martedì 31 marzo 2015
Quei gran minchioni della sinistra PD: sperare che Renzi li spazzi via e godere della loro disfatta o temere che possano passare con il Landini?
E' un bel dilemma. Ma la goduria di vederli in malora, dopo che per 20 anni ci hanno preso in giro, prevale [SGA].
La leader della Cgil al suo predecessore: «Non accetto lezioni da chi
da un giorno all’altro se ne andò a fare il sindaco a Bologna»
La Stampa 31.3.15
Alberto Leiss il manifesto 31.3.15
Ora Camusso incalza Landini: sgomberi il terreno dalle ambiguità
di Alessandro Trocino Corriere 31.3.15
ROMA «Il sindacato non deve dare messaggi ambigui». Susanna Camusso, da
Piazza pulita , si rivolge a Maurizio Landini, che con la sua coalizione
sociale e la manifestazione in piazza del Popolo ha lanciato un
messaggio politico contro il governo: «L’ambiguità non fa bene al
sindacato — spiega il segretario della Cgil —. Non fa bene dare il
dubbio ai lavoratori e alle lavoratrici che ci stiamo preparando dei
destini personali: sgombera il terreno».
La Camusso era in piazza sabato, anche se ha deciso di non parlare dal
palco. Sergio Cofferati, che aderirà alla coalizione sociale con una sua
associazione, giudica il bacio con Landini «un brutto bacio, un gesto
brutto, con lei che si ritrae». La Camusso replica così: «Lezioni di
affettività da Cofferati non ne prendo. Trovo che sia scadente
disquisire su una foto. Eravamo insieme nell’ultimo pezzo di corteo.
Dobbiamo discutere di chi un giorno ci ha detto “ciao ciao, vado a fare
il sindaco di Bologna?”».
Intanto la coalizione sociale si è messa in moto. Si esclude che
l’obiettivo finale sia la costituzione di un partito, mentre
probabilmente la tappa intermedia sarà un coordinamento. Ci sta
lavorando, oltre a Landini, Michele De Palma, coordinatore nazionale
Fiat-auto del sindacato dei metalmeccanici. Ne faranno parte alcune
associazioni, come Libera. Gino Strada, di Emergency, invece non ne sa
nulla: «Cos’è sta roba? Sono in Sierra Leone da sei mesi, non ci tirate
in mezzo. Sono iscritto alla Fiom e sostengo Maurizio. Ma la cosa per
ora finisce lì. Poi vediamo cosa farà, se farà politica o altro».
La svolta di Landini è guardata con diffidenza dai colleghi
sindacalisti. Carmelo Barbagallo, segretario della Uil, lo avverte:
«Tutti gli ex sindacalisti che si sono messi a fare partiti sono
scomparsi dalla scena politica». Dura anche Annamaria Furlan, leader
della Cisl: «Il grande movimento che vuole costruire Landini di
sindacale ha davvero poco. Landini sono tre anni che non firma
contratti, ha dimenticato come si fa». Ancora più esplicito il
segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli: «Operazione
sbagliata, è apprendistato pre-elettorale». Ostili anche i 5 Stelle — «è
nostalgico», dice Luigi Di Maio — mentre Goffredo Bettini apprezza:
«Come Renzi vuole fare saltare il banco, burocratico: per questo viene
criticato sia dal sindacato tradizionale sia dalla sinistra del Pd».
La minaccia della minoranza: «Al senato le riforme su un binario morto» La direzione Pd inizia con un applauso a Ingrao, padre del dissenso, e finisce con il dissenso spianato e un voto bulgaro
di Daniela Preziosi il manifesto 31.3.15
Italicum La madre di tutte le battaglie
di Marcello Sorgi La Stampa 31.3.15
Sarà la madre di tutte le battaglie - e la partita in cui si deciderà il
destino di questa legislatura nata sciancata, senza un vero baricentro
politico e una vera maggioranza - la sfida che si prepara alla Camera
sulla legge elettorale. Renzi ha scelto di anticiparla, somministrandone
ieri un sapido antipasto alla minoranza del Pd, perché ha capito che
ogni giorno in più d’attesa rischiava di trascinare lui e il suo governo
nel pantano che corrisponde all’umore di pancia dell’attuale
Parlamento.
