domenica 8 marzo 2015

"I padiglioni nazista e sovietico esaltavano l’arte totalitaria": battista dei ricchi e ora anche un po' docente di estetica


Risultati immagini per guernicaParigi 1937, Picasso va all’Expo

L’ultima Esposizione internazionale prima della grande catastrofe I padiglioni nazista e sovietico esaltavano l’arte totalitaria L’Italia fascista schierò l’architetto Piacentini Ma la Spagna repubblicana portò «Guernica», l’antidoto

di Pierluigi Battista Corriere La Lettura 8.3.15

Si chiamava esattamente Exposition Internationale des Arts et Techniques dans la Vie Moderne . Ed Expò poteva essere solo una comoda abbreviazione; non come ora, cioè con la sigla che oramai tutti usano per una manifestazione del genere, tipo quella che quest’anno sta per aprire i battenti a Milano. Era il 1937, a Parigi, e tutto si svolgeva nei pressi della Tour Eiffel (progettata e nata alla luce di un’altra Esposizione, quella tenuta nel 1889, centenario della Rivoluzione francese) e certo si parlava come è naturale di commercio e di invenzioni, di turisti e di monete. Ma quell’Expo fu soprattutto una straordinaria concentrazione di conflitti ideologici e artistici, il teatro di una grande e intensa guerra culturale.
C’erano gli scienziati e gli imprenditori, come sempre. Ma l’attenzione di tutti era monopolizzata dal genio di Picasso, dal destino di Vasilij Kandinskij, dall’opera dei grandi architetti al servizio dei regimi totalitari, da Louis-Ferdinand Céline. In primo piano spiccavano l’arte, l’estetica, la politica, la guerra. Perché quel 1937 fu un anno pieno di paradossi e di coincidenze. E Parigi fu lo scenario rutilante di uno spietato corpo a corpo ideologico, il «prologo in cielo» della gigantesca guerra che di lì a pochissimo avrebbe incendiato l’Europa e il mondo.
Tutte le immagini tramandate di quel 1937 raccontano il fragore di un urto spettacolare. Sullo sfondo la Tour Eiffel, testimone prestigiosa e memoria storica. Poco distante, di fronte l’una all’altra come promessa di una minaccia vicendevole, due costruzioni massicce, ciclopiche, imponenti, manifestazioni di due opposti progetti di volontà di potenza. La prima era il padiglione tedesco, che doveva celebrare il nazismo trionfante. Un gigantesco parallelepipedo in marmo bianco, sormontato da un’enorme aquila e da un’immensa svastica. Hitler aveva voluto che a costruirlo fosse Albert Speer, l’architetto più amato del regime, che aveva ideato per il Führer i giochi di luce e le suggestioni scenografiche delle grandi adunate naziste e che progettava di fare di Berlino la città santa del Reich millenario. Ma proprio di fronte a quel simbolo della potenza tedesca si ergeva il padiglione sovietico, un colosso di pari dimensioni, di uguale, schiacciante imponenza. Anche in questo caso Stalin aveva voluto un grande architetto, Boris Iofan, il demiurgo che aveva dato prestigio e forza architettonica al comunismo staliniano e che anche per Parigi aveva scelto il gigantismo marziale come contrassegno della potenza totalitaria del regime.
L’altezza dei due padiglioni, 25 metri, era più o meno la stessa. In quello sovietico al posto dell’aquila e della svastica c’erano due fieri lavoratori, forti, invincibili, proiettati nel radioso futuro dell’umanità nuova, secondo i canoni della più scontata iconografia staliniana. Ma i due padiglioni contrapposti, simbolo di un’antitesi politica radicale, di una lotta mortale che non poteva prima o poi concludersi senza la distruzione di uno dei due contendenti, sembrano esteticamente identici. Nemici, ma gemelli: la stessa ostentazione del monumentale, l’adesione alle norme più scontate del neoclassico, le forme quadrate, l’idea dell’arte come qualcosa che deve esaltare un regime e non mostrarne mai le ombre e le debolezze. Tutto questo rendeva straordinariamente simili, sul piano dell’estetica ufficiale, i due poli dell’antagonismo ideologico. Talmente simili che, proprio nel 1937, sia il nazismo che il comunismo raggiunsero l’apice nella guerra contro l’arte «decadente», contro la seduzione delle avanguardie, dell’estetica irregolare e non propagandistica.
Per questo, proprio a Parigi, proprio nel cuore di quell’Esposizione, nel padiglione spagnolo si ritroverà il simbolo di tutto ciò che i due regimi odiavano: Guernica di Pablo Picasso, che segnava un’epoca e che tra i suoi principi compositivi aveva proprio le linee spezzate e stravolte, l’antimonumentalità, l’anticlassicismo.
