dalle
difficoltà incontrate nel corso di questo primo passaggio alla Camera,
così come dai risultati positivi che si sono raggiunti, occorre trarre
insegnamento, quando inizieremo a discutere in quest’aula della legge
elettorale ». Una lunga riunione delle minoranze, protrattasi fino alle
dieci di sera, ha fatto emergere posizioni più dure. A parte Civati e
Fassina, che ormai non seguono da tempo le indicazioni del partito,
altri hanno proposto di distinguersi ulteriormente nel voto
costituzionale. Astenendosi, oppure accompagnando il voto a favore con
un documento molto critico sulla riforma elettorale e sul ddl Boschi.
Potrebbe essere questa la scelta di Cuperlo e D’Attorre, l’ala più
intransigente dei dissidenti.
L’atto di nascita del partito di Renzi che scompagina l’opposizione
di Stefano Folli Repubblica 10.3.15
L’affermazione della Lega in Veneto sarà una vittoria di Pirro, incapace di produrre una destra di governo
OGGI
il “partito di Renzi” rischia di dilagare in Parlamento, ossia di
sbaragliare il campo dei suoi oppositori più o meno improvvisati.
L’occasione è propizia: il voto sulla riforma costituzionale del Senato,
una legge che finora è servita soprattutto a dimostrare l’inconsistenza
degli anti-premier.
Tutto lascia supporre che a prevalere non sarà
la maggioranza di governo e nemmeno il Pd. Prevarrà il “partito di
Renzi”, appunto: quel singolare aggregatore che oggi funge da calamita
politica e scompagina i gruppi, risucchiandone vari segmenti sotto la
tenda del presidente del Consiglio. Nel Pd la riforma ha suscitato il
ricorrente malessere della famosa minoranza bersaniana, ma al dunque non
si capisce quale sia la strategia di questa corrente che il segretario,
a ogni buon conto, ha già provveduto a indebolire e disarticolare.
Quanto
al centrodestra, il “partito di Renzi” può compiacersi del trionfo.
Forza Italia non esiste più. Ce ne sono alcuni frammenti che occupano i
banchi parlamentari e che al momento della votazione su una riforma
fondamentale per l’equilibrio istituzionale si dividono in almeno
quattro sotto-gruppi: chi vota «no» per un atto di estrema obbedienza
verso il vecchio leader ritornato a casa da Cesano Boscone; chi si
astiene; chi esce dall’aula; chi addirittura vota a favore, dimostrando
quanto sia forte ormai il «renzismo », nuovo baricentro del sistema.
È
la fine ufficiale e quasi certificata, potremmo dire, del centrodestra
come soggetto politico. Di più: è la conclusione senza possibilità di
appello di una stagione cominciata nel 1994 e vissuta per lunghi anni
nel segno di Berlusconi, anche se tale impronta si era dissolta già da
qualche tempo. Se le cose andranno così, per il presidente del Consiglio
sarà un punto di svolta. La riforma del Senato non è tanto
significativa nel merito (permangono parecchi dubbi sulla composizione e
l’utilità del nuovo organismo), quanto è essenziale come arma volta
allo sfaldamento dei vecchi potentati della Roma politica.
Il
“partito di Renzi” scompagina e assorbe. Intorno ad esso si esercita il
trasformismo più antico e la spregiudicatezza più moderna. All’interno
del Pd la sinistra soffre, ma non ha una direzione di marcia.
All’esterno, sulle macerie di Forza Italia nasce persino la corrente dei
berlusconiani “renziani”. E i Cinque Stelle dissidenti, o una parte di
loro, sono così pronti a entrare in maggioranza da pretendere
addirittura un ministero. Probabilmente non lo avranno, non subito
almeno, ma già averlo chiesto dimostra come è cambiata la scena.
Il
vecchio patto del Nazareno non solo è superato, è addirittura sublimato:
nel senso che una parte di Forza Italia, la più intransigente, viene
sospinta verso Salvini e diventa tributaria del capo leghista; mentre
l’altra ala, quella rimasta fedele nonostante tutto alla logica
pattizia, entra di fatto nell’orbita del premier. Una sorta di corrente
esterna del partito trasversale che si avvia a dominare il Parlamento.
