Qui l'origine della tesi montanelliana, che ci vorrebbe tutti protestanti e zelanti accumulatori del capitale [SGA].
Mario Missiroli: La monarchia socialista, Le Lettere, Firenze, pagg. 150, € 15,00
Risvolto
Il primo, e più celebre, libro del grande giornalista italiano apparve alla vigilia della prima guerra mondiale e suscitò subito un vespaio di polemiche perché avviva una revisione critica della storia del Risorgimento e mostrava la fragilità dell’ordinamento statale dell’Italia unitaria. In esso era adombrata in maniera esplicita la tesi (che sarebbe stata ripresa da Piero Gobetti) secondo la quale lo Stato moderno presuppone la Riforma protestante. Ancora oggi, La monarchia socialista resta un testo fondamentale che ha un suo posto nelle interpretazioni del Risorgimento e, più in generale, della storia d’Italia. In appendice al volume sono riportati alcuni dei testi più significativi del dibattito suscitato dal libro.
Il primo, e più celebre, libro del grande giornalista italiano apparve alla vigilia della prima guerra mondiale e suscitò subito un vespaio di polemiche perché avviva una revisione critica della storia del Risorgimento e mostrava la fragilità dell’ordinamento statale dell’Italia unitaria. In esso era adombrata in maniera esplicita la tesi (che sarebbe stata ripresa da Piero Gobetti) secondo la quale lo Stato moderno presuppone la Riforma protestante. Ancora oggi, La monarchia socialista resta un testo fondamentale che ha un suo posto nelle interpretazioni del Risorgimento e, più in generale, della storia d’Italia. In appendice al volume sono riportati alcuni dei testi più significativi del dibattito suscitato dal libro.
Mario Missiroli, persino la monarchia (in Italia) è socialistaProvocatorio e sostenitore di un liberalismo non anglosassone, il giornalista offrì la prima revisione critica della storia del RisorgimentoDino Cofrancesco - il giornale Mar, 21/04/2015
Mario Missiroli (1886-1974) Un Paese frenato dalla religione
di Gennaro Sangiuliano Il Sole Domenica 29.3.15
«Bisogna rassegnarsi e trovare in noi stessi le regioni di conforto. Che vuoi? La nostra generazione è stata una generazione bruciata; e la colpa non è né nostra né degli uomini, ma delle cose», sono i primi passi di una lunga lettera privata che Mario Missiroli, all’epoca direttore del Messaggero, scrive all’amico Giuseppe Prezzolini che è esule volontario negli Stati Uniti, a New York.
Missiroli e Prezzolini sono due inguaribili pessimisti, dove il
pessimismo assume i caratteri di un tratto distintivo del loro
conservatorismo liberale, secondo la celebre definizione che dette
Thomas Mann.«Bisogna rassegnarsi e trovare in noi stessi le regioni di conforto. Che vuoi? La nostra generazione è stata una generazione bruciata; e la colpa non è né nostra né degli uomini, ma delle cose», sono i primi passi di una lunga lettera privata che Mario Missiroli, all’epoca direttore del Messaggero, scrive all’amico Giuseppe Prezzolini che è esule volontario negli Stati Uniti, a New York.
La lettera è del 1951, Missiroli è uno dei più affermati giornalisti
italiani, dal settembre del 1946 è il direttore de «Il Messaggero», un
anno dopo, nel 1952 assumerà la direzione del «Corriere della Sera» che
guiderà fino al 1961. Prezzolini vive da oltre vent’anni in America e
come dal titolo di una sua famosa rubrica sul «Borghese» guarda l’Italia
dal cannocchiale. Li separa l’Oceano, «non è escluso che un giorno
venga a prendere un caffè da te a New York», li unisce l’amore per la
libertà e l’ironia irriverente. «Noi ci avviamo ad una graduale
proletarizzazione dei ceti medi e ad un ulteriore impoverimento dei ceti
poveri. Questo mi preoccupa moltissimo poiché questa è la strada che
porta alla catastrofe», aggiunge Missiroli. E prosegue: «Ho fatto un
viaggio di recente nel Nord d’Italia, nel Veneto, e ho notato che le
persone di alta posizione sociale, quelle che hanno in mano la cosa
pubblica, gli affari, la finanza, tutto, non comprano nemmeno il
giornale e quando lo comprano non lo leggono».
L’Italiano è sempre colui che nasconde dietro la retorica dei buoni
sentimenti una forte dose di cinismo e servilismo. La critica serrata
che Missiroli muove alla natura dei suoi connazionali aveva trovato già
una compiuta teorizzazione nel saggio La monarchia socialista,
pubblicato alla vigilia della Prima guerra mondiale suscitando non poche
polemiche.
La storia d’Italia, o meglio la storia di quei limiti che ci impediscono
di essere compiutamente nazione, può essere ridotta ad un solo unico
problema, quello religioso, la troppa influenza del cattolicesimo e
l’assenza di quello spirito riformatore che il protestantesimo ha dato
al Nord Europa. La tesi è chiara, diretta, e ad oltre cento anni di
distanza contiene molti spunti di attualità, valutazioni che potrebbero
essere applicate alle criticità dell’Italia di oggi. Il saggio è stato
ripubblicato, poche settimane fa con un’articolata introduzione dello
storico Francesco Perfetti e un’appendice che raccoglie alcuni commenti
allo scritto, fra cui la recensione che fece Giovanni Gentile.
La grande rivoluzione civile e morale degli italiani, che meglio di
tutti era stata auspicata e delineata da Giuseppe Mazzini, si era
rivelata «impossibile presso un popolo che aveva perduto la sua ora tre
secoli prima, durante la formazione dei grandi Stati e che si era
smarrito in una decadenza letteraria quando gli altri si rinnovavano
nella riforma religiosa». Come osserva Francesco Perfetti, «alla base
del ragionamento di Missiroli c’era la convinzione che lo Stato moderno
che trae la propria legittimazione da se stesso e non già da una fonte
esterna come la religione, sia una creazione storica direttamente
collegabile alla Riforma protestante».
Quel rinnovamento unitario che il Risorgimento voleva conseguire
fallisce di fronte alle «insufficienze nazionali che respingono le
soluzioni eroiche», in questo modo «il popolo non conquista, ma è
conquistato: tutto è gratuito. Il fallimento ideale è totale». È il tema
della debolezza morale, corruzione e trasformismo allignano nella
doppia morale in cui gli italiani sono maestri, una diffusa retorica
ammanta l’assenza di uno spirito liberale e repubblicano.
Da giovane Missiroli aveva coltivato e nutrito profonda ammirazione per
Alfredo Oriani, l’autore de La rivolta ideale e de La lotta politica in
Italia, libri che segneranno le generazioni del primo Novecento capaci
di porre in termini crudi e chiari il tema del “Risorgimento mancato”, o
meglio del “Risorgimento tradito”. Poi era stato contiguo
all’esperienza della rivista «La Voce», quella che Malaparte definirà la
«serra calda del fascismo e dell’antifascismo», il programma fu chiaro
nel motto di Giovanni Amendola «l’Italia come oggi è non ci piace», che
esprime la delusione per il deficit delle classi dirigenti, carenti di
quello spirito della nazione che Prezzolini aveva trovato nella giovane
democrazia americana e Missiroli in quella antica britannica.
«Solo Giuseppe Mazzini ebbe sempre viva, pur fra tanti deliri poetici e
tanti smarrimenti, la coscienza delle grandi ragioni ideali del nostro
Risorgimento», ricorda Missiroli. L’Italia aveva mancato una Riforma
protestante che in altre nazioni occidentali aveva conferito alla vita
civile una carica di eticità. Affiora una sorta di «hegelismo», inteso
come capacità di rintracciare nella storia una dialettica delle idee che
spiega la realtà.
Il fallimento del Risorgimento era stato puntellato con il matrimonio
fra la monarchia e il socialismo, mediato dall’azione di Giolitti.
L’aspirazione a fare dell’Italia una nazione basata su una diffusa
coscienza civile e un’identità comunitaria, secondo l’insegnamento di
Mazzini, era stato abbandonato; la politica preferiva assumere una
dimensione quasi esclusivamente economica. Più tardi sarà Piero Gobetti a
fare sua questa interpretazione storica, ponendo al centro della sua
speculazione l’assenza di un principio etico diffuso e condiviso.
La monarchia socialista viene ripubblicato una prima volta nei primi
anni Settanta, Missiroli lo annuncia a Prezzolini in una lettera del
1971. Il libro non è un successo editoriale ma è accolto bene dagli
spiriti meno conformisti del giornalismo italiano, Indro Montanelli, che
lo recensisce sul «Corriere della Sera» e Alberto Giovannini che
riscontra «una diagnosi amara e spietata di una realtà dolorosa e spesso
umiliante».
