sabato 21 marzo 2015
L'epistolario di due scribi egiziani del 1000 a.C...
L’Egitto va a pezzi ma non ti preoccupare
Nelle
lettere di due scribi reali, padre figlio, conservate a Torino, scambi
affettuosi, raccomandazioni e lavate di capo, sullo sfondo di uno dei
periodi più tumultuosi nella storia dell’antica civiltà
di Maurizio Assalto La Stampa 19.3.15
Si mandavano messaggi affettuosi, interminabili voti augurali, saluti e
abbracci. Si raccomandavano prudenza, si rassicuravano sulla loro salute
e su quella dei loro cari. Qui tutto bene, e laggiù? Tranquillo, non ti
preoccupare. E i bambini? E la ragazza? Ma qualche volta bisticciavano
pure, il più anziano redarguiva il giovane, che gli rispondeva a tono.
Scambi epistolari tra padre e figlio. Per certi versi sembrerebbero
scritti adesso - o almeno in un tempo non troppo lontano, prima
dell’avvento dell’email. Invece risalgono all’Egitto di tremila anni fa.
Della miriade di documenti scritti che ci ha lasciato la civiltà
egizia, quel che colpisce è soprattutto la capacità di parlare con una
voce che travalica i millenni e si ripropone attuale e viva, in
contrasto con l’immagine stereotipata di un mondo lontano di mummie e
rituali funerari.
Una famiglia potente
I protagonisti di questa storia sono due altissimi funzionari addetti
alla Sede della Verità, ossia alla necropoli della Valle dei Re,
appartenenti a una della famiglie più in vista di Tebe, che da diverse
generazioni si trasmetteva l’incarico di scriba reale. Djehutymes il
padre e Butehamon il figlio, come è confermato dalle iscrizioni sui
sarcofaghi (esterno e interno) di quest’ultimo, provenienti dalla
collezione Drovetti venduta al Museo Egizio di Torino. Secondo la
consuetudine, il primo aveva cominciato come semplice operaio ed era
assurto al rango di scriba reale ai tempi di Ramesse XI (circa 1099-1069
a.C.). Identica trafila per Butehamon, che gli si affianca negli ultimi
anni del sovrano, e resta ben presto vedovo (una toccante lettera alla
moglie defunta è affidata a un ostrakon conservato al Louvre).
Sono tempi di dura crisi, economica, sociale, politica: furti nelle
tombe, scioperi, crescenti pressioni da parte delle tribù libiche
stanziate a Ovest, che tra l’altro hanno costretto la comunità di Deir
el-Medina, il villaggio degli artigiani che lavoravano nella Valle dei
Re, a trovare rifugio nel più sicuro sito di Demy (oggi Medinet Habu),
il complesso templare fortificato voluto da Ramesse III. Tebe è in preda
all’anarchia. Il nubiano Panehsi, viceré di Kush, chiamato per
ristabilire l’ordine, si dà al saccheggio. Il generale di origine libica
Herihor, inviato per scacciarlo, si fa nominare Sommo Sacerdote di
Amon, adotta la titolatura reale e si assimila al faraone, inaugurando
l’Età della Rinascita. Alla sua morte un altro militare di probabile
estrazione libica, Piankh, assume il pontificato e, pur senza contendere
la sovranità a Ramesse XI, comincia a governare in modo indipendente,
riprendendo nel contempo la guerra contro l’indomito Panehsi.
«Prega Amon per me»
È in questo quadro tumultuoso che si colloca la vicenda umana di
Djehutymes e Butehamon. In una situazione contraddittoria, in cui non è
mai facile definire con sicurezza chi sta con chi, le personalità dei
due scribi reali risaltano in tutte le loro sfumature, annullando
d’incanto la distanza temporale. È l’effetto prodotto dalle numerose
lettere che si scambiano, e che con moderno scrupolo conservano nei
propri archivi privati, parte consistente della cinquantina di «Late
Ramessides Letters» pubblicate da Edward F. Wente nel suo Letters from
Ancient Egypt (Scholars Press, Atlanta, 1990). Tre di queste, risalenti
all’anno decimo della Rinascita, ossia il terz’ultimo del regno di
Ramesse XI, sono conservate tra i papiri di Torino, e nel rinnovato
museo saranno esposte accanto ai sarcofaghi di Butehamon.
