domenica 1 marzo 2015

Il Dizionario storico della Prima guerra mondiale e altri libri

Dizionario storico della Prima guerra mondiale
Nicola Labanca: Dizio­na­rio sto­rico della Prima guerra mon­diale, Laterza, pp. 498, euro 28

Risvolto
La partecipazione alla Grande guerra trasformò radicalmente l’Italia, come e più che tutta l’Europa. Nacque allora il Paese che conosciamo.
Le voci del Dizionario parlano di combattenti, di armi e di battaglie. Di mobilitazione, di lavoro, di donne. Di propaganda e di politica, di governi e di opposizioni. Ma non solo: parlano di religione, di arte e di letteratura perché un senso bisognava trovarlo alla guerra totale.
Testi di Andrea Baravelli, Elena Papadia, Filippo Cappellano, Marco Mondini, Daniele Ceschin, Fabio Degli Esposti, Paolo Pozzato, Fabio Caffarena, Fabio De Ninno, Irene Guerrini e Marco Pluviano, Luca Gorgolini, Hubert Heyriès, Mariano Gabriele, Pierluigi Scolè, Piero Di Girolamo, Andrea Scartabellati e Felicita Ratti, Beatrice Pisa, Maria Concetta Dentoni, Bruna Bianchi, Roberto Bianchi, Matteo Ermacora, Stefania Bartoloni, Antonio Gibelli, Carlo Stiaccini, Mauro Forno, Maria Paiano, Renate Lunzer, Monica Cioli, Fabio Todero, Alessandro Faccioli, Oliver Janz, Nicola Labanca.

La guerra grande
Anto­nio Gibelli: La Grande guerra. Sto­rie di gente comune, 1914–1919, Laterza, pp. 328, euro 20

Risvolto
Uomini che furono chiamati a far parte della grande macchina della guerra e ne conobbero la dimensione smisurata e ineluttabile. Che vissero in prima persona la ritirata di Caporetto, che patirono la fame nei campi di prigionia, che tornarono a casa talvolta menomati per sempre. Donne che si assunsero il carico del lavoro e della crescita dei bambini, che attesero i mariti, i padri, i fratelli, i figli, che soccorsero i soldati con la loro forza morale o si presero cura dei loro corpi come infermiere volontarie. Questo libro ricostruisce la storia della prima guerra mondiale attraverso le storie di persone comuni che ne furono coinvolte e travolte. Per far riemergere la trama vissuta e sofferta della guerra si affida al fiume carsico delle scritture inedite, fragili e spesso incerte, prodotte dai protagonisti a volte nel fondo di una trincea o nella baracca di un campo di concentramento, nel corso del conflitto ma anche dopo. Le lettere inviate a casa dal fronte e dalla prigionia e viceversa, i taccuini, i diari, le memorie scritte a distanza di tempo, gli album con le dediche dei malati alle infermiere danno un volto, un nome e un cognome, una storia alle speranze e alla disperazione di chi uscì vivo dal conflitto e di chi ne fu inghiottito.
Milioni di esseri umani presi da un unico vortice, legati da un unico evento inesorabile, la prima guerra mondiale. Tutti raccontano e tutti avrebbero ricordato. Un reticolo di parole si alza dalla guerra

e ricopre l’Europa facendo echeggiare sulla distruzione e sulla morte le note del linguaggio umano.



Storie globali del Novecento italiano 
La grande guerra. I limiti del «nazionalismo metodologico» nella ricerca storiografica. Due volumi sul primo conflitto mondiale evidenziano le sue conseguenze nella elaborazione di una «identità europea»

