Nonno di tutti Vendola ma anche di tutti i Cuperlo e della loro codardia pubblica, ha saputo prendere le decisioni sbagliate nel momento sbagliato.
Gli irrisolti di Ingrao, irrisolti ancora oggi
I 100 anni di Pietro Ingrao
di Paolo Franchi Corriere 29.3.15
Una sera d’estate un bambino rifiuta di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Per convincerlo il padre gli promette un regalo, qualsiasi regalo. Il bambino accetta lo scambio, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia».
«Volevo la luna»
Quel bambino domani compie un secolo e si chiama Pietro Ingrao, e questo episodio lo ha raccontato nella sua autobiografia Volevo la luna, pubblicato nel 2006 da Einaudi. Una luna metaforica, chiamiamola comunismo, che Ingrao non ha mai raggiunto. Anche se non ha mai smesso di cercarlo. Nel salotto di casa sua, dove le visite sono limitate a parenti e a pochi amici intimi, ci ritroviamo con la figlia più grande Celeste, suo marito Marco Giorgini e una vecchia amica Giovanna Lumbroso. Ingrao parla poco, stavolta non parla affatto, però ascolta. La stanza è rimasta la stessa da anni, alle pareti molti quadri, qualcuno di Renato Guttuso e di Renzo Vespignani, tutti con dedica a Pietro e Laura. Ci sono molte foto, quelle di viaggi politici, quelle dei figli – cinque: Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido – quelle dei nipoti. Che sono otto, più dieci pronipoti e uno in arrivo. C’è anche un antica scimitarra che gli regalarono «i compagni vietnamiti», costruita col ferro di un aereo americano abbattuto dai vietcong, una foto di Che Guevara «che però piaceva più a mia madre che a mio padre, lui con Cuba non ha mai avuto un rapporto facile», spiega Celeste che nel frattempo gli sta preparando una sorpresa: una torta con cento candeline, naturalmente rosse.
La moglie Laura
La casa di Ingrao sta nel quartiere Italia, a due passi dalla tangenziale che venne costruita nei primi Anni Settanta. Pietro e Laura l’hanno lasciata solo nel 1976, per tre anni, quando lui fu eletto presidente della Camera e loro due si trasferirono nell’appartamento di Montecitorio. La casa allora restò dominio assoluto del figlio più piccolo, Guido, e dei suoi amici ventenni (tra cui chi scrive) che la trasformarono in un fantastico luogo di ritrovo serale, peraltro protetto da due poliziotti che stazionavano giorno e notte dentro il portone del palazzo. E proprio su quegli anni, Celeste e suo marito raccontano un episodio, anzi due finora sconosciuti. Durante il sequestro di Aldo Moro, venne ritrovato su un taxi un borsello con dentro un foglietto su cui era appuntato il numero di targa dell’auto di Chiara. Il fatto fu interpretato come un avvertimento, tanto che Pietro riunì tutta la famiglia e disse: «Se fossi sequestrato dalle Br, qualunque cosa dicessi voi non tenetene conto».
Si va indietro nel tempo, con la memoria e con le chiacchiere. Ma cent’anni sono tanti, un secolo appunto, quel Novecento che come lui stesso ha detto tante volte è stato il periodo che ha visto i cambiamenti, i terremoti sociali e politici più importanti della storia. Dalla rivoluzione russa al fascismo, dal nazismo alla resistenza, dai lunghi anni di scontro con la Dc al crollo del Muro di Berlino e alla morte del Pci, fino alle guerre moderne, cominciate con quella del Golfo nel ‘91 e non ancora finite.
Le lotte nel Pci
Una lotta dopo l’altra, col Partito ma anche dentro al partito. Lotte dure, difficili da vincere, e infatti lui nelle tante interviste o conversazioni fatte nel corso del tempo ha sempre enfatizzato con amarezza il risultato ottenuto: «C’è poco da fare, siamo stati sconfitti». E c’è un’altra metafora che sintetizza perfettamente il concetto, una sua poesia di poche parole: «Pensammo una torre/Scavammo nella polvere». Negli Anni Trenta era appassionato di cinema e di poesia. La scossa politica gli è arrivata con la guerra di Spagna, è a quel punto che Ingrao parte per la sua avventura comunista. Seguirà la resistenza, la clandestinità (il suo nome di battaglia era Guido), la Liberazione, la direzione dell’Unità, il rapporto anche conflittuale con Palmiro Togliatti, il suo famoso editoriale intitolato «Da una parte della barricata» in cui appoggiava l’invasione sovietica dell’Ungheria, di cui non ha mai smesso di pentirsi. E dopo aver scritto quell’articolo, rispettando la disciplina di partito, Ingrao andò a trovare proprio il leader del Pci per comunicargli il suo sgomento per quell’invasione. Togliatti gli rispose secco: «Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più».
