domenica 22 marzo 2015
La mostra di Genova sull'espressionismo tedesco: Rusconi sulle avanguardie
Uno sguardo dal Ponte sulla catastrofe del secolo
A Genova una mostra sull’avanguardia Die Brücke: artisti impolitici che sentirono le tensioni di un mondo sul punto di esplodere
di Gian Enrico Rusconi La Stampa 22.3.15
L’aspetto più affascinante ed enigmatico dell’arte d’avanguardia è il
rapporto controverso con il proprio tempo. Per definizione la cultura e
società dominanti respingono l’avanguardia, salvo poi riconoscere a
posteriori che soltanto essa ha colto in modo penetrante il suo tempo.
Ma ormai è troppo tardi. Nel suo riconoscimento tardivo l’arte
d’avanguardia nel frattempo è diventata innocua e inoffensiva - proprio
il contrario di quello che voleva essere. A chi viene dopo, non rimane
che lo stupore per la sua precoce «intelligenza».
Pre-espressionisti
Il gruppo tedesco Die Brücke è l’avanguardia per eccellenza dell’arte
del 900 tedesco. Nella nostra ottica retrospettiva esso precede,
anticipa, introduce il fenomeno ben più imponente e complesso
dell’espressionismo. Questa è una acquisizione consolidata e documentata
nella storia dell’arte. Ma se si assume un’ottica socio-politica, tra
Die Brücke e l’espressionismo, quale conosciamo, c’è una differenza
cruciale segnata dalla cesura della guerra mondiale. Non è
un’osservazione ovvia. L’espressionismo infatti è anche una reazione,
una risposta alla «catastrofe originaria del XX secolo» (G. F. Kennan). È
troppo facile limitarsi a dire che gli artisti Die Brücke ne abbiano
una sorta di premonizione. La vera sfida interpretativa è spiegare e
mostrare come mai artisti assolutamente impolitici (come del resto era
la gran parte della intellighenzia artistica tedesca prima della guerra
mondiale) sentano le tensioni di un mondo carico di contraddizioni,
prima che esplodano nell’orrore della guerra. E guardino già oltre con
la loro creatività.
Gli artisti Die Brücke sono attivi nella Germania guglielmina tra il
1905 e il 1913, a Dresda e a Berlino, nel cuore della «potenza inquieta»
al centro d’Europa. Al culmine di una modernità dove la tecnica, la
macchina, l’ordine e la disciplina del lavoro moderno vivono in simbiosi
con la mitologia nibelungica e con espressioni pittoriche
classicheggianti o neoromantiche. È la modernità travestita da
wagnerismo e da un classicismo filologicamente puntiglioso. Proprio in
questa Germania la qualità tecnologica di uno sviluppo industriale tra i
più avanzati si materializza nella macchina bellica più moderna
d’Europa. Ne scaturirà nel 1914 il primo conflitto mondiale, che
assumerà la forma di uno scontro intra-occidentale, prima ancora che
mondiale. Non a caso sarà chiamata Kulturkrieg, guerra di culture, dai
professori, dagli intellettuali, dagli artisti tedeschi nella loro
«mobilitazione spirituale» («Le idee del 1914 contro quelle del 1789»,
Ernst Troeltsch) trovando pronta e speculare reazione nei loro omologhi
francesi e inglesi. Ma dietro alle culture che si dichiarano
spiritualmente incompatibili (innanzitutto Germania contro Francia) c’è
la medesima razionalità tecnica, il medesimo metodismo razionale che
crea identiche armi micidiali, perfezionate nella competizione, che
elabora piani di guerra pensati con lo stesso sforzo di razionalità e di
metodicità. Uno scontro di ragioni e di razionalità, che definisce «la
civiltà» contemporanea .
La Grande Guerra materializza questo scontro. A esso partecipano
consapevolmente anche alcune avanguardie: primo fra tutti il futurismo.