«Sto in media dodici ore al giornale e sono le ore della maggiore
serenità. Tutto sommato siamo dei certosini sbagliati», scrive ancora
Missiroli all’amico Prezzolini. E la sera a cena con gli amici, dopo la
lunga giornata si lascia andare ai suoi sfoghi sulla situazione
italiana, ripetendo spesso: «Ci vorrebbe un giornale dove scriverle
queste cose!».
di Giovanni Belardelli Corriere 22.5.15
Riletto oggi, La monarchia socialista , il libro più noto di Mario Missiroli che ora torna in libreria a cura di Francesco Perfetti (Le Lettere, pp. 138, € 15), può apparire come un testo abbastanza irritante. I giudizi schematici e paradossali di cui è infarcito (Cavour «clericale», il socialismo «eminentemente reazionario», Pio X «maestro infallibile») sembrano rivolti più a épater le bourgeois , a colpire il lettore di un secolo fa (la prima edizione è del 1914), che ad approfondire davvero i problemi di un’Italia che aveva da poco celebrato il mezzo secolo di vita unitaria. Ma è un’impressione che bisogna superare, perché questo volume ha comunque avuto un rilievo nell’accreditare una certa, ormai diffusissima, spiegazione dei problemi e delle insufficienze di fondo del nostro Paese.
Problemi e insufficienze che Missiroli riconduceva in primo luogo all’impossibilità, per il Risorgimento, di operare quella trasformazione profonda delle coscienze che altrove era avvenuta grazie alla Riforma protestante. Per questo, secondo lui, lo Stato sorto nel 1861 non era mai riuscito a imporsi come un’entità pienamente autonoma e s’era mostrato da subito incapace di affermare il proprio valore etico di fronte alla Chiesa.
Lo strano titolo — La monarchia socialista — stava a significare che uno Stato intimamente debole, perché non aveva alcuna rivoluzione religiosa alle spalle, era stato salvato dal presidente del Consiglio Giolitti, che aveva saputo depotenziare la minaccia socialista grazie a una politica di apertura al riformismo turatiano.
Il libro non passò certo inosservato, anche se la tesi principale non era nuova. Missiroli la riprendeva soprattutto da Alfredo Oriani; ma in realtà l’idea che lì, nell’assenza di una Riforma protestante, stesse l’origine dei principali mali d’Italia — in primo luogo dello scarso senso civico e della debole etica pubblica che caratterizzavano i suoi abitanti — lo avevano pensato e scritto molti esponenti dell’élite risorgimentale e della classe politica che si era trovata a governare il nuovo Stato nei primi anni dopo l’unità.
Missiroli diede però alla tesi della mancata Riforma una veste nuova e, per così dire, novecentesca; negli anni seguenti, attraverso Piero Gobetti, che della Monarchia socialista fu grande estimatore, il nucleo centrale di quella tesi passò al filone politico-culturale che si richiamava al Partito d’Azione, fino a diventare un luogo comune dell’autocoscienza nazionale, una specie di spiegazione-passepartout per tutti i mali d’Italia.
Si tratta però di una spiegazione tanto apparentemente suggestiva quanto sostanzialmente indimostrabile (per farlo, bisognerebbe poter sostenere che gli stessi limiti che caratterizzano la cultura e i comportamenti degli italiani si riscontrano in tutti i Paesi di tradizione cattolica). Una simile spiegazione, oltretutto, scoraggia dal cercare in altre direzioni le possibili ragioni di certi tratti profondi della nostra cultura: anzitutto del debole senso civico di un Paese in cui i comportamenti illegali — dalla micro corruzione all’evasione fiscale — godono di una legittimazione diffusa. Ad esempio, riflettiamo raramente su quanto possa aver pesato invece, nella storia della penisola, più che l’assenza della Riforma protestante, la limitata presenza dell’assolutismo.
Cioè, di un forte potere statale capace di affermare la propria supremazia e di disciplinare la società, introducendovi determinati comportamenti, obblighi e regole di vita: tutte cose di cui anche una società democratica ha bisogno, pur non essendo spesso in grado, se non le ha ereditate dal proprio passato, di produrle direttamente. Magari sembrerà poco progressista imputare a una mancanza del genere certi mali dell’Italia di oggi. Ma potrebbe essere, almeno in parte, vero.
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