lunedì 2 marzo 2015

La fine del vecchio mondo alla svolta dell'anno Mille

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Glauco Maria Cantarella: Manuale della fine del mondo. Il travaglio dell'Europa medievale, Einaudi 

Risvolto
Che ne è stato dell'anno Mille? È passato, tutto qui. La fine del mondo non solo non c'è stata ma in quei secoli, tra l'XI e il XII, c'è stato un nuovo, propulsivo inizio. È la storia.                   
Per usare un'espressione del grande storico Lucien Febvre, possiamo dire che è una «gigantesca falsa credenza» quella della paura della fine del mondo in prossimità dell'anno Mille. Ma forse era davvero l'avvento della fine. Manuale della fine del mondo si propone di parlare di un susseguirsi impetuoso di accadimenti, e delle visioni che li attraversarono: la lotta fra Papato e Impero, i grandi regni, i Comuni in Italia. Un libro che racconta le vicende di cui gli uomini dei secoli XI e XII furono spettatori, attori e vittime. Un mosaico di eventi decisivi, che aprirono la strada a soluzioni inedite. Glauco Cantarella ci offre un saggio ambizioso e affascinante, per risalire alle lontanissime radici del nostro presente e comprendere la rivoluzionaria portata storica dell'invenzione della «fine dei tempi».

È un grande falso storiografico quello della paura della fine del mondo in prossimità dell'avvento dell'anno Mille. Ma è indubbio che gli uomini di mille anni fa hanno dovuto vivere in mezzo alla fine del loro mondo: cambiamenti incessanti che hanno tarlato quel mondo, con aggiustamenti continui, che hanno inseguito la stabilizzazione ottenendola solo in apparenza. E alla fine hanno fatto esplodere il mondo e sono stati all'origine di mutamenti epocali, di lunghissimo periodo: la lotta fra Impero e Papato, la centralità dell'esperienza monastica, i primi germi dei regni d'Inghilterra e di Spagna, il movimento dei Comuni in Italia. Con l'allargamento progressivo dei confini del vecchio spazio europeo e con l'estensione delle aree di conoscenza, ad esempio l' "invenzione" della filosofia. Nel secolo XII sarebbe ormai molto difficile riconoscere le tracce del mondo di partenza, quello che si proponeva come la forma definitiva del mondo, e in realtà si cercava disperatamente di regolare perché garantisse la pace. Una crisi continua, popolata di soggetti nuovi, per cerniere successive da un passaggio all'altro che ha portato alle origini della modernità. Il tutto entro un'unica, grande cerniera: quella del passaggio dal mondo tardo-antico e primo-medievale a quello tardo-medievale e moderno, in cui i protagonisti cambiano o si moltiplicano. Tra Ottone III (1001) e Innocenzo III (1199) due secoli in cui quel mondo è finito, definitivamente relegato nel passato.
        
Quando il mondo non finì con la temuta catastrofe 
1 mar 2015  Il Sole 24 Ore
Mille e non più Mille. L’anno Mille come la fine dei tempi. In prossimità di questa fatidica data, la paura si sarebbe perciò impadronita dell’umanità, atterrita dalla predizione di un’imminente fine del mondo. Senonché l’assunto secondo cui gli uomini di allora fossero caduti in preda a una sindrome del genere non era stato altro, per dirla con Lucien Febvre, che una «gigantesca falsa credenza», una leggenda storiografica divulgata molti secoli dopo. 

