domenica 8 marzo 2015
Castellina femminista differenzialista lottava contro gli euromissili assieme ai "dissidenti dell'Est". Ma dove dovevamo andare con gente così?
«Negli anni Settanta emancipazione voleva dire uguali diritti. Ma non siamo neutri: le differenze vanno valorizzate»
intervista di Eliana Di Caro Il Sole Domenica 8.3.15
Poche case parlano come quella di Luciana Castellina. Attraversarne il
lungo corridoio è come infilarsi nel Novecento e percorrerlo dal suo
punto di vista. Accanto a libri, enciclopedie, anche in edizioni rare,
raccolte (soprattutto di arte, di cui è grande appassionata), si
susseguono foto, riproduzioni di manifesti, gigantografie di cortei,
comizi, immagini che la ritraggono con capi di Stato, compagni, nel
senso sentimentale e in quello politico del termine. C’è l’area cinema,
l’altro suo grande amore, e quella della tribù – visto «che “famiglia” è
un termine riduttivo» per la combriccola allargata e unita.
«Naturalmente c’è Rossana (Rossanda, ndr), che è come una sorella».
Una lunga storia, con i punti di riferimento (Gramsci, Marx, Lenin sulla
parete rossa della stanza in cui si raccoglie a scrivere) e le
battaglie di una vita. «Quella dell’emancipazione femminile l’abbiamo
combattuta per tutti gli anni Settanta in un modo che oggi ritengo
sbagliato. Cercando cioè l’uguaglianza, e quindi sopprimendo la
diversità femminile. La mia generazione ha passato anni a nascondere di
essere donna, a mascherarsi, letteralmente. Il problema non è solo avere
dei diritti ma avere un’identità. E questo è il punto che si pone oggi,
che cosa si celebra l’8 marzo: vogliamo uguali diritti ma l’espressione
è ambigua, perché tra uomini e donne, malati e sani, giovani e vecchi
ci sono enormi differenze e la nostra democrazia deve tutelarle, e non
far finta che non esistano. Lo si è capito negli anni Ottanta, quando
c’è stata una valorizzazione della femminilità e si è riconosciuto che
la diversità non era un segno di debolezza». Non è un discorso semplice
da accettare, proprio ora che sembra stia nascendo una nuova
consapevolezza delle possibilità di affermazione delle donne nel mondo
del lavoro, dove le differenze restano ma sempre a loro svantaggio. «Le
donne fanno i magistrati, i medici, escono la sera, fanno l’amore quanto
gli pare, ma non si è vinta la sfida della modifica della società.
L’organizzazione sociale e il modello di essere umano non è neutro, c’è
l’uomo e c’è la donna: e invece la donna si è sempre più virilizzata.
Quanti sono gli uomini manager? Circa il 90 per cento. E tra le donne
quante diventano manager? Il 30. Perché l’idea del lavoro è tutta
calcata sul modello maschile: e invece la condizione non deve essere
paritaria, come l’organizzazione che deve tener conto delle differenze
di genere. Ma è un passo in avanti che possono compiere solo le donne.
Del resto, se penso a ciò che abbiamo ottenuto in Italia, alla battaglia
dell’Udi e della Cgil nel 1950, con la legge Teresa Noci sulla
maternità (diritto di stare a casa 5 mesi, periodi di riposo per
l’allattamento), beh l’abbiamo fatta noi: era la legge più avanzata
d’Europa», conclude con foga.
Eppure, a quei tempi, anche a sinistra non c’era un’atmosfera di grande
apertura verso le donne e le tematiche femminili. «Il Partito comunista
era una forza tradizionale, c’era una massiccia presenza contadina con
un forte conservatorismo al suo interno. Ricordo la spaccatura negli
anni Sessanta con i Radicali sul divorzio, a cui il Pci era contrario:
ma Pannella e gli altri non capivano che per le donne borghesi era un
conto, per quelle delle altre classi sociali era un altro, il divorzio
non era economicamente sostenibile, andava prima cambiato il diritto di
famiglia».
Certamente l’ambiente del «Manifesto» lo si immagina più paritario ed
egualitario, dal punto di vista delle relazioni e del rispetto delle
posizioni espresse da una collega. «Al “Manifesto” erano tutti più
giovani, l’approccio era diverso, le donne contavano di più, erano più
ascoltate, benché anche lì Lotta Continua – per esempio – pensava che
temi femministi o ecologisti distraessero dalla lotta di classe, fossero
un tradimento delle questioni più serie». Un linguaggio che suona
obsoleto e quasi strappa un sorriso, se non fosse che siamo costretti a
ricorrere a espressioni come “quote rosa”, nel 2015. «Le quote
andrebbero bene se fosse applicata l’indicazione della Cina
Rivoluzionaria: il codice che favorisce le donne per compensare secoli
di oppressione e che, quindi, garantisce una quota maggioritaria. Ma
altrimenti sono offensive. Hanno comunque un valore simbolico, aiutano a
pensare che le donne non sono handicappate. D’altro canto trasmettono
un’idea sbagliata perché sono assimilate a una struttura politica
propria dell’essere umano maschio».
Nella fase che stiamo vivendo, Luciana Castellina deve sentirsi sola, o
comunque trovare difficile riconoscersi in una delle forze politiche del
nostro Paese. «No, non mi sento sola, l’Italia ha una società dinamica
con molteplici iniziative e associazioni. Sono la presidente onoraria di
una cosa che si chiama Arci, organizzazione laica meravigliosa. Certo,
viviamo una crisi profonda della democrazia, del modello di democrazia
garantito dai grandi partiti di massa. Vince Facebook, con un “mi piace”
o un “non mi piace”, possibilmente in inglese. La democrazia è uno
spazio deliberativo, ma non interessa più ai giovani. La sfida è
cominciare a ricostruirla, rendendo il cittadino deliberante e non solo
giudicante alla stregua del poliziotto che accusa “quello è un ladro”».
Quando le si chiede qual è stata la battaglia della sua vita, questa
elegante signora di 85 anni riesce ancora a sorprendere: «Quella
pacifista della crisi dei missili negli anni Ottanta. Una mobilitazione
contro la loro installazione da parte dei Paesi della Nato e del Patto
di Varsavia che davvero fu europea, perché noi protestammo a Comiso, ma
si attivarono i tedeschi nelle loro basi,così i belgi e gli altri.
Eravamo in contatto con i dissidenti dell’Est... Ne ho un ricordo forte,
di una grande lezione della società civile d’Europa».
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