Gli artisti Die Brücke invece non ci sono. Sciolto il gruppo, la
biografie individuali battono altre strade. È soltanto attraverso la
successiva prospettiva storica che la loro breve e intensa avventura
acquista nuovo significato e crea un collegamento con il successivo
espressionismo tedesco weimariano.
Kultur e Zivilisation
Ma durante la guerra succede qualcosa di inatteso nelle culture del
continente. Ancora oggi per noi è difficile capire l’intensità e la
qualità della partecipazione degli intellettuali europei alla guerra,
quanto meno nella sua fase iniziale. Per rimanere in Germania, l’esempio
più impressionante è Thomas Mann con le sue Considerazioni di un
impolitico, un testo laborioso e intenso, scritto tra il 1915 e il 1918,
basato sulla contrapposizione di Kultur (tedesca) e Zivilisation
(francese e inglese). Non vuole essere una appassionata testimonianza di
patriottismo ma «un’opera di artista» ( come la chiama) costruita sulla
inconciliabilità «spirituale» tra germanicità e occidentalismo.
In realtà il contrasto tra Kultur e Zivilisation travalica la
contingenza dell’evento bellico, diventa una manifestazione epocale che
mette in gioco elementi in cui si sarebbero potuti identificare anche
alcuni artisti ribelli delle avanguardie. Leggiamo: «Nessuno vorrà
negare che il Messico, al tempo in cui venne scoperto, possedesse una
sua cultura, ma nessuno potrà sostenere che fosse civilizzato.
Evidentemente cultura non è il contrario di barbarie; essa è piuttosto e
abbastanza spesso una primitività stilizzata, e d’altronde,
civilizzati, tra tutti i popoli dell’antichità furono forse solo i
cinesi. Cultura significa invece unità, stile, forma, compostezza, gusto
e una certa organizzazione spirituale del mondo, per quanto esso possa
sembrare selvaggio, sanguinoso, tremendo, avventuroso, volgare. La
cultura può comprendere l’oracolo, la magia, la pederastia, messe nere,
sacrifici umani, culti orgiastici, l’Inquisizione, l’autodafé, il ballo
di san Vito, processi alle streghe, il fiorire di venefici e le più
svariate atrocità. Civilizzazione è invece ragione, illuminismo,
addomesticamento, incivilimento, scetticismo, dissolvimento». Con parole
diverse, queste tesi potevano essere condivise anche dalle avanguardie.
Alla fine in Mann il contrasto tra cultura e civilizzazione culmina in
quello tra «spirito» e «politica», tra anima e società, tra libertà e
diritto di voto, tra arte e letteratura. La germanicità è cultura,
anima, libertà, arte; non civilizzazione, società, diritto di voto,
letteratura che qualificano l’Occidente.
«Speciale essenza tedesca»
Per la verità, all’indomani della sconfitta militare e con la
costituzione della Repubblica di Weimar, Thomas Mann gradualmente si
ricrede e, tra lo sconcerto di molti suoi ammiratori, si riconosce nei
valori repubblicani. Sarà un itinerario lungo e tormentato che, dopo
l’affermazione del nazionalsocialismo in Germania, porterà il romanziere
all’esilio americano e a nuovi convincimenti. «Sorto dalla guerra, il
dissacrato impero tedesco della nazione prussiana non poteva che essere
sempre soltanto un impero di guerra. Come tale è esistito, spina nel
fianco del mondo e come tale è perito».
Con la fine della dittatura nazista sorge anche per la Germania la
speranza che «l’umanesimo sociale» non possa essere «estraneo e
contrario» alla «essenza tedesca». Ma non sorprende che il grande
romanziere non abbia mai rinnegato le sue Considerazioni, che erano
pregne dello spirito della «speciale essenza tedesca». È una battaglia
di ritirata in grande stile, l’ultima e più tarda di uno spirito
borghese tedesco e romantico, combattuta con piena coscienza della sua
vanità e quindi non senza nobiltà.
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