lunedì 2 marzo 2015

Il diario di Antonio Giolitti

Responsive imageAntonio Giolitti: Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945), a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati, Donzelli

Risvolto
«Per costruire la pace, occorre anzitutto rieducare gli uomini – in gran parte abbrutiti dalla guerra – alla responsabilità e alla dignità della condizione umana».
Il 19 settembre 1944 Antonio Giolitti è costretto a sospendere la sua vita di comandante partigiano (intrapresa a Barge il 9 settembre 1943) in seguito alla frattura di una gamba: dopo una serie di traversie viene portato a Aix-les-Bains, dove rimarrà per un periodo più lungo del previsto (per ben due volte i medici devono «riaggiustare» la gamba che non era stata correttamente ricomposta), il che gli impedirà di ritornare a lottare in Italia, come desiderava. Costretto all’immobilità, il primo compito che si assegna è di avviare un diario per tracciare un bilancio della sua vita partigiana. Sono per lui mesi di solitudine, in cui la pagina scritta gli serve per dialogare con la moglie Elena (in Italia con i due figli già nati) e attraverso di lei con se stesso. Il diario è lo specchio di questo dialogo e ci offre il ritratto di un uomo dotato di un fortissimo e personale senso etico: è netto sul piano morale il distacco rispetto alla generazione dei «padri» e forte è la consapevolezza della frattura rappresentata da una guerra necessaria, che è di liberazione, antifascista, e di classe – laddove «classe», nel suo caso di iscritto al Pci, significa soprattutto lottare per costruire una nuova élite dirigente responsabile, in sostituzione di quella che aveva portato il paese alla guerra e al disastro morale. Consapevole di essere parte della nuova classe dirigente, Giolitti non aspira a diventare un politico. A lungo si considererà un intellettuale prestato alla politica. Il diario è anche il ritratto di questo lato della sua personalità e delle sue letture, dall’amatissima Anna Karenina a Dante, da Racine a Camus, da Flaubert ai pensatori francesi. Il filo che tiene unito tutto questo – e che finirà per prevalere – è però la crescente consapevolezza della responsabilità che gli deriva dalla scelta fatta l’8 settembre di tornare sulle «sue» montagne, tra la «sua» gente, e dare avvio alla Resistenza. È in questi mesi, sia quelli dell’azione che quelli dell’immobilità e della riflessione, che nasce il futuro dirigente, con quella tensione morale che in lui, come in altre personalità che vivono la scelta dell’impegno politico come conseguenza della constatazione dei guasti morali del paese provocati dal fascismo e dalla guerra, ancora ci sorprende.



Antonio Giolitti, la Resistenza dal buco della serratura

di Mirella Serri La Stampa 27.2.15

Ritrovato dalla figlia Rosa, esce il Diario partigiano del futuro leader socialista scritto in Francia “con le lagrime agli occhi”, mentre era costretto a letto per un incidente stradale che lo tenne lontano dai mesi cruciali della battaglia