Un Parlamento in cui nessuno o quasi vuole andare a votare, temendo di
perdere il posto, ma pensa che se proprio ci si dovrà andare, presto o
tardi, sarebbe meglio con il Consultellum, il meccanismo di emergenza
previsto dalla Corte Costituzionale con la sentenza con cui ha
cancellato il Porcellum. Che prevede, appunto, un proporzionale con le
preferenze grazie al quale verrebbero elette nuove Camere abbastanza
simili a quelle attuali, in cui nessuno ha ottenuto la maggioranza e il
governo si regge sull’alleanza del centrosinistra con un pezzo di
centrodestra e sulla disponibilità trasformista dei gruppi e gruppuscoli
che continuano a nascere dalle scissioni dei partiti maggiori.
Va detto che non potevano fare altro i giudici costituzionali - tra i
quali, va ricordato, al momento della sentenza, figuravano ben tre
candidati alla Presidenza della Repubblica, nonché accademici tra i più
conosciuti in materia costituzionale: Giuliano Amato, Sabino Cassese e
Sergio Mattarella, padre di un’altra legge elettorale maggioritaria e da
qualche settimana eletto Capo dello Stato con largo suffragio. Chiamati
a proclamare la manifesta incostituzionalità del Porcellum introdotto
dieci anni fa dal centrodestra, e non potendo lasciare il Paese privo di
sistema elettorale, dovettero cucire i pezzi di quel che restava della
vecchia legge per assicurare una ruota di scorta, nel malaugurato caso
che il Parlamento privo di maggioranze non fosse in grado di assolvere
al suo compito e approvare una legge più organica.
A dire il vero, di ipotesi sul da farsi ce n’erano, per questa come per
altre riforme. A metterle per iscritto, nel tempestoso avvio di
legislatura del 2013 in cui le Camere non erano state capaci, né di dar
vita a un governo, né di eleggere il nuovo Presidente dal Repubblica,
tanto che era stato necessario procedere alla rielezione di quello
uscente, ci aveva pensato il Comitato dei saggi voluto da Giorgio
Napolitano. Quel comitato aveva prodotto un catalogo di proposte, alcune
condivise, altre no, che dovevano fornire un semilavorato per i
Costituenti a venire. E in effetti, fu proprio a partire da quel
decalogo che il centrodestra e il centrosinistra, ma in realtà Renzi e
Berlusconi, a un certo punto trovarono l’accordo - il famigerato patto
del Nazareno - per realizzare il minimo indispensabile delle riforme che
aspettavano da anni, per non dire da decenni, di essere approvate: la
fine del bicameralismo perfetto, una diversa disciplina dei rapporti tra
Stato e Regioni e la legge elettorale.
È esattamente su questo programma che le Camere hanno lavorato in questa
prima metà della legislatura. Con più o meno accordo, anzi con tassi di
disaccordo crescente, ma tuttavia giungendo alle prime due approvazioni
(delle quattro necessarie) della riforma del Senato e all’approvazione
da parte del Senato della riforma elettorale, che adesso arriva alla
Camera per il sì definitivo. Questi i fatti. Non ci sarebbe neppure
bisogno di ricordarli, tanto sono vicini e presenti a tutti. Ma giova
farlo egualmente, dato che questo insieme, da un giorno all’altro,
diciamo dall’elezione del Presidente della Repubblica in poi, dacché era
un programma condiviso, o almeno sostenuto da una maggioranza, s’è
trasformato nella «deriva autoritaria» di Renzi: che a giudizio di
Berlusconi, non più suo alleato, e degli oppositori interni del Pd,
vorrebbe imporre una specie di golpe per garantirsi nientemeno che un
decennio di potere assoluto.
Ora, che in qualsiasi momento di un percorso parlamentare possa esserci
un ripensamento, di uno o più partiti, e le riforme che fino a ieri
sembravano opportune possano essere rimesse in discussione, è legittimo,
e ci mancherebbe. Nel passato recente e in quello remoto (basti pensare
alla famosa Bicamerale di D’Alema e al «patto della crostata» tradito
in una notte) è già accaduto. Tra l’altro, se parliamo del centrodestra,
lo sfarinamento del partito di Berlusconi è tale da non consentire
all’ex Cavaliere di governare nessuna intesa. Se invece ci si accosta
all’opposizione interna del Pd, è innegabile che molte delle richieste
che venivano dalla minoranza anti-renziana, specialmente in materia
elettorale, siano state accolte nel corso del lungo iter parlamentare
della legge: il doppio turno al posto di quello singolo, le preferenze
reintrodotte a dispetto del referendum del ’91 che le aveva abolite, la
riduzione e l’innalzamento delle soglie, secondo che si tratti di quelle
minime, per consentire ai partiti minori di entrare in Parlamento, o di
quella massima per ottenere il premio di maggioranza grazie al quale si
ottiene un risultato chiaro e un governo dotato di una maggioranza per
governare. La trattativa è stata così lunga che a un certo punto anche
il presidente Napolitano, che aveva svolto un’opera di mediazione tra il
premier e i suoi oppositori, dovette arrendersi al dubbio che il
negoziato fosse allungato all’infinito, più per evitare di decidere, che
non per migliorare la legge.
Ieri Renzi e gli avversari dell’Italicum hanno incrociato le armi per
l’ultima volta in direzione, prima di contarsi a Montecitorio. Stretta a
sinistra dal nascente movimento di Landini e dai grillini, e a destra,
ma meglio sarebbe dire da sopra, dall’incalzante pressione del premier,
la minoranza Pd va allo scontro divisa e nell’imbarazzante condizione di
doversi alleare con il centrodestra e i suoi franchi tiratori, pur di
fermare la legge e riportarla al Senato. Così è chiara almeno la posta
in gioco nella madre di tutte le battaglie: la scelta non è tra due
diverse riforme; ma tra la riforma e l’eterno vizio italiano del rinvio.
Lo spartiacque dei democratici l’ultimo addio al vecchio partito
Renzi non ha concesso nulla alla minoranza. Sarebbe apparso strano il contrario: la sinistra Pd non fa paura
di Stefano Folli Repubblica 31.3.15
È STATA una direzione del Pd che a suo modo segna uno spartiacque. A
causa del clima interno, per la frattura netta — e tuttavia priva di
conseguenze drammatiche — fra le correnti sulla legge elettorale. Ma
anche per il clima esterno: le inchieste giudiziarie, l’arresto del
sindaco di Ischia, le cooperative coinvolte con accuse pesanti. È una
coincidenza, senza dubbio, ma carica di simbologie.
È come se il vecchio partito nato venticinque anni fa dalla consunzione
del Pci, via via arricchito dall’innesto di altri filoni culturali, a
cominciare dalla sinistra cattolica, passato attraverso l’esperimento
dell’Ulivo prodiano e infine sfociato nel Partito Democratico, avesse
concluso la sua parabola. La legge elettorale che il premier-segretario
sta imponendo con inesorabile determinazione crea di fatto un altro
soggetto politico, centrato su di una leadership forte e pronto a
portare in Parlamento, quando sarà il momento, una cospicua
rappresentanza della nuova Italia renziana. Il cambio di passo
annichilisce i sopravvissuti delle stagioni trascorse, li cancella come
protagonisti e persino comprimari del dibattito politico. Li lascia in
campo fino al 2018 (o meglio, fin quando durerà l’attuale legislatura),
ma solo come testimoni del passato. Inoltre li costringe ad assistere al
lento smantellamento di un sistema di potere.
Comunque si voglia giudicarle nel merito, infatti, le iniziative della
magistratura hanno un retrogusto politico: colpiscono un certo mondo
della sinistra fatto di quadri locali, di piccoli e medi amministratori
connessi, in forma diretta o indiretta, alla rete delle cooperative. Si
ipotizzano reati, talvolta anche gravi, che riempiono le cronache. Ma il
significato è più ampio, va al di là della singola indagine
giudiziaria. In realtà si incrinano le fondamenta del «sistema». Un
sistema privo nella maggior parte dei casi di risvolti illeciti, ma
espressione di un vecchio rapporto fra il partito e i centri economici.
Tale rapporto viene messo in discussione, un passo alla volta,
dall’avanzata del «renzismo». Ed è l’aspetto più rilevante. Ma poi gli
arresti, gli indagati, le notizie di tangenti fanno capire quanto possa
essere rapida la crisi dell’antico assetto.
All’interno di questo scenario, Renzi non ha concesso nulla alla
minoranza sulla legge elettorale. Sarebbe apparso strano il contrario:
la sinistra Pd non fa più paura. Di qui i toni secchi al limite
dell’irrisione, il rifiuto esplicito del «ricatto», la volontà di
approvare il testo alla Camera entro maggio. Renzi ha vinto a mani basse
il confronto con i suoi oppositori e anche in questo caso non c’è da
meravigliarsi. Ha ottenuto la «fiducia politica» richiesta: quanti hanno
votato si sono espressi all’unanimità in suo favore; gli altri, gli
avversari, non hanno partecipato al voto. In tal modo hanno evitato di
contarsi, ma hanno anche dimostrato la loro estrema debolezza. Se
avessero preso parte alla votazione, il fronte anti-Renzi aveva buone
probabilità di spaccarsi, assecondando la strategia del premier che
punta — e non da oggi — a separare i giovani dai vecchi capi storici, i
Bersani e i D’Alema. Una divisione che nei fatti è già avvenuta, come si
vedrà nel prossimo futuro.
Ne deriva che un mattone dietro l’altro prende forma la fisionomia del
nuovo partito, grazie al collante della riforma elettorale. Intorno al
leader si aggregano pezzi di correnti in via di scomposizione e figure
singole approdate da altre formazioni, dal Sel a Scelta Civica.
Oppositori e dissidenti perdono terreno giorno dopo giorno. Ma non tutto
è in discesa nemmeno per il premiersegretario. È vero che le inchieste
della magistratura colpiscono il sistema di potere preesistente a Renzi,
ma è pur sempre lui il capo del Pd, cioè il responsabile politico delle
zone opache. La faccenda dei sottosegretari indagati non è in realtà
risolta e pesa. Come pesa la questione De Luca in Campania. La
costruzione del nuovo «partito della nazione» richiede ancora molti
passaggi spinosi per il leader.
L’opposizione evoca la scissione: “La ditta non c’è più”
di Goffredo De Marchis Repubblica 31.3.15
ROMA La Ditta non esiste più, «non a caso ieri non l’ha nominata
nessuno», osserva Pippo Civati. La tenuta del Partito democratico
stavolta è davvero a rischio, non funziona più l’antico slogan coniato
da Bersani per indicare la fedeltà alla linea, sempre e comunque.
Roberto Speranza mette in guardia: «Rischiamo di perdere un pezzo del
Pd. Ma io credo ancora in una soluzione». Sembra essere l’unico a
sperare in un lieto fine. O almeno in una tregua. «Non c’è più il Pd che
abbiamo costruito — drammatizza Alfredo D’Attorre —. Di conseguenza non
c’è più la Ditta. Renzi non ha nemmeno replicato al dibattito in
direzione. Significa che ha già deciso ed è tutto finto, roba buona solo
per lo show in streaming».
Finto o finito? La minoranza non ha partecipato al voto sulla legge
elettorale. Il premier non ha lasciato margini di trattativa e in questo
modo i dissidenti si tengono le mani libere per la discussione in aula.
Se l’Italicum è la madre di tutte le battaglie per Renzi, lo è
diventata anche per i ribelli. «Io non so se chiamarla scissione —
spiega Civati —. So che adesso tutti quelli che si oppongono al
segretario hanno capito che i margini della trattativa sono nulli.