S’intende che le trappole sono sempre possibili e Renzi dovrà guardarsi
dall’eccesso di sicurezza. La storia è piena di leader politici, non
meno astuti dell’ex sindaco di Firenze, che sono inciampati perché
troppo sicuri di sé. Ma questo è già un altro affare.
Per il momento
il renzismo può celebrare il suo vero atto di nascita. Al di là
dell’orizzonte resta Grillo, che i sondaggi danno sempre in discreta
salute nonostante gli errori e le defezioni. E naturalmente resta
Salvini con il suo disegno alla Le Pen che contribuisce non poco a
frammentare la destra post-Berlusconi. Ilvo Diamanti ha ben spiegato
come la Lega vincerà in Veneto nonostante il distacco del sindaco Tosi.
Vincerà trascinandosi dietro una porzione consistente di Forza Italia,
ma su posizioni aspre e radicali. Sarà con ogni probabilità una vittoria
di Pirro, tale da rendere più complicata qualsiasi ricostruzione in
tempi ragionevoli di una destra “di governo”, fondata su una cultura
moderata ed europeista.
La vera posta è la legge elettorale
di Marcello Sorgi La Stampa 10.3.15
L’approvazione
(non definitiva, mancano ancora due passaggi) della riforma del Senato
alla Camera non è in discussione. Ma dalla giornata parlamentare di
oggi, che vede il ritorno in aula delle opposizioni (tutte, tranne M5s),
la maggioranza che sorregge il governo potrebbe uscire con nuovi e più
frastagliati confini. Non ci sarà, almeno non dovrebbe esserci, la
convergenza tra la minoranza del Pd, che voterà solo per disciplina di
partito, scontando il dissenso di alcuni suoi esponenti come Fassina e
Civati, e Forza Italia, tornata all’opposizione dopo la rottura del
patto del Nazareno e pronta, come ha annunciato Berlusconi, a opporsi
«all’arroganza di Renzi». Ma anche in questo caso, all’interno della
settantina di deputati berlusconiani si moltiplicheranno i casi di
coscienza, dato che si tratterebbe di dire no a un testo a cui al Senato
Forza Italia aveva detto si.
Disobbediente, come lei stessa si è
definita, sarà Daniela Santanchè; e con lei una pattuglia di
parlamentari vicini a Denis Verdini, emarginato dopo la fine del
Nazareno, ma non piegato alla svolta proclamata dall’ex-Cavaliere. A
imporla, in realtà, è stato Salvini: per sancire l’accordo sul Veneto in
vista delle regionali, il leader del Carroccio ha posto la
discriminante del voto contrario alle riforme. Così Berlusconi, non solo
ha dovuto accettare di non essere più il capo del centrodestra, ma
anche di interrompere il processo di riavvicinamento con l’Ncd, che pure
resta strategico in Campania.
Questa confusa distribuzione delle
forze in campo avrà la sua leva sugli ordini del giorno, che le
opposizioni non rinunciano a presentare anche se ormai il testo della
riforma è stato approvato nell’articolato e va in aula per il solo voto
finale. È su questi testi, mirati a sollecitare un ripensamento per i
prossimi passaggi parlamentari, che potrebbero misurarsi le alleanze più
imprevedibili, per esempio tra Brunetta e Vendola, come quelle che la
volta precedente, dopo la decisione di Renzi di chiedere la seduta
notturna per accelerare i tempi delle votazioni, portarono appunto
all’Aventino.
Si tratterà insomma di una sorta di prova generale
della prossima grande battaglia sulla legge elettorale, e i numeri che
si presenteranno volta per volta saranno indicativi, per cercare di
convincere il premier ad accettare di modificare ulteriormente
l’Italicum. Qualcosa di cui a Palazzo Chigi non si vuol neppure sentire
parlare, visto che comporterebbe un altro passaggio al Senato, dove
stavolta la legge non potrebbe contare sull’aiuto di Berlusconi: ancora
ieri all’assemblea dei parlamentari Renzi ha ribadito che l’iter
dell’Italicum deve concludersi alla Camera.
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