Butta giù di getto queste linee guida del suo successivo operato: «Se lasciamo “agli altri” il compito di fare politica si avrà il fascismo: dato che questi “altri” non domandano di meglio, sono coloro che hanno privilegi da difendere e da moltiplicare e che, grazie a questi stessi privilegi, sono piazzati più vicini alle leve del potere». Quando rientra in Italia non ha più dubbi, non spezza la penna perché continuerà a redigere memorie e saggi, ma decide di entrare in lizza e diventare un politico a tutto campo. Si è convinto che «non bastano le parole ma servono le azioni».
Antonio Giolitti, nato nel 1915 a Roma, dove è morto nel 2010, era nipote dello statista liberale piemontese Giovanni Giolitti. Dopo la giovanile militanza comunista (membro della Costituente e poi deputato), lasciò il Pci nel ’56 in seguito ai fatti d’Ungheria per passare al Psi. Più volte ministro, è stato dal 1977 al 1985 commissario Cee per le Politiche regionali
Il compagno «Petralia» è irruento e generoso. Il «Naviga» è bel tipo ardimentoso e un po’ scapestrato, «Zi’ Peppe» brontola ma è il vero padre del gruppo che in Piemonte sfida i nazifascisti. Sembra di stare in un romanzo di Italo Calvino, ma sono esistiti veramente il muscoloso «Carnera», il «Moretta» uomo-ciclone e il comunista Battistini. Ora li conosciamo e li apprezziamo perché sono entrati a far parte del bel racconto di Antonio Giolitti Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-45), a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati (Donzelli editore, pp. 130, € 18). Di recente la figlia Rosa, frugando tra carte e faldoni, ha trovato tre quadernetti di Giolitti che ne ripercorrono i ricordi di battaglia a partire dall’8 settembre 1943.
È una narrazione epica e favolosa della Resistenza, questa del futuro deputato e ministro. Ma lo scontro con camicie nere e brune viene vissuto come un’avventura «dimezzata», alla maniera del celebre Visconte, per dirla ancora con Calvino.
Nelle Brigate Garibaldi
Il giovane combattente, il 19 settembre 1944, per via di un incidente stradale deve abbandonare l’agone. Grande è lo sconforto e anche il rimpianto per i giorni dello scontro. Infatti ha condiviso solo per un anno con i suoi compagni la vicenda resistenziale. Una parte di questi quaderni - sul modello delle Lettere a Marta. il libro di ricordi e riflessioni dedicati alla nipote, pubblicato da Giolitti nel 1992 - include anche riflessioni di natura politica e esistenziale rivolte all’amatissima moglie Elena D’Amico.
Nato a Roma, il capo dei partigiani piemontesi che diventerà uno dei principali esponenti della politica riformista nel dopoguerra, si sente più sabaudo che capitolino. A Cavour, in provincia di Torino, dove c’è la casa di famiglia, dà vita ai primi nuclei della Brigate Garibaldi. Intellettuale prestato alla politica, collaboratore della casa editrice Einaudi, Giolitti, mentre sta rientrando da una spedizione armata, ha uno scontro frontale con un camion da cui esce vivo ma a pezzi, in senso letterale. Trova ospitalità a Aix-les-Bains, dove è costretto a un soggiorno forzato di molti mesi. Dal suo letto rimpiange i bivacchi all’aria aperta, il piglio scanzonato, l’amicizia e la solidarietà tra i combattenti: «Che nostalgia la bella vita partigiana di un anno fa… tutto mi legava a quella terra, la sola dove avrei lasciato quasi senza rimpianto le mie ossa».
Il bel partigiano
Queste intense annotazioni sono anche il resoconto del percorso culturale del nipote del ministro liberale Giovanni Giolitti, che è diventato comunista cimentandosi con le critiche di Benedetto Croce a Marx. Decisiva nella presa di distanza dal fascismo sarà la frequentazione della casa delle vacanze dei D’Amico a Castiglioncello, in cui si riunisce un raffinato cenacolo di artisti e scrittori e dove incontra la futura moglie. Importante per la maturazione della coscienza anti-mussoliniana è anche il rapporto con l’ebreo e scrittore Paolo Milano, costretto all’esilio, e soprattutto la partecipazione al gruppo dei comunisti romani. Per questo viene arrestato e processato nell’estate del 1941.
Il bel partigiano che sarà uno dei deputati più glamour del Parlamento italiano - così lo descrive anche Guido Morselli nel Comunista - nella stanza della clinica francese in cui si sente separato dal resto del mondo legge Tolstoj e Colette, le opere di Balzac e i saggi di Baudelaire, e elabora le riflessioni che poi saranno il cuore della sua vita politica negli anni successivi. Le infermiere sono «soffici e profumate… piene di premure, cioccolato, sigarette, grog», le cure che riceve sono attente, ma percepisce lo stesso un clima ostile: si accorge che gli italiani, ancorché antifascisti, oltralpe sono malvisti. Sono considerati traditori e doppiogiochisti.
«Non bastano le parole»
Giolitti ragiona così sulle manchevolezze dei connazionali che durante il fascismo si sono abituati al furto, alla truffa e alla corruzione. Annota, per esempio, che quando il regime conoscerà la parola fine bisognerà elaborare iniziative politiche per rinnovare un contesto sociale così inquinato e corrotto. Il militante comunista che nel 1957, dopo l’invasione dell’Ungheria, abbandonerà con gran clamore mediatico il Pci (seguito da Calvino), il ministro del Bilancio negli anni Sessanta e Settanta, il brillante ispiratore della programmazione economica, il commissario Cee a Bruxelles, alla fine di aprile 1945 prova una nuova, prepotente delusione. Ascolta la radio «con le lagrime agli occhi» e, mentre l’Italia chiude la sua partita con Mussolini, i gerarchi e la guerra, si sente uno che deve «assistere ai più entusiasmanti episodi della nostra Liberazione attraverso il buco della serratura».

Nessun commento: