martedì 31 marzo 2015

Quella parte di sinistra che immagina di essere socialdemocratica non libera il campo

Non esiste più la socialdemocrazia, non c'è più spazio. Socialdemocrazia è una nostalgia ancora più utopistica del soviet [SGA].

Qui per Lazar qui per Piketty

La parola Sinistra e la bussola dei diritti

Governare il pluralismo non è per nulla facile La Sinistra ha un compito arduo e non immune da rischi di divisioni e abbandoni

di Nadia Urbinati Repubblica 31.3.15

LAVECCHIAS inistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.
LIBERARE la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.

Dall’astensionismo alla Le Pen La sinistra ha tradito Hollande
In molti feudi “rossi” gli operai hanno disertato le urne o votato a destradi Leonardo Martinelli La Stampa 31.3.15
Il dipartimento del Nord, quello di Lilla, terra di operai e industrie: al secondo turno delle provinciali, domenica, la sinistra l’ha perso. L’Essonne, alle porte di Parigi, periferia popolare: perduta anche questa provincia. Le Bouches-du-Rhône, l’agglomerato di Marsiglia, altro bastione storico per i socialisti: caduto, inesorabilmente. Nessuno di questi dipartimenti è passato al Front National: sono andati tutti all’Ump, la formazione conservatrice, quella di Nicolas Sarkozy. L’estrema destra, però, ha favorito tale esito «aspirando» una buona parte dei voti della gauche, quelli dell’elettorato più popolare, che alle presidenziali del 2012 aveva votato Hollande.
Le ali estreme
«Quasi mai si tratta di una migrazione diretta – sottolinea Jérôme Sainte-Marie, presidente dell’istituto di sondaggi Pollingvox -. Avviene, invece, per tappe. Quegli elettori passano prima attraverso il limbo dell’astensionismo. Poi, se ritornano a votare, in tanti scelgono l’Fn ». Questo avviene anche nel caso del Front de Gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che nel 2012 votò per Hollande e ora lo tratta da traditore. Lo scetticismo nei confronti dell’euro e certi discorsi battaglieri contro le banche accomunano Mélenchon a Marine Le Pen: ma anche tra le due formazioni il trapasso, quando c’è, avviene progressivamente. Ad esempio è stato «digerito» con l’astensionismo alle elezioni europee o a quelle municipali dell’anno scorso.
Sainte-Marie non dispone ancora di dati nazionali. Ma ha gestito di persona i sondaggi in alcuni dipartimenti che erano roccaforti storiche della sinistra, nella zona di Parigi e nel Sud. «Quando ho visto che al primo turno il 50% degli operai ha dichiarato di aver votato il Front – sottolinea -, ho dovuto ricontrollare le cifre. Non ci potevo credere. Le loro mogli sono spesso impiegate di basso livello. Tra di loro l’Fn era al 40% perché le donne fanno più resistenza a votare per il partito della Le Pen».
I sondaggisti
Una cosa è certa : sondaggisti e analisti concordano sul fatto che nessuno (o quasi) degli elettori persi dai socialisti è andato verso l’Ump. O diventano astensionisti o votano per l’Fn. «Anzi, domenica, al secondo turno delle dipartimentali, abbiamo assistito a un ritorno di voti all’Ump, persi in precedenza proprio a favore dell’Fn», osserva uno dei consiglieri strategici di Sarkozy (e che non vuole essere citato). «In media nei collegi dove al ballottaggio l’Ump ha affrontato il Ps, i due terzi di coloro che avevano votato Fn al primo turno hanno optato poi per il candidato del partito di Sarkozy». Anche Stéphane Rozès, consulente per Hollande alle presidenziali del 2012, conferma che «non ci sono voti persi dai socialisti che sono passati all’Ump. Gli elettori delusi dalla sinistra, se non diventano astensionisti, passano all’Fn».
I guai dell’Eliseo
Rozès è ancora oggi all’Eliseo un «visitatore della sera», come a Parigi chiamano coloro che alla fine della giornata vengono ammessi alla corte di re François: a cercare di trovare una soluzione agli svariati problemi che la gestione Hollande si trova ad affrontare. Il presidente ha annunciato che, malgrado la disfatta delle ultime elezioni, va avanti sulla sua strada: Manuel Valls come premier non si tocca. Neppure la politica dell’austerità voluta dall’Europa. «Hollande l’aveva promesso nel 2012: vuole mantenere il modello socio-economico francese, ma riformandolo, in sintonia con Bruxelles – conclude Rozès -. La Le Pen promette di conservarlo senza sottostare agli obblighi che arrivano dall’esterno ». I francesi, quelli resi più deboli dalla crisi, le vogliono credere.

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