È vero invece che nel corso dell’undicesimo secolo cominciarono a prendere forma e consistenza alcuni orientamenti tali da determinare un progressivo cambiamento di scenario rispetto al passato. E che da allora gli uomini iniziarono pertanto a misurarsi con le implicazioni di segno diverso che di volta in volta ne scaturivano. 
Che il Mille abbia rappresentato una sorta di spartiacque per l’Europa, è quanto avvenne grazie al fatto che non fu più scossa incessantemente da guerre, invasioni, saccheggi e carestie. E che fu quindi possibile, in condizioni di maggiore tranquillità, procedere all’estensione delle terre coltivate, all’introduzione di nuove tecniche agricole e fonti di energia, nonché a una vivace ripresa dei commerci e delle manifatture, con un conseguente aumento della popolazione. Ma se questi furono i risultati più tangibili della rinascita delineatasi all’indomani del Mille, altrettanto importanti furono quelli che andarono via via maturando sul versante politico e istituzionale. E che Glauco Maria Cantarella pone debitamente in luce nelle pagine di un saggio che si raccomanda per la finezza dell’analisi congiunta a un brillante stile narrativo. 
Al centro della sua trattazione spicca la trama complessa e mutevole dei rapporti fra Impero e Papato durante quella lunga e serrata disputa, per l’affermazione di una potestà universale, del « dominium mundi» , che sfociò nella lotta per le investiture e che sembrò doversi concludere con il concordato di Worms del 1122 per poi riaccendersi, con ancor maggior violenza, dopo l’ascesa al seggio imperiale e a quello pontificio di figure dalla fortissima personalità come Federico Bar- 
Ma pagine interessanti sono anche quelle dedicate dall’Autore al sorgere delle monarchie, in particolare agli esordi dei regni di Inghilterra e di Spagna, dopo il consolidamento di quello francese; agli sviluppi delle autonomie comunali in Italia in connessione con le aspirazioni di libertà e i nuovi statuti di vari centri urbani del nord Europa; ad alcuni aspetti significativi della dottrina religiosa e della cultura di corte; ai movimenti riformatori e a quelli ereticali. Nella temperie di quell’epoca assunsero un ruolo di rilievo nuove comunità monastiche, derivanti dalla famiglia benedettina: i cluniacensi e i cistercensi. Soprattutto il primo di questi due Ordini svolse una funzione preminente nella costruzione di un modello di riferimento ideale nella vita religiosa ed ebbe una larga influenza nell’evoluzione intellettuale e artistica dell’Occidente. C’era nell’Ordine fondato nel 910 dal monaco Bernone nel convento di Cluny in Aquitania, e le cui propaggini si estesero poi in ogni angolo d’Europa, uno spirito cosmopolita e insieme fortemente centralizzato, consistente in un sistema concettuale sempre più organico, che, secondo Cantarella, rese Cluny una sorta di «ombelico del mondo» e di «garante degli equilibri e della pace fra il secolo e l’eternità». Del resto, dalle fila dei cluniacensi provennero due papi del livello di Gregorio VII, assertore di una concezione teocratica del potere e perciò risoluto antagonista dell’imperatore Enrico IV, e Urbano II, il promotore nel 1095 della prima crociata. Inoltre, ai monaci di quest’Ordine si deve la prima traduzione, nel corso del XII secolo, del Corano in latino. 
La regola cluniacense aveva ridotto le ore del lavoro manuale a vantaggio della preghiera e delle cerimonie liturgiche e processionali durante le quali la musica, in quanto elemento incorporeo e spirituale per eccellenza, costituiva un fattore di sublimazione nelle celebrazioni corali di fede e consacrazione a Dio dei cluniacensi. 
Nel cangiante mosaico di quei due secoli fra l’undicesimo e il tredicesimo che videro il passaggio dal mondo primo-medievale a quello tardo-medievale, un altro tassello emblematico nella gestazione di un nuovo universo più aperto e articolato, fu l’avvento di una nuova cultura politica. Si trattava di una cultura elaborata dagli ambienti di corte (come mai era avvenuto precedentemente in modo così ampio) in cui convivevano motivi della classicità, indagini teologiche e filosofiche, dissertazioni giuridiche, riflessioni sul passato e sul presente ma anche sul futuro, a cui era complementare una cultura letteraria in forme di intrattenimento e di esibizione. In questo stesso tornante il francese d’oil, quale lingua delle corti, divenne la nuova lingua internazionale.

