Non esiste più la socialdemocrazia, non c'è più spazio. Socialdemocrazia è una nostalgia ancora più utopistica del soviet [SGA].
La parola Sinistra e la bussola dei diritti
Governare il pluralismo non è per nulla facile La Sinistra ha un compito arduo e non immune da rischi di divisioni e abbandoni
di Nadia Urbinati Repubblica 31.3.15
LAVECCHIAS inistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava
la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una
classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli
scenari, per propaganda.
LIBERARE la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo
del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e
nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al
successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli
elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la
Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il
segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è
per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la
lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui
modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas
Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che
hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment
mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di
discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della
ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche
ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della
Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le
promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del
pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare
tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere
nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare
di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con
convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano.
Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea
interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla
pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per
il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su
quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le
parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o
perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non
deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo
facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da
ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali
(a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da
Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per
il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che
parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più
universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci
parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano
incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci
di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere
il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in
linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare
troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione
con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti
sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico
diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla
immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la
bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di
farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli
anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente
ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai
redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che
colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio
dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e
servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere
piena legittimità nella Sinistra plurale.
Dall’astensionismo alla Le Pen La sinistra ha tradito Hollande
In molti feudi “rossi” gli operai hanno disertato le urne o votato a destradi Leonardo Martinelli La Stampa 31.3.15
Il dipartimento del Nord, quello di Lilla, terra di operai e industrie:
al secondo turno delle provinciali, domenica, la sinistra l’ha perso.
L’Essonne, alle porte di Parigi, periferia popolare: perduta anche
questa provincia. Le Bouches-du-Rhône, l’agglomerato di Marsiglia, altro
bastione storico per i socialisti: caduto, inesorabilmente. Nessuno di
questi dipartimenti è passato al Front National: sono andati tutti
all’Ump, la formazione conservatrice, quella di Nicolas Sarkozy.
L’estrema destra, però, ha favorito tale esito «aspirando» una buona
parte dei voti della gauche, quelli dell’elettorato più popolare, che
alle presidenziali del 2012 aveva votato Hollande.
Le ali estreme
«Quasi mai si tratta di una migrazione diretta – sottolinea Jérôme
Sainte-Marie, presidente dell’istituto di sondaggi Pollingvox -.
Avviene, invece, per tappe. Quegli elettori passano prima attraverso il
limbo dell’astensionismo. Poi, se ritornano a votare, in tanti scelgono
l’Fn ». Questo avviene anche nel caso del Front de Gauche, l’estrema
sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che nel 2012 votò per Hollande e ora lo
tratta da traditore. Lo scetticismo nei confronti dell’euro e certi
discorsi battaglieri contro le banche accomunano Mélenchon a Marine Le
Pen: ma anche tra le due formazioni il trapasso, quando c’è, avviene
progressivamente. Ad esempio è stato «digerito» con l’astensionismo alle
elezioni europee o a quelle municipali dell’anno scorso.
Sainte-Marie non dispone ancora di dati nazionali. Ma ha gestito di
persona i sondaggi in alcuni dipartimenti che erano roccaforti storiche
della sinistra, nella zona di Parigi e nel Sud. «Quando ho visto che al
primo turno il 50% degli operai ha dichiarato di aver votato il Front –
sottolinea -, ho dovuto ricontrollare le cifre. Non ci potevo credere.
Le loro mogli sono spesso impiegate di basso livello. Tra di loro l’Fn
era al 40% perché le donne fanno più resistenza a votare per il partito
della Le Pen».
I sondaggisti
Una cosa è certa : sondaggisti e analisti concordano sul fatto che
nessuno (o quasi) degli elettori persi dai socialisti è andato verso
l’Ump. O diventano astensionisti o votano per l’Fn. «Anzi, domenica, al
secondo turno delle dipartimentali, abbiamo assistito a un ritorno di
voti all’Ump, persi in precedenza proprio a favore dell’Fn», osserva uno
dei consiglieri strategici di Sarkozy (e che non vuole essere citato).
«In media nei collegi dove al ballottaggio l’Ump ha affrontato il Ps, i
due terzi di coloro che avevano votato Fn al primo turno hanno optato
poi per il candidato del partito di Sarkozy». Anche Stéphane Rozès,
consulente per Hollande alle presidenziali del 2012, conferma che «non
ci sono voti persi dai socialisti che sono passati all’Ump. Gli elettori
delusi dalla sinistra, se non diventano astensionisti, passano all’Fn».
I guai dell’Eliseo
Rozès è ancora oggi all’Eliseo un «visitatore della sera», come a Parigi
chiamano coloro che alla fine della giornata vengono ammessi alla corte
di re François: a cercare di trovare una soluzione agli svariati
problemi che la gestione Hollande si trova ad affrontare. Il presidente
ha annunciato che, malgrado la disfatta delle ultime elezioni, va avanti
sulla sua strada: Manuel Valls come premier non si tocca. Neppure la
politica dell’austerità voluta dall’Europa. «Hollande l’aveva promesso
nel 2012: vuole mantenere il modello socio-economico francese, ma
riformandolo, in sintonia con Bruxelles – conclude Rozès -. La Le Pen
promette di conservarlo senza sottostare agli obblighi che arrivano
dall’esterno ». I francesi, quelli resi più deboli dalla crisi, le
vogliono credere.
Nessun commento:
Posta un commento