Dopo Togliatti
Dopo la morte di Togliatti Ingrao diventa il leader della minoranza del partito. La sua battaglia per la democrazia interna e la critica al comunismo reale, sfociano nel congresso del 1966, l’Undicesimo, dove Ingrao e i suoi (quelli che qualche anno dopo fecero nascere il manifesto e per questo furono radiati con il voto favorevole del loro stesso maestro, altro episodio di cui Ingrao si è sempre autocriticato ferocemente,) vennero duramente sconfitti: «Cari compagni, mentirei se vi dicessi che mi avete persuaso», dice dalla tribuna. Una frase storica perché esprimeva per la prima volta nella storia del Pci il diritto al dissenso. Il lungo applauso è un omaggio che non cambia i rapporti di forza. Che non cambiarono neanche con la segreteria di Enrico Berlinguer, con cui non ci fu mai una vera sintonia, nonostante la stima reciproca.
Il resto è passato prossimo, lo strappo di Occhetto, l’opposizione del vecchio leader (che all’epoca aveva «solo» 75 anni), l’ennesima sconfitta, la sua uscita solitaria dal Pds, la sua ritrosia ad occuparsi della politica politicante anche perché non ha mai amato i nuovi leader della sinistra, da Occhetto a D’Alema (salvava solo Bertinotti, e non sempre). Pensava molto alla guerra come paradigma del mondo. Era nato durante la Grande guerra, aveva vissuto la «terribile» seconda guerra mondiale, ha marciato per il Vietnam, si è schierato contro tutte le guerre «americane» degli ultimi vent’anni. Compie cent’anni senza essere riuscito a vedere un mondo di pace.
Una sera d’estate un bambino rifiuta di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Per convincerlo il padre gli promette un regalo, qualsiasi regalo. Il bambino accetta lo scambio, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia».
«Volevo la luna»
Quel bambino domani compie un secolo e si chiama Pietro Ingrao, e questo episodio lo ha raccontato nella sua autobiografia Volevo la luna, pubblicato nel 2006 da Einaudi. Una luna metaforica, chiamiamola comunismo, che Ingrao non ha mai raggiunto. Anche se non ha mai smesso di cercarlo. Nel salotto di casa sua, dove le visite sono limitate a parenti e a pochi amici intimi, ci ritroviamo con la figlia più grande Celeste, suo marito Marco Giorgini e una vecchia amica Giovanna Lumbroso. Ingrao parla poco, stavolta non parla affatto, però ascolta. La stanza è rimasta la stessa da anni, alle pareti molti quadri, qualcuno di Renato Guttuso e di Renzo Vespignani, tutti con dedica a Pietro e Laura. Ci sono molte foto, quelle di viaggi politici, quelle dei figli – cinque: Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido – quelle dei nipoti. Che sono otto, più dieci pronipoti e uno in arrivo. C’è anche un antica scimitarra che gli regalarono «i compagni vietnamiti», costruita col ferro di un aereo americano abbattuto dai vietcong, una foto di Che Guevara «che però piaceva più a mia madre che a mio padre, lui con Cuba non ha mai avuto un rapporto facile», spiega Celeste che nel frattempo gli sta preparando una sorpresa: una torta con cento candeline, naturalmente rosse.
La moglie Laura
La casa di Ingrao sta nel quartiere Italia, a due passi dalla tangenziale che venne costruita nei primi Anni Settanta. Pietro e Laura l’hanno lasciata solo nel 1976, per tre anni, quando lui fu eletto presidente della Camera e loro due si trasferirono nell’appartamento di Montecitorio. La casa allora restò dominio assoluto del figlio più piccolo, Guido, e dei suoi amici ventenni (tra cui chi scrive) che la trasformarono in un fantastico luogo di ritrovo serale, peraltro protetto da due poliziotti che stazionavano giorno e notte dentro il portone del palazzo. E proprio su quegli anni, Celeste e suo marito raccontano un episodio, anzi due finora sconosciuti. Durante il sequestro di Aldo Moro, venne ritrovato su un taxi un borsello con dentro un foglietto su cui era appuntato il numero di targa dell’auto di Chiara. Il fatto fu interpretato come un avvertimento, tanto che Pietro riunì tutta la famiglia e disse: «Se fossi sequestrato dalle Br, qualunque
da Spogli
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La sua lezione pacifista
di Laura Boldrini il manifesto 31.3.15 qui
I suoi operai costituenti
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