Nella prima è il padre che scrive. Si trova a Elefantina, l’isola alle
porte della Nubia dove si è recato per un incarico connesso alla guerra
con Panehsi. Dopo il rituale augurio di «vita, prosperità e salute e
favore di Amon-Ra, re degli dèi», con quel che segue (una formula lunga e
elaborata, che si ripete con poche varianti in tutte le lettere e che
da sola eccederebbe di gran lunga i limiti di un tweet), Djehutymes
racconta di come è arrivato ed è stato accolto da Piankh, che gli fatto
trovare pane e birra. Quindi una serie di raccomandazioni: «Ti prego,
chiedi a Amon mio signore di farmi tornare sano e salvo, e occupati
personalmente dei piccoli figli di Hemesheri e di Shedemdua [donne
citate spesso nella corrispondenza, che dovevano essere strettamente
imparentate con i due scribi, ndr] e riforniscili di olio. Non lasciarli
nel bisogno. E occupati personalmente di questa figlia di Khonsmose,
non trascurarla. Non preoccuparti per me». Un’ultima richiesta: «Di’ a
Amenpanefer di scrivermi».
Sebbene al suo arrivo Piankh lo avesse rassicurato - «Un’altra volta non
dovrai venire fin quaggiù» -, Djehutymes era tutt’altro che felice di
trovarsi in quei paraggi. Da un’altra lettera sappiamo che si era pure
ammalato, e in genere disseminava le sue missive di preghiere a tutti
gli dèi possibili, sollecitando i suoi famigliari a fare altrettanto.
Questi a loro volta lo ammonivano a stare bene attento, a non esporsi,
perché lui non era un guerriero e le montagne sopra Elefantina erano
piene di «pericoli di ogni genere».
L’incidente delle lance
Ma anche in questa situazione lo scriba non veniva meno al suo dovere.
Nella seconda delle lettere torinesi, vergate con la calligrafia minuta e
puntigliosa che gli egittologi ben riconoscono, specchio fedele del suo
carattere, non le manda a dire al figlio. «Guarda qua, per favore, cosa
significa ciò che mi dici?». Il riferimento è a una consegna di lance
avvenuta senza che Djehutymes ne sia stato preventivamente informato,
senza una lettera di presentazione, per un tramite a lui ignoto e con
una nave di cui non gli era stato comunicato il nome. «Le ho ricevute e
le ho trovate tutte in buone condizioni», concede, ma «che razza di
affare è mai questo? Io non posso passare sotto silenzio…». E già che
c’è, aggiunge un ulteriore rimbrotto, riguardo a una certa faccenda su
cui aveva scritto a Butehamon di riferirgli, senza avere soddisfazione.
Finisce il Nuovo Regno
Nella risposta dalla sua casa di Medinet Habu (di cui sono ancora
visibili le fondamenta e parte del colonnato) il figlio - buon sangue
non mente - risponde punto per punto, garbato ma fermo: «Io ho scritto
la lettera e l’ho data al guardiano Karoy […]. Gli ho detto di trovare
la nave e l’uomo al quale consegnarla e di scriverci sopra il suo nome. E
lui mi ha riferito: “È a Payshuuben che ho affidato le lance”. Che ne
so io di quel che ne ha fatto?». Quanto all’altra faccenda, assicura, è
tutto a posto, «non ti preoccupare».
Non ti preoccupare. E però, sullo sfondo di queste piccole questioni
private, in Egitto sta maturando un passaggio epocale. Con la morte di
Ramesse XI finisce dopo mezzo millennio il Nuovo Regno e comincia il
Terzo Periodo Intermedio: quattro secoli convulsi in cui il paese perde
la sua unità, dividendosi di fatto in un regno del Nord, governato da
Tanis, sul Delta del Nilo, da sovrani di origine libica, e da Tebe dalla
teocrazia dei Sommi Sacerdoti di Amon. Ma Djehutymes e Butehamon, tutti
presi dalle loro faccende, non possono rendersene conto. Gli
sconvolgimenti storici, quando cominciano, scivolano via inavvertiti.
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