Claudio Vercelli, 26.2.2015 

C’è un aspetto che emerge, tra i molti, nella grande costel­la­zioni di ele­menti che con­no­tano la prima guerra mon­diale ed è la sua dimen­sione di scala. Non è solo un fatto quan­ti­ta­tivo ma anche qua­li­ta­tivo. Anzi, chiama in causa, quanto meno se si vogliono coglierne gli effetti di lungo periodo, soprat­tutto il secondo fat­tore. La qua­lità, in que­sto caso, rin­via alla natura dei pro­cessi di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del ricorso alla forza di massa, quella che con­notò cin­que anni di dis­san­guanti com­bat­ti­menti ma anche un lungo periodo suc­ces­sivo, quando il tempo della pre­va­ri­ca­zione per­durò, tra­ci­mando negli anni suc­ces­sivi e disin­te­grando una parte impor­tante dei dispo­si­tivi di media­zione poli­tica che le società libe­rali ave­vano edi­fi­cato dal secondo Otto­cento in poi.
Più in gene­rale, ciò che mutò fu la gerar­chia dei ruoli sociali e delle prio­rità poli­ti­che, por­tando al risul­tato di una «Glo­bal War» che, come tale, non si con­clu­deva sui campi di bat­ta­glia, quando l’ultimo colpo di fucile o di ati­glie­ria era stato spa­rato. Fatto che implica la com­pren­sione di quella che per gli ita­liani è stata intesa come la Grande guerra soprat­tutto in quanto oggetto di stu­dio trans­na­zio­nale. Sem­pre meno potremo quindi rac­con­tarci quella fen­di­tura da un punto di vista nostrano, dovendo pro­ce­dere piut­to­sto sul piano della let­tura intrec­ciata con le nar­ra­zioni sto­rio­gra­fi­che e con i depo­siti memo­ria­li­sti che ci deri­vano dagli altri Paesi chia­mati in causa. 

I quat­tro ver­santi della ricerca 
Evi­tiamo, dun­que, di reci­tare una obbli­gata gia­cu­la­to­ria sui «ritardi» o sulle «omis­sioni», poi­ché molta strada è stata invece fatta dalla ricerca, riu­scendo, almeno par­zial­mente, a coniu­gare i quat­tri ver­santi prio­ri­tari del lavoro sto­rio­gra­fico: la sto­ria diplomatico-militare, quella poli­tica, la sto­ria sociale ed infine quella cul­tu­rale. Il come riu­sci­remo ad ali­men­tare un mec­ca­ni­smo ad inca­stro, che tenga insieme que­ste diverse decli­na­zioni, ci dirà della capa­cità di com­pren­dere il feno­meno bel­lico, e i suoi cascami poli­tici di lungo periodo nella costi­tu­zione dell’identità euro­pea con­tem­po­ra­nea. Soprat­tutto se rap­por­tata alle ten­ta­zioni, adesso revi­vi­scenti, di dare fiato ad anta­go­ni­smi par­ti­co­la­ri­sti dinanzi alla crisi delle sovra­nità nazionali. 
Tor­niamo tut­ta­via all’oggetto di ana­lisi, la Prima guerra mon­diale. Avvia­tasi come un con­flitto tra­di­zio­nale, ovvero loca­liz­zato in una regione pre­cisa, legato per­lo­più a logi­che pre­da­to­rie e spar­ti­to­rie pre­ve­di­bili nei loro moventi così come nei risul­tati che da esse sareb­bero dovuti deri­vare, desti­nato quindi a svol­gersi secondo indi­rizzi ope­ra­tivi rite­nuti certi, ben pre­sto, invece, sfuggì di mano ai pro­ta­go­ni­sti. Fu la cer­chia stessa dei par­te­ci­panti ad assu­mere una dimen­sione che, per l’epoca, non si era ancora vista. Poi­ché ad essere chia­mate in causa erano nazioni che da tempo costi­tui­vano (o ambi­vano ancora a costi­tuire) imperi colo­niali, fatto che diede da subito una cor­nice sovra-europea al con­fronto mili­tare. Ma quelle stesse entità impe­riali, chia­mando a rac­colta le popo­la­zioni subal­terne, varia­mente uti­liz­zate come com­bat­tenti o nello sforzo bel­lico che si com­piva nelle retro­vie, inne­sca­rono pro­cessi dai quali ne sareb­bero uscite sec­ca­mente ridimensionate. 
L’evoluzione del con­flitto, infatti, si misurò non solo sui tea­tri di com­bat­ti­mento ma anche e soprat­tutto nelle infi­nite retro­vie, che si esten­de­vano per oriz­zonti spa­zial­mente infi­niti e social­mente inde­fi­niti. Fu guerra mon­diale anche per que­sto, chia­mando in causa, nella spa­smo­dica mobi­li­ta­zione di donne, uomini e risorse d’ogni genere quanti, altri­menti, ne sareb­bero rima­sti fuori o almeno un passo indie­tro. E se ciò che pre­cede il con­flitto inne­sca­tosi nel 1914 è anche e soprat­tutto sto­ria del colo­nia­li­smo che si fa impresa impe­ria­li­sta, quel che ne segue, non nel 1918 ma a par­tire già dal 1917, con la frat­tura rivo­lu­zio­na­ria russa, è un rivol­gi­mento di quel pro­cesso di «nazio­na­liz­za­zione delle masse» che sfugge al con­trollo delle classi diri­genti libe­rali, tra­sfor­man­dosi in qual­cosa d’altro.
Non è un caso, quindi, se il novem­bre del 1918 non san­ci­sca la con­clu­sione defi­ni­tiva del con­flitto armato, tra­du­cen­dosi sem­mai in una plu­ra­lità di guerre civili, in un feno­meno di pro­li­fe­ra­zione e dis­se­mi­na­zione di esse nelle terre di con­fine, così come nelle aree con­tese, che avreb­bero attra­ver­sato con fero­cia soprat­tutto l’Europa orien­tale fino alla prima metà del decen­nio suc­ces­sivo. Que­ste ultime avreb­bero inol­tre segnato il destino non solo delle popo­la­zioni che ne ven­nero coin­volte ma, in imme­diato riflesso, di quanti ne furono anche solo spet­ta­tori, rein­tro­du­cendo, dopo le vicende del 1848 e, soprat­tutto, i fatti della Comune di Parigi, il nesso tra guerra voluta e con­dotta dai mili­tari e sol­le­va­zione spon­ta­nea dei civili. 

Gli equi­li­bri infranti
La nostra moder­nità si rein­venta in quello spa­zio e in quel tempo, così come si invera il comu­ni­smo, non come par­tito (e dot­trina) del con­fronto armato per­ma­nente ma in quanto sog­getto della tra­sfor­ma­zione repen­tina, rom­pendo que­gli argini del par­la­men­ta­ri­smo den­tro i quali, invece, le forze socia­li­ste si erano pro­gres­si­va­mente incu­neate, fino a rima­nerne del tutto impri­gio­nate. La nozione di vio­lenza assume in tale fran­gente un signi­fi­cato com­ple­ta­mente dif­fe­rente da quello ante­ce­den­te­mente attri­bui­tole, e il lungo dopo­guerra, di cui i fasci­smi capi­ta­liz­ze­ranno gli inte­ressi, rac­co­glie que­sto muta­mento antro­po­lo­gico, per con­durre, passo dopo passo, il con­ti­nente euro­peo verso un’altra cata­strofe, vent’anni dopo. 
Que­sto ed altro ancora viene in mente leg­gendo due volumi recenti, usciti in occa­sione del fiacco e scialbo cen­te­na­rio, pal­li­da­mente cele­bra­tivo, del nostro inter­vento nella Prima guerra mon­diale. Stiamo par­lando di un libro a più voci, diretto da Nicola Labanca, il Dizio­na­rio sto­rico della Prima guerra mon­diale (Laterza, pp. 498, euro 28), che si avvale di una qua­ran­tina di col­la­bo­ra­zioni, non­ché del testo di Anto­nio Gibelli, La Grande guerra. Sto­rie di gente comune, 1914–1919 (Laterza, pp. 328, euro 20). Due opere diverse ma per più aspetti inter­se­cate, ancor­ché inconsapevolmente. 

Nel dive­nire degli eventi 
La prima ci offre un det­ta­glio sele­zio­nato dello stato di evo­lu­zione della sto­rio­gra­fia, a par­tire da quella ita­liana. Un con­gruo numero di voci, curate da pro­fes­sio­ni­sti del set­tore, copre le prin­ci­pali aree tema­ti­che che riman­dano al con­flitto. La seconda, invece, rac­co­glie e rie­la­bora la guerra per come venne vis­suta e rac­con­tata da chi fu costretto a com­bat­terla, oppure ad assi­stere ad essa, gli uni e gli altri acco­mu­nati da una con­di­zione di cre­scente espro­pria­zione del signi­fi­cato degli eventi e, in imme­diato riflesso, della loro ricon­du­ci­bi­lità ad una razio­na­lità quo­ti­diana che non fosse quella della sem­plice logica di soprav­vi­venza. Se Labanca dà voce all’analisi a distanza, medi­tata, ossia affi­data ad una nuova gene­ra­zione di stu­diosi, Gibelli la offre ad alcuni dei pro­ta­go­ni­sti del men­tre, attra­verso una let­tura incro­ciata (e cri­tica) delle testi­mo­nianze scritte dei com­bat­tenti di allora. 
Nell’uno e nell’altro caso emerge comun­que la con­sa­pe­vo­lezza, matu­rata in milioni di indi­vi­dui, di essere improv­vi­sa­mente legati tra di loro, ancor­ché divisi in fronti oppo­sti. Il con­flitto si pre­senta come una immensa rete, senza fine o con­clu­sione pos­si­bile (e pre­sto anche senza un fine razio­nale), dove l’esistenza indi­vi­duale, e lo stesso signi­fi­cato della vita, ven­gono schiac­ciati all’interno di una inte­la­ia­tura che si regge da sé, in un con­flitto dove l’unica cer­tezza acqui­sita è la per­ce­zione del movi­mento iner­ziale degli eventi. Spae­sa­mento, spiaz­za­mento, disin­canto (per coloro che ave­vano voluto invece cre­dere nella guerra come oppor­tu­nità per acce­le­rare i tempi di un qual­che cam­bia­mento) sono quindi moneta comune nelle cose allora scritte e dette a viva voce, negli infi­niti col­lo­qui in trin­cea così come ovun­que vi fosse l’eco imme­diata delle armi. La que­stione della dimen­sione epo­cale del con­fronto armato si intrec­cia quindi con il supe­ra­mento della sepa­ra­zione tra la sfera mili­tare e quella civile, attuata con il regime delle mobi­li­ta­zioni di massa, che coin­vol­sero non solo quanti furono inviati a com­bat­tere in immensi car­nai ma anche quelle comu­nità nazio­nali, che rima­sero intrap­po­late den­tro il gigan­te­sco cir­cuito del «fronte interno». 

Carne della civi­liz­za­zione tecnica 
Dai due libri escono quindi ritratti a tinte forti, molto curati sul piano delle fonti e della loro let­tura cri­tica. Soprat­tutto, le sto­rie infi­nite che ci ven­gono così resti­tuite ren­dono omag­gio non solo di un’umanità che resi­ste con le poche risorse che ha con­cre­ta­mente a dispo­si­zione, ma anche della prima, gigan­te­sca prova alla quale que­gli stessi uomini e quelle mede­sime donne furono sot­to­po­sti, la per­ce­zione che la civiltà indu­striale con­tem­plava non solo lo sfrut­ta­mento attra­verso il lavoro ma la scar­ni­fi­ca­zione sui campi di bat­ta­glia. Un’immensa offi­cina della civi­liz­za­zione tec­nica, come già Anto­nio Gibelli aveva avuto modo di rile­vare in un’altra sua impor­tante opera, dove la morte è una pre­senza costante, tanto sel­vag­gia quanto «razionale».

Ci fu anche un interventismo di sinistra Martedì 10 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Non pare che il trascorso centenario dello scoppio della Grande guerra abbia sortito grandi effetti. Ma il meglio forse deve ancora arrivare, con il prossimo anniversario dell’entrata del nostro Paese nel conflitto. Una lettura come il Dizionario storico della Prima guerra mondiale , curato da Nicola Labanca (Laterza, pagine 498, e 28), potrà quindi tornare utile.
Il volume è infatti congegnato sì come opera di consultazione, ma può, dato il numero limitato delle voci e la loro ampiezza, essere un’ottima introduzione alla Grande guerra, nei suoi diversi aspetti, militari in primo luogo, ma poi politici, sociali, economici e last but not least culturali; un deciso spazio è infatti lasciato alla letteratura, all’arte e al cinema, su cui la guerra incise in modo indelebile.
Un altro merito del curatore sta nell’aver selezionato prevalentemente giovani studiosi, freschi di ricerche spesso assai innovative, che hanno fatto giustizia di tanti luoghi comuni stratificatisi attorno alla narrazione e alla memoria della Grande guerra. Più discutibili sono invece i passaggi dedicati alla storia politica: non convince molto infatti l’insistenza sulla responsabilità dell’entrata in guerra, ascrivibile a una fantomatica «destra liberale». Se di responsabilità si deve parlare (il che peraltro non è scontato) essa va attribuita infatti anche ad altre famiglie politiche, di sinistra in primis : i radicali e i socialisti riformisti di Leonida Bissolati, uno degli attori maggiori sul piano parlamentare e ministeriale.
Né pare condivisibile il giudizio secondo cui il nostro Paese (sempre per via del dominio della «destra liberale»?) avrebbe condotto gli affari interni con mano pesante, senza rispetto delle guarentigie. Anche solo limitandosi ad altri Paesi democratici, la Francia radicale di Clemenceau fu assai più di Roma «dittatoriale» contro i cittadini tiepidi nei confronti dello slancio verso la vittoria. Salandra, Orlando e Sonnino non furono l’anticamera di Mussolini.

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