domenica 22 marzo 2015
Il castello di Maredolce alla Favara
Favara-Maredolce L’ultimo giardino di arabi e normanni
di Carlo Vulpio Corriere La Lettura 22.5.15
Non ci vuole soltanto coraggio, ma anche una convinzione che assomigli a
un sentimento religioso, per affrontare l’impossibile e ciò che
all’occhio umano appare irreversibile. Dalla montagna di Gibilrossa si
vede tutta Palermo e si capisce bene l’irreversibilità di ciò che è
accaduto negli ultimi cinquant’anni e l’impossibilità di riconquistare
quel paradiso perduto che per duemilacinquecento anni è stata la Conca
d’Oro.
Palermo è stata la città italiana più bombardata della Seconda guerra
mondiale, eppure l’ammasso informe di cemento che la sommerge ha
smembrato questa città-giardino del Mediterraneo più dei bombardamenti.
Sfigurata e strozzata come Palermo, c’è solo Napoli. E Atene, che dal
Partenone offre di sé lo stesso volto penoso e deforme di una grande
tomba di calcestruzzo. Millenni di civiltà diverse, ma rispettose di ciò
che avevano trovato prima, e persino capaci di accrescerne il valore e
la bellezza, sono stati bruciati nell’arco di un mezzo secolo breve,
brevissimo, da ruspe furiose e da uomini famelici e indolenti.
La Conca d’Oro di Braudel e di Goethe, dei romani, degli arabi e dei
normanni non c’è più, è ridotta ai seicento ettari della zona di
Ciaculli — nemmeno tanto immacolati — e allo spicchio di venticinque
ettari di agrumeti della Favara-Maredolce, che una volta era un grande
bacino idrico che raccoglieva le acque delle sorgenti del monte Grifone e
fertilizzava le campagne — miniere d’oro di melograni, gelsomini,
anemoni, narcisi, margherite, gigli, palme, aranci, limoni — e che oggi
resiste, Dio solo sa come, all’avanzata del cemento che ha divorato
ormai l’ottanta per cento della fu Conca d’Oro. Un crimine contro
l’umanità, come la distruzione dei giganteschi Buddha di Bamiyan da
parte dei talebani e delle splendide città assire da parte di questi
altri malati di mente dell’Isis. Non fecero questo, gli arabi,
musulmani, quando sbarcarono in Sicilia. Al contrario, realizzarono una
vera «rivoluzione agricola», che, dice Giuseppe Barbera, docente di
Colture arboree nella facoltà di Agraria dell’Università di Palermo,
«fecero tesoro dell’eredità agronomica romana, e prima ancora punica e
greca, aggiungendole all’universo islamico, ricco di culture
scientifiche e tecniche, alimentato dalla scienza cinese e indiana,
dagli antichissimi saperi della Mesopotamia e della Persia,
dall’esperienza africana, dalla sapienza egizia, dalle scuole
agronomiche di el Andalus».
Grazie a questa saggezza, nel primo decennio dell’anno Mille, fu
possibile sbarrare il corso delle acque del monte Grifone e realizzare
il lago artificiale di Favara-Maredolce e costruire l’omonimo castello
che lo ornava, entrambi opera dell’emiro Giafar. E grazie alla stessa
saggezza, i normanni di Ruggero II, il primo re di Sicilia, dopo aver
sconfitto gli arabi e conquistato Palermo, fecero di quel lago e di quel
castello da Mille e una notte il primo nucleo della città-giardino che
diventerà poi Palermo.
Il castello di Favara (fawwara , in arabo, significa sorgente) diventerà
uno dei luoghi di «sollazzo» della corte normanna — crocevia di affari,
piaceri, scienza, arti e di fervida vita intellettuale grazie alla
frequentazione di filosofi e letterati cattolici, ebrei, musulmani —, ma
anche uno dei più importanti monumenti della Palermo arabo-normanna,
non secondo alla più nota Zisa, sebbene, a differenza di questa,
ignorata dall’Itinerario arabo-normanno che tra qualche mese entrerà in
blocco a far parte del patrimonio Unesco.
Lo splendore di Favara-Maredolce durerà fino a quando vivrà Federico II
di Svevia, nipote di Ruggero II e suo degno epigono. Poi, quando gli
aragonesi, nel 1328, donano il castello ai cavalieri teutonici della
Magione, che ne fanno un ospedale, comincia il declino della magnifica
residenza di «sollazzo». Che continuerà inarrestabile fino al XX secolo e
verrà denunciato da Cesare Brandi con un magistrale articolo comparso
sulla terza pagina del «Corriere» il 10 maggio 1962. Con quell’articolo
Brandi si scagliò contro «gli assurdi piani regolatori» che tre anni
dopo avrebbero inaugurato il famigerato «sacco edilizio», mafioso, di
Palermo, invocando una «cura pubblica» che non ci fu, non c’è e chissà
se mai ci sarà. Perché oggi come allora — nonostante il restauro del
castello e un fitto e bellissimo agrumeto che ha preso il posto del lago
— allo scempio e all’aggressione insaziabile del cemento si oppongono,
come scriveva Brandi, sempre e soltanto «pochi privati». Tra costoro, il
gruppo di lavoro, coordinato dall’architetto Lina Bellanca, della
Soprintendenza dei Beni culturali e ambientali di Palermo, al quale
quest’anno la Fondazione Benetton Studi Ricerche ha assegnato il XXVI
premio internazionale «Carlo Scarpa per il giardino». Una scelta
coraggiosa, perché la cura dei luoghi, qui, come la intendeva un grande
paesaggista e filosofo come Rosario Assunto, siciliano di Caltanissetta,
del quale il 28 marzo ricorre il centenario della nascita, ha
grandissime probabilità di risultare vana come la fatica di Sisifo.
Eppure, proprio con la stessa consapevolezza di Sisifo, è una fatica che
va fatta. Per ricostruire, se non i luoghi, almeno la speranza che gli
uomini e ciò che resta del paesaggio — e qui è paesaggio agricolo come
la natura lo ha disegnato — non vengano travolti definitivamente
dall’avanzata delle costruzioni sgarrupate che sono arrivate fin sul
muro del lago artificiale e persino dentro la corte del castello.
Parlare di paesaggio e di cura dei luoghi tra i quartieri di Brancaccio e
Ciaculli, tra la via in cui è stato ammazzato un prete come don Pino
Puglisi e quella in cui nel 1963 esplose la prima autobomba che fece
sette vittime, non è un’occupazione per anime belle che inseguono
un’Arcadia che non c’è. È invece una battaglia di civiltà, così
importante da muovere un sindaco a «licenziare» il suo assessore
all’Ambiente senza un perché, com’è accaduto a Giuseppe Barbera. O
meglio, a causa di tre perché che sono altrettanti progetti ben precisi:
una nuova inutile tangenziale, altri inutili centri commerciali, e
persino un altro cimitero nel verde che resta di Ciaculli.
Parlare di paesaggio e di cura dei luoghi nel disastro urbano di Palermo
— che, è brutto dirlo, ha tutto l’aspetto di qualcosa di irredimibile —
è anche l’estremo tentativo di fermare un sacco edilizio che non si è
mai fermato. Ieri, per paura della mafia. Oggi, con l’alibi della mafia e
la retorica dell’antimafia di professione. Un grande premio come il
«Carlo Scarpa» serve. Ma poi serve anche non morire Gattopardi,
ucciderlo il Gattopardo, per ritrovare l’anima di quella città-giardino
che il geografo al-Idrisi celebrò ne Il libro di Ruggero e di quella
Conca d’Oro che Fernand Braudel definì «paradisiaca».
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