La ferocia delle conquiste i primi governi “tecnici” la sensazione di fine del mondo
Il saggio di Glauco Maria Cantarella Perché siamo ancora sospesi in un eterno Medioevodi Siegmund Ginzberg Repubblica 10.3.15
«SONO arrivati. Sono sanguinari, sono selvaggi… Uccidere e massacrare è il loro divertimento». Tagliano teste, arrostiscono, cavano occhi, amputano mani, piedi, nasi. Sono d’oltremare. Ma non vengono dall’altra sponda del Mediterraneo. Vengono dal Nord. Non sono islamici. Anzi, sono il terrore dei musulmani. La ferocia è il loro biglietto da visita, ne fanno un deliberato uso mediatico. Un loro capo militare, Ruggero (non l’assai più tardo Ruggero di Sicilia ma Ruggero di Toeni), attorno agli anni Venti del Primo secolo riconquista ai Cristiani la Spagna terrorizzando i Saraceni: ogni giorno fa squartare e cuocere nei calderoni un prigioniero musulmano, ne dà da mangiare la metà agli altri prigionieri e si riserva il resto per sé e i suoi.
Poi fa di tutto perché si risappia: ne fa scappare alcuni apposta perché vadano a raccontarlo. Testimonianza di Ademaro di Chavannes, cronista aquitano quasi loro contemporaneo. Ci tengono alla loro fama di “crudelissima gente”.
Sono i normanni. Inutilmente Carlo Magno aveva proibito i commerci di armi con loro. Si erano specializzati nel ruolo di strumenti e cani dei potenti in lotta tra di loro. Si erano resi indispensabili. Un ramo si sarebbe impadronito della parte della Francia che si affaccia sulla Manica, poi di tutta l’Inghilterra, restando vassalli del Re di Francia. Un altro ramo era approdato da tempo in Sicilia. Poi, passando per la Puglia, erano arrivati in Campania, chiamati dai signori longobardi di Salerno e Capua, infine si erano insediati in un loro castello a Canossa. Controllavano le vie di comunicazione, non un territorio preciso e delimitato. Un po’ come l’Is a cavallo di Iraq, Siria e Libia. Si facevano chiamare marchesi ma non avevano nemmeno una marca. Eppure nel giro di pochi decenni avrebbero finito col dare origine dal nulla all’invenzione statuale di più lungo periodo della storia italiana sin dalla Repubblica romana, il regno dell’Italia meridionale.
È uno dei quadri, anzi delle “cerniere”, su cui fa perno l’ultimo lavoro di Glauco Maria Cantarella, il Manuale della fine del mondo, sottotitolo Il travaglio dell’Europa medievale , pubblicato da Einaudi. La “fine del mondo” temuta al volgere del primo millennio, a dire il vero non c’entra. Se ne discettava da molti secoli e ne riparlavano ogni volta che le cose sembravano andar peggio. Ma allora non esisteva nemmeno il concetto di secolo, che sarebbe stato inventato molto più tardi. Anche il “Medioevo” sarebbe stato inventato più tardi, solo nel ‘500. Oggi gli storici concordano nel considerarla «un’età né più buia né più luminosa di altre ». Semmai, leggendo questo libro, che segue gli innumerevoli altri che questo studioso gli ha dedicato, si potrebbe parlare di “Medioevo continuo”. Che ci evoca qualcosa del nostro presente. O forse addirittura del nostro futuro.
Non bisogna fraintendere. Cantarella, colonna degli studi di storia dell’Europa medievale e delle Istituzioni politiche medievali all’Università di Bologna, è uno storico serissimo, non gli si possono imputare “attualizzazioni” ad effetto, trasposizioni tirate, analogie superficiali. Semmai pignoleria quasi maniacale sulle “fonti” e sugli aggiornamenti continui nel campo di cui si occupa da moltissimi anni. In quell’epoca lui è di casa. Frequenta i protagonisti e ne conosce a menadito le complicate vicende, il modo di far politica, di ragionare, di giustificare, di far propaganda. Sbircia persino nelle loro camere da letto. Il suo “manuale” è una summa da grande specialista. Che però evoca anche nel lettore non specialista o per mestiere schiavo dell’attualità una gragnuola di suggestioni.
Il secolo di cui parla questo libro non è quello della fine del mondo, ma degli stratagemmi per non farlo finire. Dai Papi che si facevano notare solo per la “cieca cupidigia” (fagiano, oppure gallo veniva soprannominato Giovanni XVIII, boccadiporco Sergio IV) si passa a quelli che invece fanno politica per venire ad un nuovo modus vivendi con l’Imperatore e i nuovi regni in formazione e a nuovi ingegnosi compromessi sulle investiture, cioè le nomine dei vescovi, insomma a chi dovesse far capo chi incassava i tributi ed esercitava poteri di polizia, oggi diremmo le nomine tout court . Fu una riforma istituzionale infinitamente più complessa di quelle su cui si discute e si litiga oggi, che impegnò i migliori specialisti e per la quale, tra alti e bassi, rotture e ricomposizioni, colpi di scena e ripensamenti ci volle più di un secolo.
Era anche l’epoca in cui si affacciavano in scena veri e propri “professionisti del governo”. «Oggi forse li chiameremmo tecnici», nota Cantarella. Solo molto, ma molto più tardi sarebbero arrivati quelli che chiamiamo “politici”. Molti di questi “tecnici” erano di grande levatura. I Normanni, che pure avevano esordito come feroci mercenari e briganti, in Sicilia avevano messo in piedi una cancelleria coi fiocchi, in cui si governava in tre lingue, arabo, greco e latino, e si impiegavano non solo musulmani ma anche “tecnici” di valore internazionale importati dall’Inghilterra come Thomas Brown (o Le Brun). Erano stati loro a inventare lo “Scacchiere”, la tavola su cui si computavano, con procedimenti matematici d’avanguardia, rendite e cespiti delle baronie, e che ancora oggi dà il nome al ministero dell’economia britannico. Palermo quasi come Bruxelles. Ma forse non funzionava così bene, se poi il Mezzogiorno arrivò tanto disastrato all’Unità, come un agglomerato di feudi inespugnabili, impervio al senso dello Stato. Colpa degli Angioini, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Borboni (e magari degli intoccabili Svevi)? O di troppa tecnica e poca politica?
Quanto alle città, apprendiamo che prosperano grazie alle loro turbolenze. «Comune, nome nuovo e pessimo», lamentano i cronisti dell’epoca. I cives hanno la mala consuetudo di ribellarsi ai loro vescovi (e quindi alla potestas imperiale, quindi alle prerogative del governo) negandogli le imposte, «l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case», e tagliano i boschi e demoliscono «la città vecchia per costruirne una più grande». Pretendono persino che i contadini paghino i tributi a loro… Succede in Lombardia, ma anche in Francia, in Castiglia, in Renania… il disordine investe tutta l’Europa. Finché zona per zona, caso per caso, per fronteggiare l’emergenza, dovranno inventarsi nuovi compromessi istituzionali differenziati…

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