Sono fiorite tante leggende su Guernica di Picasso. Guernica era la città-martire, rasa al suolo dagli aerei di Hitler, della guerra civile che infuriava in Spagna e che vedeva contrapposte sul campo proprio le due potenze i cui padiglioni si fronteggiavano con tanta minacciosa somiglianza. Quando i repubblicani spagnoli chiesero a Picasso un’opera che nell’Esposizione di Parigi portasse all’attenzione del mondo la causa del governo legittimo spagnolo, Picasso si mise subito al lavoro. Ci sono le fotografie scattate da Dora Maar nell’atelier dell’artista che documentano l’attività febbrile del pittore per arrivare all’appuntamento. Nascono in quei mesi le figure che impegneranno generazioni di studiosi intenti a decifrarne i simboli: il toro emblema della prepotenza, il significato della lampada, il grigio che assomiglia alle foto in bianco e nero di Guernica distrutta, il cavallo che è il popolo oppresso, e così via.
I maligni e i detrattori politici dell’artista hanno detto e continuano a dire che Picasso avrebbe riciclato un lavoro che aveva già in massima parte compiuto e che era stato realizzato en muerte del grande torero Joselito. Ma le fotografie della Maar documentano con molta precisione l’evoluzione convulsa del lavoro di Picasso. Che irruppe con la sua opera all’Esposizione di Parigi, mentre i colossi totalitari si fronteggiavano con le dimensioni monumentali delle loro macchine architettoniche da guerra. Il padiglione spagnolo divenne il rifugio dell’arte libera, che non segue i canoni imposti dai regimi.
Proprio nell’anno 1937 la Germania nazista e l’Unione Sovietica di Stalin avevano stretto le viti della repressione nei confronti dell’arte «astratta», «decadente» e che rappresentava esattamente quello che si voleva cancellare con quei padiglioni giganteschi. A Monaco i nazisti allestirono quella che sarcasticamente è stata definita la più bella mostra di arte contemporanea e che Goebbels decise di battezzare come Mostra dell’arte degenerata : oltre 650 opere confiscate, da Otto Dix a Paul Klee, da Kandinskij a Piet Mondrian, da Oskar Kokoschka a Max Ernst, allo stesso Picasso. Doveva essere la galleria vituperata dello spirito «ebraico», antitedesco, «prodotto di menti malate» e il primo anno, ironicamente, venne visitata da oltre due milioni di persone (mentre quella sull’arte ariana, sponsorizzata dal regime, non raggiunse i 500 mila visitatori).
Nell’Urss di Stalin la scomunica dell’astrattismo di Kandinskij raggiunse invece nel ’37 il suo apice, con il definitivo anatema per un artista che pure aveva vissuto con speranza l’avvento della rivoluzione, ma era riparato ben presto in Germania con il Bauhaus e poi, con il trauma del nazismo, a Parigi, dove, negli ultimi anni della sua vita, scrisse: «È davvero curioso che i nazisti e i comunisti abbiano dimostrato la stessa cecità riguardo all’arte astratta».
Imperava il dogma cupo del «realismo socialista» che doveva imporsi sulla letteratura, sull’arte, sulla musica, conformandosi all’idea che la cultura è solo «un’arma nell’arsenale della lotta della classe lavoratrice». Il ’37 è l’anno in cui Dmitrij Šostakovic con la Quinta Sinfonia cercò di riconciliarsi con le autorità del regime attraverso affermazioni di totale sottomissione («il nostro dovere è il giubilare»). Due anni prima, Stalin era uscito disgustato da Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk rappresentato al Bolshoi, e la «Pravda» partì all’attacco del «formalismo» con un titolo che suonava come una condanna senza appello: «Caos invece che musica». Il «formalismo» era un delitto, la pena il Gulag.
Ecco perché l’arte «libera» di Picasso acquistò una valenza ideologica così spiccata contro i due colossi totalitari nemici dell’arte decadente o degenerata, che si sfidavano con le stesse armi dai rispettivi padiglioni (quello italiano fu invece progettato da Marcello Piacentini, l’architetto più in linea con il fascismo). Uno scontro che calamitò tutte le tensioni, i fanatismi che di lì a poco si scateneranno nella Seconda guerra mondiale. In quell’orribile monumento all’antisemitismo rappresentato da Bagattelle per un massacro , Céline rovesciò sull’Esposizione parigina del ’37 tutto il suo virulento odio per gli ebrei: «La grande giuderia 1937. Tutti quelli che espongono sono ebrei. Tutto quello che comanda, che dirige, che ordina, architetti, grandi ingegneri, direttori, incaricati, tutti ebrei, o mezzi ebrei, o peggio andare massoni. Occorre che la Francia intera venga ad ammirare il genio ebraico. Occorre che la Francia intera si eserciti a morire per gli ebrei». Un condensato di paranoia antisemita che però racconta di come le passioni politiche si fossero scatenate all’ombra della Tour Eiffel, dei due padiglioni totalitari e dell’arte di Picasso.
Certo, c’era la «tecnica» (il padiglione francese esibiva un magnifico aereo che mimava il volo). Ma il tono era di una grande e feroce battaglia politica sull’arte. Picasso contro l’arte totalitaria, in primo luogo. Ma soprattutto un’esibizione di forza. La prova generale per quello che sarebbe accaduto di lì a pochi anni: quando i colossi architettonici diventeranno giganteschi carri armati. 

Nessun commento: