domenica 1 marzo 2015

Identità e conflitti in Italia secondo Mario Isnenghi

Risultati immagini per Isnenghi: Ritorni di FiammaMario Isnenghi: Ritorni di Fiamma. Storie italiane, Feltrinelli

Risvolto

Da Mazzini a Mussolini, da Garibaldi a D’Annunzio, dai partigiani della Resistenza rossa e dell’“occasione perduta” ai neofascisti e ai brigatisti, i ritorni di fiamma sono una cifra di lungo periodo della storia d’Italia. Nel fare l’Italia e nella dialettica tra Stato e Nazione, a ogni svolta epocale – dall’Italia liberale a quella fascista, a quella repubblicana – si sono riproposti fronti alternativi inconciliabili, con i corrispondenti miti e politiche della memoria. Dall’eterna contrapposizione tra guelfi e ghibellini a quella tra repubblicani e monarchici, neutralisti e interventisti, fascisti e antifascisti, terroristi e vittime del terrorismo. Si fa l’Unità, ma Garibaldi è un vincitore-vinto; si vince la Grande guerra, ma è una “vittoria mutilata”; il fascismo prende il potere, ma tradisce la rivoluzione; la repubblica nasce dalla Resistenza, ma al governo va la Democrazia cristiana. 
La nostra storia è piena di svolte deludenti per tanti, alcuni dei quali reagiscono spezzando la propria vita in due, un prima e un poi, e saranno gli “ex”; altri rivolgendo invece lo sguardo indietro, in una lunga serie di ritorni di fiamma. Le rispettive identificazioni hanno dato luogo a narrazioni individuali e racconti collettivi, in forma principalmente di finzione teatrale e memorialistica, con una rilettura a posteriori della propria rotta esistenziale. Le soggettività che si negano al fluire del tempo – intrecci di nati troppo tardi/nati troppo presto – hanno messo in scena così le loro recite, sul palco e nella vita, reinterpretando sé e la propria storia in un contesto però mutato. Sono state le riproposizioni di conflitti non sanati a favorire in molti la restaurazione di un’identità ormai appartenente al passato, quella di un’altra generazione o della propria giovinezza, rispolverando il “come eravamo”, che sottende un “come saremmo potuti diventare” se le cose fossero andate in un altro modo. È la testimonianza, fra il tragico e il farsesco, di itinerari, individuali e collettivi, inceppati, ma anche un passaggio di testimone identitario, che non si risolve, tra generazioni.



Mario Isnenghi e la messa in scena del “noi” 
Prima guerra mondiale. Un'intervista con lo storico Mario Isnenghi in occasione dell'uscita del volume "Ritorni di Fiamma. Storie italiane" per Feltrinelli. Una carrellata sulle icone che hanno accompagnato le vicende del nostro paese negli ultimi 150 anni 

Ernesto Milanesi, il Manifesto 26.2.2015 

Il fuoco della sto­ria sotto la cenere della nostra iden­tità. A furia di memo­riz­zare luo­ghi comuni e cli­ché, l’Italia degli ultimi due secoli si appiat­ti­sce nella linea­rità che bana­lizza tutto a bene­fi­cio della reto­rica d’attualità o della cele­bra­zione propagandistica. 

Un ottimo anti­doto si dimo­stra Ritorni di fiamma. Sto­rie ita­liane (Fel­tri­nelli, pp. 528, euro 28) con cui Mario Isnen­ghi dipana la dia­let­tica fra Stato e Nazione, miti e fatti, poteri e piazze, litur­gia ed ere­sia. Già pro­fes­sore di Sto­ria del gior­na­li­smo a Padova e diret­tore del Dipar­ti­mento di studi sto­rici a Ca’ Foscari, con­ti­nua a imba­stire le memo­rie alter­na­tive come pre­si­dente dello Isti­tuto vene­ziano per la sto­ria della Resi­stenza e della società con­tem­po­ra­nea
«Lo spunto più signi­fi­ca­tivo è che den­tro lo spac­cato sociale stanno stra­ti­fi­ca­zioni oriz­zon­tali e ver­ti­cali, con­tem­po­ra­nea­mente: l’Italia come somma di vite per­so­nali che si muo­vono all’interno della vita col­let­tiva, donne e uomini che, in una qual­che forma e con velo­cità anche pro­fon­da­mente diverse, met­tono in moto un sog­getto col­let­tivo. Nella sto­ria del Nove­cento a molte per­sone è capi­tato di nascere libe­rale, vivere fasci­sta e risve­gliarsi anti­fa­sci­sta o post-fascista» sin­te­tizza Isnen­ghi che non si lascia incan­tare dagli schemi ras­si­cu­ranti, nem­meno quando si misura con gli «anni di piombo». 

Per­ché l’immagine dei ritorni di fiamma? 

È come una sorta di «ripasso gene­rale» dei 150 anni di sto­ria dell’Italia unita e insieme dei miei libri pre­ce­denti, ripen­sati a distanza. Una fiamma bru­cia se sa pro­muo­vere nuovi incendi. E l’Italia nasce pro­prio come un ritorno di fiamma: il Risor­gi­mento è fon­dato sull’idea dell’identità del pas­sato che può ardere di nuovo. Così pure essere «ex» si rivela ele­mento costi­tu­tivo della nostra sto­ria. Fra Otto­cento e Nove­cento, que­sto «ex» fiam­meg­gia una o più volte. Il punto diventa come ogni «io» e il «noi» rie­la­bo­rano le dina­mi­che trasformative. 

Fin dai pri­mis­simi moti risor­gi­men­tali con il Carro di Tespi — i tea­tri nomadi (n.d.r.) — che diventa addi­rit­tura cru­ciale? Cosa fa del tea­tro la mic­cia della rivolta? 

Ho dedi­cato 200 pagine del libro per libe­rare la parola dal «nega­tivo» e svi­lup­parne invece l’arte comu­ni­ca­tiva. Melo­dramma, opera, lirica appar­ten­gono al Dna ita­liano, ma fin dal 1848 c’è il «tea­tro di strada» con chi agi­sce sulla scena pub­blica come in piazza San Marco a Vene­zia o nella rivolta degli stu­denti l’8 feb­braio a Padova. Le com­pa­gnie gira­vano all’epoca i sette Stati dell’Italia dotati di altret­tante forme di cen­sura e gli attori erano la dimo­stra­zione vivente che si poteva cam­biare: reci­tare la parte del cit­ta­dino e non più del sud­dito. Certo, c’è il grande coro dell’opera non solo ver­diana che dà voce sul pal­co­sce­nico al per­so­nag­gio col­let­tivo che incarna gli ideali risor­gi­men­tali, nono­stante siano rap­pre­sen­tati altrove e in altri con­te­sti. Ma c’è Gustavo Modena grande inter­prete e insieme maz­zi­niano con­vinto. E tanti altri attori, attrici, can­tanti erano coin­volti nella tra­sfor­ma­zione della scena pub­blica: inco­rag­gia­vano, sul pal­co­sce­nico e fuori, ad essere «attori» della rivo­lu­zione risorgimentale. 

Tut­ta­via, la dop­piezza e il gat­to­par­di­smo sono sem­pre la più mar­cata carat­te­ri­stica di un Paese legato al Vaticano? 

L’Italia nasce senza e con­tro la Chiesa cat­to­lica. Eppure di que­sta «dop­pia cit­ta­di­nanza» nes­suna delle due è mai pura e com­pleta. Alla fine della sol­le­va­zione con­tro il Papa-Re, si regi­stra il para­dosso del primo sovrano d’Italia che si chiama… secondo. Per di più, Vit­to­rio Ema­nuele è re d’Italia legit­ti­mato dalla dop­pia for­mula: gra­zia e volontà, reli­gione e nazione. Già negli anni Ottanta si deve ricor­rere alla cele­bra­zione della lai­cità risor­gi­men­tale con le sta­tue dei «frati» Paolo Sarpi e Gior­dano Bruno. Infine, non va dimen­ti­cato che dopo Raf­faele Cadorna sulla brec­cia di Porta Pia arriva il figlio Luigi, gene­rale capo di stato mag­giore nella prima guerra mon­diale. Isti­tuirà i cap­pel­lani mili­tari, alla fine più di 2.000, sia pure affian­cati da un drap­pello di pastori pro­te­stanti e rabbini. 

Altre icone da ristudiare? 

Maz­zini morì a Pisa nel 1872 con i docu­menti inte­stati a mister Brown, per­ché comun­que pre­senza imba­raz­zante nella «sua» Ita­lia. Anche Gari­baldi fu con­dan­nato a morte dai Savoia e nel 1862 sull’Aspromonte gli spa­rano. E sarà a fianco della Comune di Parigi, anche se aveva difeso la Repub­blica Romana dall’esercito fran­cese. Come ho argo­men­tato altrove, l’eroe dei due mondi è un vincitore-vinto e insieme un vinto-vincitore: defrau­dato poli­ti­ca­mente e riscat­tato come sim­bolo. In Ita­lia, si tratta di una «fiam­mata» che ritor­nerà nel Nove­cento: con la Grande Guerra, la «vit­to­ria muti­lata»; con il fasci­smo di regime che tra­di­sce la rivo­lu­zione; con la Repub­blica nata dalla Resi­stenza ma gover­nata dalla Dc. 

Il Veneto è in prima linea nelle cele­bra­zioni della Grande Guerra. E nella riven­di­ca­zione dell’eredità serenissima… 

Annoto, in que­sto periodo pre­let­to­rale, un con­ti­nuo rilan­cio dell’identità veneta fran­ca­mente anche dalle ango­la­ture più inat­tese. Sem­pre più di fre­quente fa parte del pre­sente stru­men­ta­liz­zare il pas­sato: si vedono di con­ti­nuo agi­tate le ban­diere di San Marco. Mi pare però che que­sti poveri leghi­sti sup­pon­gano che la Sere­nis­sima sia stata quel che si rac­con­tano tra loro. In realtà, il rap­porto fra Vene­zia e la ter­ra­ferma fu tutt’altro che idil­liaco. Forse, ci pigliano di più i vene­ti­sti che rispol­ve­rano l’idea di impero, e non di nazione, della Sere­nis­sima. È dav­vero que­sto il sogno che si vor­rebbe di nuovo? 

Da sto­rico, come valuta la ten­denza a decli­nare in fic­tion i capi­toli più recenti come accade adesso con Tan­gen­to­poli in ver­sione tv? 

Dal mio punto di vista, al mas­simo ho sospinto la scrit­tura fino agli anni ’70-’80 per­ché il lavoro dello sto­rico neces­sita di archivi con­so­li­dati. Spesso però la let­te­ra­tura arriva prima della sto­rio­gra­fia ad intuire i feno­meni. Se lo sto­rico ha biso­gno che si liberi l’accesso ai docu­menti, lo scrit­tore è auto­riz­zato a pro­ce­dere appunto con la sua per­so­nale intui­zione. Comisso era un mezzo anal­fa­beta com­mi­su­rato ad altri intel­let­tuali delle rivi­ste, ma gra­zie alla sua sen­si­bi­lità capì subito il signi­fi­cato di Capo­retto come «vacanza». Dun­que, nulla in con­tra­rio al met­tere in romanzo la vita col­let­tiva. Tanto più quando certi spac­cati economico-sociali ben si pre­stano, come nel caso dell’Italia del 1992.

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