Chiamiamola rottura, chiamiamola spaccatura. Comunque il Pd è più diviso
di ieri. Lentamente si vede che una parte dei nostri elettori non ci
segue più. Forse è il 10 per cento, forse il 5. Ma è una massa, piccola o
grande che sia, in fuga. Per loro la scissione è già cominciata. Hanno
capito prima di noi parlamentari che non si può dialogare con Renzi».
Se è una conta, i numeri sono decisivi. Le minoranze unite, che ieri
hanno dato un primo timido segnale di compattezza evitando di votare in
direzione, stanno valutando le truppe di cui dispongono alla Camera. Il
dato oscilla tra 100 e 110 deputati, un terzo del gigantesco gruppo
parlamentare, un piccolo esercito sufficiente a mandare sotto il governo
e a rovinare i piani di Renzi: approvare l’Italicum prima delle
regionali dribblando un possibile ritorno del testo al Senato. Ora
Fassina dice che il loro “no” all’Italicum non influisce sul governo,
non lo indebolisce perché «le materie di rango costituzionale vivono di
vita propria». Figurarsi. Non è quello che pensa Renzi, il quale affida
alle sorti della legge quelle del governo e della legislatura. Ovvero,
se si verifica un incidente in aula si torna a elezioni. E non ci crede
tanto neppure Fassina che evocando lo slogan bersaniano lo rottama: «La
Ditta funziona quando il capo sa ascoltare davvero, oltre che decidere».
Se il capo si comporta come Renzi, l’azienda si scioglie. O diventa
un’altra cosa.
La battaglia dell’Italicum punta, nelle intenzioni della minoranza, a
dimostrare che il Pd ha subito una «mutazione genetica». L’occasione è
proprio il voto in aula. Nel caso arrivasse il soccorso azzurro di una
ventina di deputati fedeli a Denis Verdini, nostalgico del patto del
Nazareno, sarà la prova che il Partito democratico si è spostato verso
la destra più invisa a un certo elettorato. È il modo per dimostrare che
a sinistra lo spazio si allarga e si può costruire qualcosa. Semmai, la
scissione la fa Renzi accettando la stampella di Verdini.
In un clima incandescente, sul terrazzo della sede Pd da cui si accede
alla sala della direzione, il premier viene accusato delle peggiori
intenzioni. «Si tiene aperte due caselle ministeriali (Affari regionali e
In- frastrutture ndr) promettendo posti a tutti per guadagnarsi il
favore di pezzi di minoranza », dice un bersaniano. Altri sospettano una
“compravendita” di deputati. Esplicitamente insinuano il dubbio che
voglia andare a elezioni presto, lasciando da parte la riforma
costituzionale. A Speranza, in un incontro recente, Renzi ha spiegato
che basta una decreto ministeriale per estendere l’Italicum anche al
Senato non riformato. «Ecco, appunto», chiosa il bersaniano.
Le minoranze si preparano a usare tutte le cartucce. Compreso il
richiamo a Sergio Mattarella, extrema ratio di una lotta feroce. «Renzi
ci ha sempre chiesto di fidarci di lui — ricorda Francesco Boccia —.
Stavolta sia lui a fidarsi di noi, del Pd». Sono i tentativi finali di
trovare un compromesso, contando su una marcia indietro del premier alla
vigilia del voto in aula, previsto dopo il 27 aprile. Speranza, leader
di Area riformista, proverà fino in fondo. Chiede 20 giorni di tempo per
decidere. Mette a disposizione la sua poltrona di capogruppo, se è un
problema di teste da tagliare. Cuperlo garantisce una solidità del voto
al Senato in cambio di modifiche condivise che riportino il testo a
Palazzo Madama. Posizione distinte sulle quali i renziani contano per
spaccare il fronte del no e avere i voti necessari subito. Ieri, a
fatica, è passata la proposta di Civati che ha portato tutte le
minoranze a astenersi dal voto in direzione: «A suo modo ha funzionato
perché è stata finalmente una giornata di chiarezza ». Ma le carte sono
tutte da giocare. Anche quella del voto di fiducia che ieri Renzi non ha
smentito. E che ridurrebbe la quota 100 dei dissidenti a numeri molto
inferiori. Ma lascerebbe lo stesso una ferita insanabile.
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